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Dimmelo tu cosa c’è in fondo alla strada maestra

Durante le riprese di «Morte a Venezia», Visconti inizia a consumare il ragazzo più bello del mondo, mentre lui e Bogarde sono fusi in un silenzio totale. La strapotenza di un anelito per trovare l’Angelo della morte, col dito all’orizzonte. «Devi ridere da vecchio», seconda parte

I. Con un bacio mi tradisci

Devo confessarle che per lei provo un certo trasporto. La vecchia espressione romagnola per dichiararsi innamorati si sovrappone nel medesimo dialetto all’immagine del carro funebre. In entrambe le dinamiche siamo trasferiti dove non saremmo mai arrivati da soli e dove forse non saremmo nemmeno voluti andare. Il processo non è mai indolore. Così anche nell’arte in qualunque sua forma. Dorothy Sayers e a suo modo Agostino prima di lei si rifacevano all’immagine della Trinità per mettere a fuoco ciò che avviene nella mente di chi crea. Per prima cosa sorge l’idea già perfetta, il Padre all’origine e alla fine, limpida e remota come un miraggio tremante nell’aria prosciugata del deserto. Ho già il libro in testa, debbo solo scriverlo, si dice. Quel “solo” è tutto il patimento del Figlio, il suo cammino nella polvere del tempo e lo spazio dove tutto si complica e pare guastarsi, i miracoli e le incomprensioni e la passione, l’arresto, la tortura, l’uccisione e il seppellimento da cui risorgere come significato. Fuoco nel ferro temprato col ghiaccio delle lunghe veglie. E lo Spirito soffia in chi l’opera la riceve e accoglie, un mutuo respiro tra autore e lettore, ascoltatore, spettatore, dato e restituito in uno scambio che supera la somma dei due. Anche per questo, in fondo, vero patrono dei traduttori, di coloro che del trasporto, del tradere fanno la loro vocazione, è Giuda Iscariota che tradisce con un bacio. Per Hölderlin chiunque tenti di adattare in altra lingua o forma un’opera d’arte è un apostolo di Padre Tempo, attua un testo le cui potenzialità paradossalmente sono ancora implicite nella sua stesura originale. Al tempo stesso il malevolo Seth che attira Osiride ancora vivo in una cassa luccicante e micidiale e Iside che dal sarcofago estrae lo sposo e ne ricompone il corpo piangendo. Leggiamo le didascalie al film su Gesù mai realizzato da Dreyer, il colloquio con la samaritana al pozzo («Dammi da bere» dice lui e un debole sorriso attraversa il volto della donna, non era forse umiliante per un giudeo chiedere qualcosa a lei, «Come mai tu, chiedi da bere a me?») o assistiamo al Purgatorio di Federico Tiezzi e Sandro Lombardi, dove Dante, confessandosi a Beatrice, pare uno di quei consorti di Bergman che si tengono la testa fra le mani a bordo letto e ripercorrono una vita frustrata e mancante. Sono semplicemente aggiunte, queste? Quando infine Luchino Visconti e Dirk Bogarde si accinsero a realizzare insieme Morte a Venezia nel 1971 dalla novella di Thomas Mann, per sentieri diversi a scalare la medesima montagna ciò avrebbe voluto dire stringere ed esprimere la somma della loro vita e dei loro nodi emotivi ed espressivi. Ciò che per Mann nel 1911 era stato dare voce con ironia tragica al presente suo e di una intera generazione, per regista e attore voleva dire fare i conti col proprio passato che in fondo è il solo modo per guardare davvero all’estremo limite del futuro.

II. Devi fidarti di me

Luchino poteva massacrare con una sfuriata, o semplicemente non dire niente. Notava comunque tutto. A inizio riprese de La Caduta degli Dei Dirk Bogarde doveva solo guardare in camera e alzare una pistola. «Ti ho osservato il primo giorno ricordi? Hai fatto sei riprese per me tutte diverse, il primo giorno? Nessun dialogo, solo la mente. Ho visto. E ho capito che avevo trovato il mio attore. Ti ho promesso un regalo, ci ho bevuto sopra, e ora lo accetti». Visconti sedeva con Bogarde e tra loro era posata una copia della novella di Mann. «Molto bene, ma non devi fare nient’altro finché non lo facciamo. Promesso? Aspetti solo me. Capito?». «Certo. Ti aspetterò per tutto il tempo che mi chiederai». L’altro scostò il piatto del dolce e gli diede l’unica indicazione. «Devi iniziare subito a imparare. Devi ascoltare tutta la musica di Mahler, tutta. Ascoltarla e ascoltarla. Noi facciamo uno studio sulla solitudine, se ascolti la musica capirai, e devi leggere, e leggere, e leggere il libro. Nient’altro. Devi vivere il libro. Alla fine non ti dirò nulla. Lo saprai. Perché Mann e Mahler te lo avranno detto; ascolta quello che dicono e sarai pronto per me. Quando sarà il momento». Mentre Bogarde sprofondava nelle pagine e le note, l’altro si ritirò a sua volta nel suo palazzo a Ischia – «mi aveva detto di essere comunista, trovai difficile però accettare la cosa tra i palazzi, i Picasso, i camerieri e i cuochi e lo splendore e l’abbondanza del suo stile di vita» – a raccogliere il fiato prima del balzo.

III. Ecco a voi Thomas Mann

Per quanto galvanizzati dal successo degli orrori sadici de La Caduta degli Dei, i produttori americani adesso erano sconcertati dai costi del nuovo film in costume e soprattutto dal tema principale. Anch’essi lo avevano tradotto a modo loro: «Un vecchio che va dietro al culo di un ragazzino». Volevano cambiare Tadzio in Tadzia. Visconti non cedette. Era una «ricerca della purezza e della bellezza», non una variante di Lolita. Rovesciò le carte in tavola e dichiarò di lavorare senza compenso, stabilendo un esempio impossibile da ignorare per gli altri. Silvana Mangano accettò mero soggiorno e spese pagate, e lo stesso cerchio si allargò a costumista e scenografi e direttori della fotografia. Restava la questione dei diritti medesimi, inaspettatamente in mano a un privato “Mannlofilo” che godeva a impuntarsi. Visconti minacciò di sputtanarlo su tutti i giornali del mondo come il miserabile che aveva osato impedirgli di girare Thomas Mann. Il quartier generale fu stabilito a Ca’ Leone. Per la conferenza stampa di inizio riprese Luchino aveva immaginato già una messa in scena metanarrativa. Bogarde doveva presentarsi in costume, non attore ma personaggio vivente, in totale fusione, un fantasma evocato. Nelle intenzioni originali, vista la trasformazione di Aschenbach da romanziere a musicista, il trucco facciale doveva ricordare il viso di Gustav Mahler. Ma il naso aquilino non si adattava ai lineamenti di Bogarde, lui non riusciva a muovere il viso. I giornalisti aspettavano, i costumisti erano nel panico. Di colpo lui ebbe una idea, si fece passare dei baffi grigi. «E venne, non tutto insieme, ma a piccoli sussurri… portando con sé il peso dei suoi anni, l’irritabilità della sua solitudine, la stanchezza del suo corpo malato, e rigidamente uscì nel lungo, lunghissimo corridoio che portava alla grande scalinata, spaventosamente consapevole dei suoni di voci e risate che salivano dal basso. In cima alla scala si fermò di colpo, con una mano tremante che stringeva la fredda ringhiera di mogano, cercando di squadrare le spalle cascanti che sottolineavano la sua agonizzante timidezza; i volti si voltarono rapidamente verso di lui. Continuò a scendere adagio, concedendosi un sorriso di superiorità tedesca. Da lontano io sentii improvvisamente la voce di Visconti rompere il silenzio quasi insopportabile. ‘Bravo! Bravo!’, gridò. ‘Guardate, guardate tutti! Guardate! Ecco il mio Thomas Mann!’».

Eromenos era stato trovato. L’amante posseduto dal dio, che non ha alcuna bellezza in sé ma è scosso dal vento della fame senza confini. L’altro polo era Erastes l’amato, linea euclidea e curva che si fanno luce in un braccio alzato o nelle linee del volto. Il messaggero del dio che umilia e innalza.

IV. Stella del mattino, stella della sera

Karl Ove Knausgård pativa da adolescente il viso delicato e i biondi capelli che lo facevano somigliare, a detta d’altri, al Tadzio di Björn Andrésen. Lo stesso Björn avrebbe patito quel medesimo marchio per tutta la vita, un morso di tagliola. Non è facile trovarsi improvvisamente addosso gli occhi di tutti quale “ragazzo più bello del mondo”, esordire come perfezione incarnata di qualcosa che, da quel momento in poi, si farà sempre più distante, una breve sovrapposizione tra due navi che un momento dopo si distanziano sempre più, dirette ai diversi poli. Ironia dolente, la sua vita pare uscita proprio da un romanzo di Knausgård. Sua madre era scomparsa e ritrovata morta, suo figlio soffocherà a pochi mesi mentre lui, ubriaco, ronfava inconsapevole. A quattordici anni fece il provino per Morte a Venezia spinto unicamente dalle ambizioni della nonna. Tra centinaia di ragazzi di Budapest, Stoccolma, Varsavia, Visconti, che sulla Quest fece un documentario a sé, aveva capito subito che era lui, ma per non deludere le file di genitori e ragazzini continuò comunque il tour. Andrésen fu convinto dalla promessa di guadagnare abbastanza da potersi accaparrare una moto e una chitarra elettrica. Non poteva prendere il sole, giocare a calcio, nuotare. Faceva esplodere enormi chewing gum. Ficcava un “man” in ogni scambio in inglese. Non temeva Visconti e le sue sfuriate. Puntuale e obbediente sul set, anche quando nei weekend era riuscito a strapparsi le poche ore che gli piacevano davvero, a ballare con le ragazze e pomiciare. Protezione, possesso – per quanto le due cose si possano distinguere – il regista aveva tacitamente imposto che nessuno della troupe lo sfiorasse o approcciasse. Totalmente altro, senza alcuna battuta eccetto qualche interiezione in polacco, carpita a fatica sopra lo sciabordio del mare e le voci degli altri villeggianti, non doveva neppure conoscere la sceneggiatura o leggere il libro. Ma lui lo fece. «Ho capito finalmente chi sono, man» disse a Bogarde. «Sono l’Angelo della Morte, giusto?».

V. Voi siete la musica

Venezia era già stata protagonista della prima parte di Senso, tra veli stesi sui volti e poi stracciati, scostati via. Boito, Hayez, i macchiaioli, Bruckner, sebbene il vigliacco tenente tedesco si chiamasse già Mahler. Adesso si trattava di farne lo sfondo per una morte artistica, per come muore un artista, e gli echi sovrapposti erano il Mann anche del Faustus, ovviamente, D’Annunzio e la stessa giovinezza di Visconti che, al pari di Proust, vi andava in vacanza con la madre amata diventava quella di Tadzio e impersonata da Silvana Mangano che aveva dovuto mostrare come sapesse indossare la veletta di tulle, sorgente della vita e della morte. Quanto a Bogarde, trascorse le riprese isolato da tutti in una sorta di limbo, la «sfibrante concentrazione per mantenere lo spirito fragile» da evocare e trattenere. «Eravamo fusi in un mondo di silenzio totale. Parlavamo raramente e mai del film. Ci sedevamo un po’ distanti l’uno dall’altro, ammettendo il bisogno di privacy dell’altro, mai però a più di un metro di distanza. Lavoravamo come una persona sola. Sapevo, istintivamente, quando lui era pronto, lui sapeva quando lo ero io». Una giornalista americana era infastidita. Li spiava e non carpiva niente. «Non capisce il matrimonio, eh?» commentò Luchino. «Credo che l’unica istruzione diretta che mi abbia mai dato sia stata una mattina, quando mi chiese di stare in piedi nel piccolo motoscafo nell’esatto momento in cui sentivo il sole di mezzogiorno colpirmi il viso mentre passavamo sotto il grande arco del ponte di Rialto. Non seppi perché dovessi fare quel movimento specifico in un momento così preciso finché non vidi il filmato finale con lui, alcuni mesi dopo, e solo allora capii che aveva coreografato l’intero film, inquadratura per inquadratura, fondendo tutti i miei movimenti con la musica dell’uomo che aveva voluto incarnasse l’anima di Gustav von Aschenbach. Gustav Mahler». Una notte in cui Bogarde doveva accasciarsi su un pozzo e abbandonarsi a una risata irrefrenabile per la condizione ridicola cui si era ridotto, inseguendo senza scopo Tadzio per le calli, Visconti gli chiese di rifare la scena. «Troppo consapevole; troppo giovane, soprattutto. Devi ridere da vecchio». Suo modo per dirgli

«bene» fu mormorare «d’accordo», «mentre attraversava la piazza sudicia per aiutarmi a rimettermi in piedi. ‘Bogarde’, aggiunse poi, ‘ho qualcosa di incredibile da mostrarti: Guarda!’. Con un braccio intorno alla mia spalla indicò una casa alta, arcuata, a pilastri, dall’altra parte della piazzetta, circondata da fili di bucato. ‘Vedi! Solo i veneziani lo sanno. Non è nelle guide turistiche. Condividiamo il segreto, eh? È la casa di Marco Polo!’». Per la scena della morte finale, truccato come un grottesco cicisbeo, sotto il sole e lo scirocco soffocante, mentre Tadzio in mare ridotto alla silhouette in ponderatio d’una statua antica o rinascimentale indica l’orizzonte, era stato pensato un trucco che doveva creparsi e liquefarsi. I tecnici si muovevano con la discrezione dei preti che impartiscono i riti funebri. Dietro la macchina da presa, sedevano amici di Visconti come Alida Toscanini, a bere champagne, un quadro di Signorini dietro un altro quadro, mentre Bogarde semplicemente doveva morire. Il bianco sul viso bruciava, lui poteva appena muovere le labbra e gli occhi, respirare solo col naso, che è più difficile di quanto si pensi. Scoprì poi che in faccia gli avevano steso un preparato tossico per sgrassare le macchie di petrolio.

VI. Vattene

Bogarde non aveva ancora visto il girato. Luchino teneva tutto per sé in fase di montaggio. Il dialogo tra i due a fine riprese aveva tutti gli imbarazzi riottosi di due amanti che si separino in albergo per prendere treni diversi. Lo spettro di Mann era stato congedato. «Visconti e io ci siamo stretti la mano in silenzio; mi ero tagliato i capelli, cambiato in jeans e camicia per congedarmi da lui nella pensione locale, dove, nonostante tutto, stava iniziando il suo pranzo». Aggressivo e ironico come sempre quando voleva tirar su uno schermo protettivo, Visconti prese in giro Bogarde che, inglese, portava un cane italiano a vivere in Francia. Pareva una barzelletta. «‘Avventuroso! Siediti, un momento. Bene… Dunque’. Chiuse gli occhi un istante. ‘Sto pensando di fare Proust, La Recherche. Lo sai?’. ‘Sì’. ‘Da molto tempo. Ti piace?’. ‘Certo’. ‘Sto pensando a Olivier per Charlus, bene eh? Dovresti pensare a fare Swann, magari, sì?’. ‘Ma non per molto tempo, certo’. ‘Ah no, forse due anni. Chi può dirlo, c’è molto lavoro da fare’. ‘Perché voglio smettere di recitare per qualche anno’. Le sue sopracciglia si sollevarono in un’espressione di cortese sorpresa. ‘Smettere? Come mai?’. ‘Ne ho abbastanza. Ho quasi cinquant’anni. Ho fatto cinquantacinque film. Basta. Durante questo film ho preso una decisione. Non so se sono stato bravo o se è bello. Ma so che qualunque cosa accada, questo ha segnato per me l’apice del lavoro. La vetta. E dove si prosegue dalla vetta se non verso il basso?’. Rise improvvisamente e mi diede un pugno sul braccio. ‘Anch’io sono su una cima, Bogarde. Passo su un’altra, non scendo! Ho molte vette da raggiungere e ho sessant’anni; abbiamo molto da fare insieme, altro da dire, eh?’. ‘Sì; ma oggi so di aver concluso una parte della mia vita, tra poco partirò per iniziarne una nuova in un nuovo paese. Non è facile. Voglio tempo per sistemarmi, per pensare, riposare. Ormai sono fuori dalla competizione, non voglio più combattere. La lotta che abbiamo patito con gli americani per realizzare il nostro film m’ha dato il voltastomaco. Basta. Mi fermo’. ‘Ah, la stampa’, Visconti schioccò le dita, ‘se vivi per la stampa, morirai per la stampa. Dicono che sto perdendo il tocco… che fotografo solo la superficie delle emozioni, che sono un degenerato, un operista! Cose così stupide. Hanno solo teoria e non pratica, non sanno costruire ma solo criticare, e se trovano qualcosa che non capiscono si arrabbiano e la distruggono come bambini! Puah! Non bisogna pensare a loro. Non rischiano, mai, nulla. Come fanno a sapere, eh? La Callas rischia. Stravinsky, Seurat, Diaghilev hanno rischiato; anche noi rischiamo’. Noi, per una volta Visconti aveva parlato al plurale, anzi al duale. Tu-ed-io. ‘Tutti i veri creatori devono farlo. Pensiamo solo alle persone per cui lavoriamo. Il pubblico. Lui capisce, sa, incoraggia’. ‘Beh, per il momento ne ho abbastanza; oggi chiudo. Non mi sto davvero ritirando, ma d’ora in poi non cercherò più un impiego’. ‘Sei solo un vecchio cavallo stanco, eh? Niente più corse’. ‘Esatto. Non voglio più cercare di vincere nulla’». Nel primo incontro, il vecchio addestratore aveva pungolato con malizia la star britannica, chiedendole se le dispiacesse essere un cavallo per lui. Così adesso si tornava alle carezze e ai mormorii sussurrati dopo la corsa.

«Quindi vai al pascolo; eccellente. Però verrai da me se ti chiamo, con una zolletta di zucchero?». Restava ancora qualcosa. Bogarde voleva e non voleva chiedere. Alla fine si limitò a un obliquo «Voglio dire… va tutto bene, Luchino?». L’altro intrecciò accuratamente le mani davanti a sé sul tavolo di legno. «‘Tu vuoi dei complimenti, è così?’. ‘No, Cristo no…’. ‘Il tuo lavoro trascende qualsiasi cosa io abbia anche solo lontanamente sognato’. All’improvviso mi prese la testa e mi baciò brusco su entrambe le guance. ‘Vattene!’, ordinò».

VII. Honni soit qui mal y pense

I produttori erano orripilati. Un film dove i radi dialoghi, gli scambi non sottotitolati in polacco e la musica perenne parevano riportare indietro al cinema muto. Volevano ancora imporre un happy ending. Alla fine, davanti a un Luchino irremovibile, ammisero solo che la colonna sonora era splendida e che speravano di mettere sotto contratto «quel certo Mahler». La première londinese vide la presenza della Regina e di sua figlia Anne. Nelle memorie di Bogarde la sovrana «giunse davanti a Visconti e lo fissò come fosse un cenotafio». Qualche convenevole ed ella passò oltre. Maldroit, commentò il regista. Il patrocinio però era stato importante. A Cannes poi, quando Aschenbach-Bogarde decide di tornare al Lido, sfidare il colera pur di restare con Tadzio, la scena che Visconti aveva girato seguendo i passaggi dell’Adagio, il pubblico si lasciò andare a un applauso tonante. Una ragazza vicina a Bogarde singhiozzò. Lui si sporse per toccare Luchino. «Certo, mi disse come fossi stato un idiota a non crederci fin dal principio».

VIII. Posso contare tutte le mie ossa

Björn Andrésen volò in Giappone dove gli imposero psicofarmaci per reggere una girandola di pubblicità, servizi fotografici e concerti pop in una lingua che non conosceva neppure. La nascita del primo Teen Idol, cui si deve anche l’invenzione dei tratti fisici di Lady Oscar e una infinita cascata di altri adolescenti caucasici dei manga. Adesso che Visconti-Zeus aveva sollevato la mano, tutti volevano toccare Tadzio, consumare ciò che Aschenbach si era limitato a contemplare. Decenni dopo il più che sessantenne Björn dal viso scavato e i lunghi capelli grigi che si getta volontariamente dal precipizio di Midsommar e viene finito a colpi di mazza in mezzo a una folla ululante d’empatia dolorosa, pare aver messo in scena la mise en abyme di un intero destino. Quanto a Bogarde, ritiratosi in campagna a scrivere le sue memorie, agli occhi del cinema risultava ormai «disponibile per parti degenerate». I pochi nomi cui disse sì furono in qualche modo cerchi espansi del sasso gettato nello stagno da Visconti: assassino per Fassbinder, nazista sadomaso per la giovane Liliana Cavani col Portiere di notte. «Non ci capisco niente, ma devi farlo» gli aveva detto Luchino. Si erano incontrati dopo le riprese del suo finale autoritratto come sovrano puerile e immaginifico in Ludwig, e l’ictus che l’aveva parzialmente paralizzato. Visconti stava «in sedia a rotelle, con uno scialle di tartan drappeggiato sul corpo. ‘Ciao, Bogarde’, disse a bassa voce, e io attraversai la stanza e lo baciai sulla testa, cosa che non avrei mai osato fare prima. Era grigio. Rattrappito. Piccolo. Il Leone, il Toro, l’Imperatore, adesso era un uomo anziano rannicchiato su una sedia». Guardarono delle foto, si promisero di rivedersi, c’erano ancora cose da fare. Peeperkorn o Settembrini per La Montagna Incantata, magari. Un altro Mann, due amanti che si diano appuntamento al medesimo molo sul vecchio lago. Lo baciò ancora per accomiatarsi. «Lui prese la mia mano nella sua destra così forte e la tenne per un attimo, gli occhi grigi come selci scheggiate sotto le sopracciglia folte, sorridendo della mia audacia». Qualche giorno dopo gli fece pervenire un biglietto. Caro Bogarde, Grazie per aver fatto tanta strada per venire a trovarmi: ora che non ti servo più. Con molto amore. L’aveva firmata semplicemente: Papà. Seguirono L’Innocente girato in sedia a rotelle e un’ultima Manon Lescaut concepita come la raccomandava Puccini, «con forza disperata». Quando fu comunicato a Bogarde che Visconti era morto l’unica cosa che riuscì a dire al telefono fu «‘Oh merda’. Un’imprecazione senza speranza, inutile. Rimasi per un po’ di tempo nella lunga stanza da solo e in silenzio. La luce del fuoco tremolava, un ceppo si sfaldava. L’Imperatore se n’era andato». Anche Tony Forwood, suo manager e compagno, fu inghiottito dal Parkinson e morì. Bogarde si trovò costretto a tornare alla Londra e all’Inghilterra che detestava per la sua stampa volgare e scandalistica. Erano gli anni dell’affaire Diana. Cenava con Gore Vidal, ricordava il passato, era un imitatore divertente e malizioso. Un ictus e poi un altro ancora. Visconti s’era ritrovato paralizzato il braccio da direttore, Bogarde il viso e la voce con cui ancora leggeva i propri audiolibri. Fece bruciare quasi tutti i girati con le telecamere amatoriali. Poco rimane delle feste in piscina con Forwood, delle tavolate in Provenza con nipoti, formaggi e fiaschi di vino, posaceneri. Uno degli ultimi video di Visconti riprende la fila di attori, tecnici, amici in fila che lo raggiungono sul palco del suo Pinter a Roma, per baciare e carezzare il Papa, a benedire e farsi benedire. Bogarde si spense nella silenziosa, dolente e stizzosa fisioterapia quotidiana con un’infermiera privata, un ultimo paravento, mesi che possiamo ricostruire solo con testimonianze indirette e qualche dialogo radiofonico. Prima uno, poi l’altro, tra sussurri o grida, Padre Tempo li aveva spogliati come un amante impaziente di buttarti a letto.

IX. Il piroscafo Agonia

Siamo tutti seduti su quella spiaggia del Lido. Ridicoli, grotteschi, mai così autentici. Ce n’è voluta di strada per questo appuntamento. Balbettiamo disfatti. Cosa c’è da ammettere? Divini perché scuoiati dalla vagina delle membra. Abbiamo bisogno di una maschera per dire la verità e che la maschera stessa si crepi per dirla. Tempo che cola sulla faccia mentre tendiamo le mani verso una perfezione intravista che indica qualcosa più oltre ancora, speranza o impossibilità. «Io credo nell’immortalità dell’anima» dichiara il Ludwig di Berger poco prima della deposizione come infermo di mente. «E nel giudizio di Dio». Qualunque cosa voglia dire, pure queste parole risuonano in chiunque non voglia assoggettarsi alla mera misura del tempo e al ballo imposto dalla società. La «strapotenza di un anelito» che ogni creativo esprime, come scrisse lo stesso Mann su Michelangelo, e ciascuno conosce. Che imbarchi eroi o turisti chiassosi in ciabatte, lo sapeva Giorgos Seferis, il traghetto che salpa dal Pireo di Atene si chiama comunque Agonia. «La castità è un dono della purezza, non il penoso risultato della vecchiaia, e tu sei vecchio, Gustav. E non c’è al mondo impurità così impura come la vecchiaia» si sente dire Aschenbach nelle ultime notti di febbre. L’arte non invecchia, invecchia il nostro sguardo su di essa. Tadzio è ancora laggiù con l’indice teso perché tutte le immagini portano scritto più in là. Non saranno costumi raffinati, mobilia d’epoca, ricostruzioni minuziose ad accostarlo. Queste sono le risorse di epigoni e feticisti, che confondono la cornice per il quadro. Non gli si avvicina Maestro di Bradley Cooper che con pelagiano didatticismo ci mostra l’ombra egotica di Bernstein che inghiotte la moglie nelle quinte proprio sulle note dell’Adagio di Mahler. «Peccato che l’arte sia così indifferente alla nostra morale personale. Dimmi, tu lo sai che cosa c’è in fondo alla strada maestra? La mediocrità» risponde sempre Alfred ad Aschenbach. Assai meglio Tàr con Cate Blanchett che chiede all’orchestra di dimenticare il “troppo Visconti” e ogniqualvolta che l’Adagio pare ghermirti lo azzittisce in un coito interrotto. Dove guardare, allora? Ovunque e comunque oggi si tenti davvero di esprimere la conoscenza della vita e della morte, perché assai diverso è dire qualcosa bene e dirlo davvero. Magari la danza del capo pompiere di Titane che si inietta steroidi e balla Light House dei Future Islands tra i colleghi più giovani. Dove si rischi oggi per bruciare e consentire alla morte di chiudere l’ultimo capitolo riducendoci in cenere, come auspicava Visconti. Dove la prosa o l’immagine non ci confermino in quello che già sappiamo, fosse pure la rottura dei nostri stessi tabù. In this smoking chaos, our shoulder blades kissed/I found you canta Fred Again. In this smoking chaos. Lo diciamo senza parole a imbatterci in una musica nuova e già amata, come un piede che manchi un gradino, perché tutte le canzoni che ci colpiscono e chiamano, così come i visi, in fondo son sempre già ricordati. Eri tu e io non lo sapevo. Una contemplazione senz’altra finalità. L’arte occidentale esordisce con un uomo che piange su una spiaggia, linea di confine tra la sabbia della storia e l’acqua dell’individualità dissolta. Quando qualcosa o qualcuno ci spoglia ancora una volta senza riguardi, torniamo laggiù. Dove tutto risuona e fa eco al lamento degli esseri umani. Fine.

Edoardo Rialti (Firenze, 1982), scrittore e traduttore, insegna Letteratura comparata e Storia del Cinema. Tra gli altri, ha tradotto e curato opere di J.R.R. Martin, C. S. Lewis, J. Abercrombie, P. Brown, O. Wilde, W. Shakespeare. Ha pubblicato per Cantagalli le biografie di G. K. Chesterton e C. S. Lewis. Ha curato l’antologia di racconti fantastici «L’anno del fuoco segreto» (Bompiani, 2023).