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Anatomia di una caduta del maschio piagnone

In questa personale classifica sulle relazioni che vanno in frantumi al cinema, entra un altro grande film. Lei è una stronza di successo, lui si sente la sua vittima e la verità si sfalda in una miriade di versioni possibili. Lo schiaffo che ribalta tutto quel grande caos che è la coppia

Io e mia moglie amiamo guardare i film sulle coppie che vanno in frantumi. È il nostro guilty pleasure. Le commedie perfide tipo Guerra dei Roses o gli scorticamenti interiori di Cassavetes, i drammoni divorzisti à la Kramer contro Kramer, naturalmente parecchi Woody Allen, fino all’apoteosi di Chi ha paura di Virginia Woolf, saldamente al primo posto nel nostro pantheon personale (saremo tutti d’accordo che Liz Taylor e Richard Burton che litigano e bevono per due ore e dieci non hanno rivali). Anche delle romantic-comedy io amo soprattutto il dark moment. Quella scena piazzata verso la fine, quando tutto all’improvviso sembra perduto, quando Sally molla uno schiaffo a Harry al matrimonio dei loro amici e dice che non vuole più saperne, anche se sappiamo benissimo come andrà a finire. Se arriva al momento giusto mi piace anche il cliché di piatti e bicchieri scaraventati a terra (a mia moglie no). Ho un debole per i litigi in cucina, il grande palcoscenico della crisi di coppia, più della camera da letto. Le furibonde litigate dei film ti lasciano svuotato proprio come quelle vere, ma senza tutta quella fastidiosa tridimensionalità. Senza doversi poi chiarire, spiegare, negoziare, ma schierandosi semmai con gli attori («però Adam Driver la sovrasta… Scarlett Johansson è troppo leziosa…»), oppure prendendo le parti dei personaggi, che però è sempre più rischioso («lui doveva accettare subito il divorzio, si è rivelato egoista sino alla fine…»). Ma insomma, vedersi Marriage Story coi popcorn sul divano è meglio della terapia di coppia e della manualistica selfhelp, tipo Imparare a litigare bene per una vita felice (esiste davvero). Questa premessa è necessaria per raccontare l’ultimo grande film sulle coppie in frantumi che abbiamo visto insieme, e cioè Anatomia di una caduta di Justine Triet. È un film molto francese, molto “europeo”, Palma D’Oro a Cannes e grande sorpresa di questi Oscar, dove è candidato come miglior film, insieme a Scorsese, Oppenheimer, Barbie. Anatomia di una caduta ha una locandina formidabile che ricorda Fargo ed è uno strano incrocio tra La parola ai giurati, Scene da un matrimonio, Il delitto perfetto e Rashomon, con la verità che si sfalda in una miriade di versioni possibili e si perde nelle spirali dell’autofiction. È un legal thriller che mescola giustizia e letteratura e per gran parte si svolge in un’aula di tribunale. Ma è anche uno straordinario nuovo capitolo in fatto di litigi coniugali. Un piccolo trattato su “quel caos che è la coppia”, ogni coppia, come si dice nel film, soprattutto se è composta da due scrittori, uno fallito, l’altro di successo, come in questo caso (una premessa ideale per aspettarsi il peggio da entrambi).

In varie interviste Justine Triet dice che Sandra, la protagonista del film, è “una stronza”. «Una stronza nel significato più vero del termine, ma questo non vuol dire che non provi emozioni, che non soffra, che non odi, che non ami». Sandra è l’attrice tedesca Sandra Hüller, candidata come miglior attrice, e protagonista anche del film di Jonathan Glazer, La zona d’interesse, tratto da Martin Amis, altre cinque nomination, dove interpreta Hedwig Höss, moglie di Rudolf Höss, comandante di Auschwitz, indubbiamente una stronza che invece di emozioni ne prova pochine. In Anatomia di una caduta Sandra è accusata dell’omicidio di suo marito Samuel, insegnante con vocazione frustrata di scrittore, mentre lei ha pubblicato cinque romanzi e all’inizio del film è alle prese con un’intervista sugli intrecci tra vita e letteratura nei suoi libri. Siamo nel genere “coppia che si mette in trappola da sola”, tipo Revolutionary Road, con DiCaprio e Kate Winslet che si tumulano nella desolata periferia suburbana di New York, abbandonano il sogno di una vita insieme a Parigi, e si avvitano in una spirale di distruzione e atroci colpi bassi. Sandra e Samuel mollano invece una promettente vita a Londra per una solitaria esistenza tra le montagne di Grenoble. Un’idea geniale di lui. C’entra il loro unico figlio di undici anni, ipovedente dopo un tragico incidente. C’entrano la frustrazione e il senso di colpa di Samuel, convinto di poter ricompattare la famiglia isolandosi dal mondo, e ritrovare magari l’ispirazione, la calma per scrivere, l’autostima perduta. Eccoli invece rovinare nella più classica delle trappole per coppie: soli, nel nulla di Grenoble-Alpes, in uno chalet che ricorda molto certe situazioni agghiaccianti à la Thomas Bernhard, o la baita di Annamaria Franzoni a Cogne. È infatti il perfetto caso di cronaca nera che fa impazzire i media. C’è il cadavere di un uomo steso sulla neve, un unico testimone cieco (il bambino), un border collie che si rivelerà decisivo, e un’unica indiziata (Sandra). Una donna egoista, scrittrice, bisessuale, un po’ stronza, una potenziale manipolatrice bugiarda, una madre tedesca che vive in un posto che odia e parla una lingua che non è la sua. Il caso insomma è complicato. Suicidio? Incidente? Delitto premeditato? Non si sa.

Finito il film ascoltavamo i commenti degli spettatori (tutti molto anziani) che continuavano il processo lì fuori, davanti al cinema, divisi tra colpevolisti e innocentisti. Altri (molto giovani) borbottavano di borghesia bianca, privilegiata, cosmopolita, ripiegata su sé stessa, eccetera. Per noi si trattava di stabilire in che punto della classifica infilare quel violento scontro tra Samuel e Sandra, lasciando da parte la macchina investigativa. Nei film sulle coppie che vanno in frantumi si aspetta con ansia il grande litigio, che è come il duello tra lo sceriffo e il bounty killer in un western. La scena per cui paghiamo il biglietto. Le urla, le torture psicologiche, il rinfacciarsi cose orrende col viso contratto, le vene sul collo, gli occhi di fuori. Tutta quella furia scomposta e rabbiosa che viene fuori e non si può più trattenere. Oppure il vivisezionarsi calmo, freddo, affilato, come nei migliori Bergman, dove non si tira mai un cazzotto sul muro e non si piange a dirotto. Tanto per cominciare, Justine Triet qui ha una grande idea di regia. Il litigio va in scena con un file audio ritrovato per caso durante i sopralluoghi della polizia. Samuel aveva preso a registrare le conversazioni con Sandra, inclusa quest’ultima discussione, giusto il giorno prima di ritrovarsi con la testa fracassata davanti casa. La penna usb arriva in tribunale come una prova che potrebbe incastrarla. Cala il silenzio in aula. Li ascoltiamo odiarsi senza ritegno. È il kammerspiel nell’epoca dei vocali Whatsapp. Poi ecco qualche flashback. Ecco questo litigio rabbioso, sgradevole, soprattutto perché rivissuto davanti al figlio che è lì in tribunale e ascolta con noi. Una lite come sempre giocata su quella rivelazione improvvisa e terribile di vivere una vita che non ci appartiene, non più nostra, sentendoci appunto braccati e in trappola. C’è persino il bicchiere scaraventato sul muro, che però ascoltiamo e non vediamo (e per una volta mia moglie non ha avuto da ridire). Ci sono insomma tutti i cliché del caso. Solo che i cliché sono ribaltati.

Il gender-gap è tutto di Samuel, maschio debole, incompreso, vittimista, sminuito dall’ego di Sandra. Lei ha successo, lui no. Lei seduce uomini e donne, lui no. Lei scrive, lui non ci riesce. Verso la fine del file audio si sentono rumori sordi, tonfi, rantolii, i due che forse si stanno azzuffando. Pensiamo che Samuel la stia corcando di botte. E invece no. Sandra confessa, «sì gli ho dato uno schiaffo», uno di quegli schiaffi che si danno a un isterico per calmarlo. «Poi lui ha preso a pugni il muro». Il capovolgimento dei ruoli è completo. Il maschio che si sente azzerato, che reclama più tempo per sé, che in casa fa tutto lui, che il figlio lo cresce lui, che ha sacrificato la carriera per le faccende domestiche. Il maschio che frigna. Il maschio che si prende un ceffone. Sarei tentato di dire, “un maschio fragile”, ma capisco che non è aria. «Ma quale fragile», dice mia moglie, «prendi il suo romanzo lasciato a metà, per esempio» (Sandra gli ha fregato un’idea da un romanzo naufragato, usandola poi in un suo libro). «Non è lei che gli ruba le idee, è lui che preferisce commiserarsi anziché combinare qualcosa». È lui, insomma, che cerca un alibi per il suo fallimento. Lei vede delle possibilità. Lui immagina solo muri, ostacoli, blocchi, porte sbarrate. «Non sei in grado di affrontare le tue ambizioni», dice Sandra sapendo di ferire questo maschio debole e disorientato, mettendolo davanti al suo fallimento. Se agli Oscar hanno candidato Sandra Hüller, davvero perfetta e bravissima nei panni di questa scrittrice tedesca reclusa a Grenoble che si difende parlando in inglese davanti ai giudici francesi, a Samuel, dice mia moglie, «dovrebbero almeno dare il premio maschio piagnone dell’anno. Peggio di Ken». E forse non è un caso che anche qui, proprio come in Barbie, ci sia una regista donna che ha scritto la sceneggiatura insieme al suo compagno, con un bel po’ di autofiction al cubo (Arthur Harari, regista e attore anche lui, meno celebre di Justine Triet). Se Attrazione fatale metteva i maschi in guardia dall’adulterio, Anatomia di una caduta ci ricorda quanto può essere pericolosa una coppia di scrittori, o in generale che è meglio pensarci due volte prima di sposarsi qualcuno che coltiva aspirazioni identiche alle nostre (poi certo, come con l’adulterio, qualche volta può anche filare liscia).

Da perfetto maschio piagnone Samuel non perdona a Sandra di essere più forte, più sicura, più determinata e soprattutto più brava di lui. E sin da subito il processo per morte sospetta si trasforma in qualcos’altro. La posta in gioco non è più la verità. Come dice l’avvocato di Sandra quando lei ribadisce di non aver ucciso suo marito, «non è questo il punto». Il punto è casomai la nostra capacità di accettare che una donna, forse un po’ stronza, possa prendersi il lusso di avere tutto ciò che di norma concediamo a un uomo: successo, ambizione, sicurezza di sé, amanti e scopate in libertà. «Però anche Richard Burton viene schiacciato da Liz Taylor», dice mia moglie, «lei lo umilia per tutto il film … Justine Triet non si è inventata niente». Entrambi conveniamo però che i maschi piagnoni di oggi sono molto diversi dai maschi piagnoni di ieri, soprattutto sono molti di più. E tornando a casa sappiamo già che a breve ci rivedremo per l’ennesima volta, Chi ha paura di Virginia Woolf, per poi aggiornare la classifica.

Andrea Minuz (Roma, 1973), giornalista e professore di Storia del Cinema all’Università la Sapienza di Roma. Tra i suoi libri: “La Shoah e la cultura visuale” (Bulzoni, 2010), “Quando c’eravamo noi” (Rubbettino, 2014), “L’attore nel cinema italiano contemporaneo” (Marsilio, 2017, con Pedro Armocida) e “Fellini, Roma” (Rubbettino, 2020).