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Bentornato cinema adulto

Da Greed a Oppenheimer, cent’anni in cui il cinema è morto e risorto molte volte, ci ha trattati come ragazzini con i suoi multiversi, è ringiovanito e invecchiato di colpo. Siamo di nuovo al punto del “calcio in avanti”, grazie a due storie che non stanno sui social

Era il 1924 quando uscì «il primo film “adulto” mai prodotto in America», o almeno così sostengono alcuni cinematografari citati da David Thomson nel più bel libro sul cinema mai scritto (La formula perfetta. Una storia di Hollywood: è del 2004, in Italia l’ha pubblicato Adelphi due anni fa). Il film è Greed, da noi tradotto Rapacità, titolo con cui il suo regista, Eric von Stroheim, «diede un calcio al cinema e gli fece fare un passo in avanti», per innovazioni in fatto di tecnica e scrittura, ma non starò qui ad annoiarvi con lo specifico filmico (cit. Paolo Virzì). Ma sono tre parole, usate da Thomson, a dirci, più di tutte, la rilevanza di quel film. Greed è «un nuovissimo testamento» non solo per l’ispirazione manco troppo liberamente biblica, un film altamente moraleggiante (il danaro è brutto e cattivo!, gridava la nuova industria che, con la scusa dell’arte, s’era impiantata fra le hills californiane solo per far soldi) e fluviale (nove ore il director’s cut, poi ridotto a due dai produttori che volevano solo far soldi, appunto). Di soldi in realtà Greed ne fece pochi: costato 665 mila dollari, ne incassò 275 mila. Ma definì il nuovo corso del cinema hollywoodiano, la sua nuova mitologia.

Sono passati cent’anni esatti, è successo di tutto, ma l’avidità o rapacità che dir si voglia non s’è spenta. E però nel frattempo il cinema adulto non lo è stato più, ci ha trattati da ragazzini per anni, con i suoi multiversi declinabili all’infinito. È mille volte morto e mille risorto (in realtà, insegna sempre Thomson, era morto già in culla, eppure siamo ancora qui a parlarne: vorrà dire che siamo necrofili). È tornato ragazzino e quindi infante, come in quel film di David Fincher (uno dei pochi, parentesi, che non hanno mai smesso di trattarci da adulti), e dopo ancora è invecchiato di colpo quand’è arrivata la televisione che la gente che piace citava alle cene in piedi per gente che piace (la Prestige Tv, come diciamo anche noialtri a Prati o in Porta Romana così, per darci un tono). È stato barattato con l’high concept, e l’intellectual property, e noi che eravamo fermi all’happy hour (rinforzato pre spettacolo delle venti e dieci) siamo andati in crisi, fino a non capirci più niente. È entrato in un coma che pareva irreversibile, e ora rieccolo qua, a risorgere di nuovo, a tentare, soprattutto, di scrivere la sua nuova mitologia.

Rimettiamo in ordine le primissime parole di questo pezzo: film “adulto”; un passo in avanti; Rapacità. L’equazione è semplice, la soluzione è lì: Oppenheimer. Non sono un fan del film di Nolan, ma si può forse non riconoscergli la capacità di valere come discrimine tra un prima e un dopo, e con essa la sua adultità, persino la sua avidità (letteralmente nella parabola prometeica del fisico protagonista, idealmente per come il suo autore intende il blockbuster, ovvero in modalità anti Marvel). Se facciamo valere gli ultimi Oscar come simbolo di qualsivoglia cosa, allora è lì che è stato scritto il nuovo nuovissimo testamento. Gli Oscar sono un premio aziendale, lo sappiamo, ma sappiamo anche che ogni anno ci appassioniamo, facciamo il nostro toto-premi (io ho vinto quello di Rai Movie, sia messo per iscritto), urliamo scandalo, meraviglia, raccapriccio, e altre parole che sconfessano le une le altre, tutte insieme, come tutto insieme è il cinema, questo cadaverino che teniamo stretto tra le nostre mani, gli soffiamo sopra il nostro respiro caldo per riportarlo in vita, anche solo per una notte appena. Quest’ultima notte al Dolby Theatre, da noi in diretta da uno studio probabilmente di via Teulada, qualcosa forse è cambiato per davvero, si è provato a ricostruire il mito. Se il cinema vuole sopravvivere (o, per l’infinitesima volta, rinascere) deve ripartire dal sogno. Oppenheimer non è la formula perfetta, perché la formula perfetta – lo dice La formula perfetta – non esiste. Ma è l’epitome dell’opera di Nolan, e vale come ripartenza: nel senso da dare al cinema, oltre le piccinerie della vita; nella confezione e nello spettacolo; negli incassi (quasi un miliardo di dollari al botteghino globale); nell’esperienza fortemente percettiva che richiede (comune a un altro titolo di punta della stagione, e guarda caso parimenti premiato dall’Academy: La zona d’interesse di Jonathan Glazer, che non è nemmeno pensabile se non attraverso la fruizione immersiva – scusate queste brutte parole tutte insieme – nel buio della sala). Leggiamo che i cinema stanno andando benissimo, che le sale sono pienissime: qualcuna sì, a Roma e Milano, ci trovi la coda anche (soprattutto) alle dieci della domenica mattina. Ma è indubbio che quel poco (?) pubblico rimasto al cinema chiede altro. Su questo tornerò a breve.

Restiamo ancora dentro quella notte losangelina. È successo che Oppenheimer ha preso quasi tutto, ma sono accadute altre cose che ci indicano questa strada verso la ricostruzione del mito, verso il ritorno a cent’anni fa, quando tutto era già finito e tutto nasceva. Due premi in particolare vanno commentati. Il primo: quello al miglior attore non protagonista. Quest’anno, lo sapete, l’ha vinto Robert Downey Jr., sempre per Oppenheimer, ed è la favola hollywoodiana perfetta. Il giovane prodigio (prima il Brat Pack, dopo la candidatura all’Oscar per Charlot) poi travolto dalla droga, quindi redento grazie ai rehab e soprattutto a Iron Man in quei film contro cui, curiosamente, s’è sempre messo il Nolan che ora di Downey Jr. ha sancito la definitiva resurrezione (morti, rinascite). Il secondo: l’Oscar alla miglior attrice protagonista. Sconfessando il recente corso politico dell’Academy, Emma Stone ha vinto per Povere creature! di Lanthimos contro il pronostico generale che vedeva trionfatrice Lily Gladstone, nativa americana che avrebbe scritto la storia (una nuova storia) degli Oscar, simbolo – già urlato a gran voce da Killers of the Flower Moon di Scorsese – dell’America che ribalta la rappresentazione di sé stessa operata attraverso la più popolare delle arti. Stone è una diva formato Golden Age, una Katharine Hepburn di quest’epoca che Katharine Hepburn l’ha rimossa (la scrive con la “e”, la confonde con Audrey), una star senza social (come del resto Nolan non ha nemmeno il telefonino: un caso?!??!??! NON CREDO!!!1!!!1!!), prim’attrice pura. Anche questa è ricostruzione/ricostituzione del mito: la diva pura, quasi intangibile. Colei (o colui) che «trasforma l’istantanea in un sogno (…) e crea l’irrealtà» scrive sempre Thomson nel suo tomo. «Il sentimento di “essere innamorati” delle enormi facce (e dei vani desideri) che campeggiano sugli schermi ci accompagna fin dagli albori di questo strano mezzo di comunicazione».

C’è una frase dell’autobiografia di Werner Herzog, altro libro magnifico sul cinema e su chi lo fa (Ognuno per sé e Dio contro tutti, uscito per Feltrinelli), che mi ha colpito: «Il cinema è tornato a essere ciò che è sempre stato e deve essere». Lo scrive parlando delle tecnologie impiegate nella produzione di The Mandalorian, la serie starwarsiana in cui è stato di recente coinvolto come attore. Ma presa così, e pronunciata da uno dei registi massimi in fatto di calci al cinema e passi in avanti, quella frase ha una forza sì atomica. Dunque: il cinema è tornato a essere ciò che è sempre stato proprio per quella ricerca del passo in avanti, che spesso vuol dire un passo indietro, all’origine di tutto; per il rinnovato divismo classico, in barba al Cencelli della giustezza razziale morale; e per quella terza cosa che, dicevo prima, è ciò che chiede il pubblico al cinema oltre la fantomatica “esperienza della sala”, che da sola non era più sufficiente.

«Il bisogno di raccontare storie è inscindibile dalla voglia di fare soldi»: è l’ultima volta che cito Thomson, promesso. Ma nel campo che viene preso come arte ma che alla sua essenza resta industria le storie servono prima di ogni altra cosa. Barbie che scopre la morte, e i piedi piatti, e la vita oltre il rosa. Bella Baxter che scopre il mondo, dentro e fuori di sé. Il comandante Höss che pensa che dietro il muro del giardino di casa non ci sia l’orrore. Sandra e Samuel che si rinfacciano l’ispirazione e l’amore. Mollie Burkhart avvelenata nel corpo e nell’anima. Nora e Hae Sung riallacciati dal filo del destino. Thelonious che è uno scrittore nero, sì, ma non abbastanza nero per i bianchi che oggi si offendono loro, quando si fanno battute sui neri. La nostra Delia che stringe forte in mano la lettera per andare a votare. Sono le storie (adulte) di quest’anno per cui ci si è alzati dal divano, su cui si è discusso, per cui si è riso e pianto, e bisticciato. Le storie che trovavi al cinema, pensa te, non ci avevate detto che era morto, che se l’era mangiato la tv coi suoi draghi, le sue famiglie di ricchi che si fanno la guerra sull’eredità, i suoi scalcagnati allenatori di calcio e le sue stand-up comedian prima che esistesse la stand-up comedy?

Dicono che la prossima stagione andrà malissimo, che un’annata come questa è come il Bordeaux del ’61. Che dobbiamo sperare nel nuovo Joker (che però è un musical, uno dei generi più classici che ci siano; e arriverà anche il sospiratissimo Wicked, da uno degli show più longevi di Broadway e West End), nel Guadagnino tennistico (Challengers, a vederlo sembra Scandalo a Filadelfia, a proposito di Katharine Hepburn), in storie della solita guerra (Blitz di Steve McQueen, quello del 12 anni schiavo già ampiamente oscarizzato), dei soliti papi (Conclave di Edward Berger), di vermoni spaziali (il nuovo Dune), e di nuovo in Emma Stone di nuovo con Yorgos Lanthimos (Kinds of Kindness), e addirittura nel nuovo Gladiatore riesumato per rispolverare altri miti, i pochi rimasti nel cinema degli anni Duemila. E poi, cent’anni dopo l’origine (o quasi) di tutto, arriverà un film di Francis Ford Coppola, che non gira niente da tredici anni, e questo si intitola Megalopolis, e forse non c’è titolo migliore, per dire quello che dev’essere il cinema adesso, per dire cosa deve fare quel Lazzaro felice per rimettersi in piedi, che dev’essere più grande di tutto, rapace, sempre in avanti, per forza indietro.

Mattia Carzaniga (Vimercate, 1983), giornalista. Ha scritto “L’amore ai tempi di Facebook” (Zelig, 2009, con Giuseppe Civati) e “Facce da schiaffi” (ADD editore, 2011).