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È facile prof, chiedici se siamo felici

I miei studenti delle medie sembrano immuni all’ansia e alle fragilità dei ragazzi del liceo, anzi, affrontano tutto, dal compito all’interrogazione, con spensieratezza e fiducia assoluta. L’analisi logica in cinque minuti senza aver letto la consegna del compito, la canzone senza sapere le parole e il bagno nell’acqua calda del mare che è sempre bellissimo

Dell’epidemia di malessere psichico in corso tra i giovani so perché ne leggo su libri e articoli, ascolto podcast, però il fatto è che io insegno alle medie e i miei studenti forse sono ancora troppo piccoli, perché tutti questi sintomi di disagio non appaiono ancora così manifesti.

Per esempio, il trauma della pandemia, di cui si è parlato e si parla ancora molto, i ragazzi che ho in classe non sembrano averlo subìto davvero.

Certi momenti, in terza, quando arriva la primavera e noi siamo là, provvisoriamente tutti in silenzio, che cerchiamo di sbrogliare un periodo pieno di subordinate consecutive, succede che a fine esercizio ci sentiamo rallentati dal caldo: qualcuno sbadiglia, qualcun altro si asciuga il sudore sul suo accenno di baffetto, qualcun altro ancora starnutisce distrutto dalle graminacee, e, insomma, si crea quel tipo di atmosfera intorpidita che favorisce la perdita delle inibizioni.

Io allora ci provo e chiedo: ragazzi, ma voi come ve li ricordate i due anni del Covid? Brutti? Difficili? È stata dura? Noooooo, fanno loro, UNA PACCHIA PROF, stavamo in pigiama, niente scuola, mamma e papà erano a casa con noi, giocavamo, facevamo la pizza, le torte, guardavamo le serie tv, ci lasciavano giocare col tablet e col telefono, videochiamavamo i nonni, facevamo gli aperitivi col succo di frutta, è stato bellissimo. E la Dad?, chiedo io, come ve la ricordate la Dad? BELLISSIMA, PROF, fanno loro, NON MI CI FACCIA PENSARE, CHE MI VIENE LA NOSTALGIA.

In effetti questa specie di lapsus compare anche in molti temi: «La pandemia è stato un momento terribile per l’intero pianeta, io però ero piccola, avevo 7 anni, per cui ero autorizzata a non preoccuparmi e a divertirmi».

Sarà che il trauma lo affrontano così – penso io – esorcizzano il periodo peggiore che hanno vissuto idealizzandolo, sarà che è maggio, sarà che oggi c’è questo lucore, questa nitidezza, sarà che sono ancora piccoli, sarà che le generazioni cambiano in fretta, e loro sono già diversi dai ragazzi un po’ più grandi di loro.

Anche l’insicurezza, la fragilità, lo stress da competizione, l’ansia da prestazione, che a scuola si traduce in ansia per il voto, il giudizio, la valutazione, l’interrogazione, la verifica scritta, che pare affliggere i ragazzi più grandi, i miei sembrano non provarla ancora, anzi sembrano proprio immuni.

I ragazzini tra gli 11 e i 13 anni che incontro hanno un concetto di sé piuttosto alto.

Quando durante i colloqui trimestrali incontro i loro genitori, mi accorgo che i ragazzi in famiglia sono di solito apprezzati per le loro qualità, assecondati nelle loro tendenze naturali (il canto, lo sport, il disegno, i videogiochi) se non incoraggiati, e questo clima di accoglienza che respirano in casa sembra generare una buona autostima. Perfino un po’ eccessiva.

In classe, i ragazzi più che altro si sopravvalutano. Affrontano tutto, dal compito scritto all’interrogazione orale con spensieratezza, con una fiducia assoluta nel fatto che si tratta di una prova facile, una bazzecola per le loro capacità, direi proprio con sicumera: che ci vuole prof, lo so fare, l’ho già fatto, ecco guardi prof, ho fatto, visto?

Ti riconsegnano la verifica su Classroom o su Google Moduli cinque minuti scarsi dopo che gliel’hai somministrata: ho finito prof, era facile, posso andare in bagno adesso? Ma come? – gli dico io – In cinque minuti? Come hai fatto, scusa?

Quando in classe leggiamo qualcosa insieme, a volte impieghiamo decine di minuti per paragrafi di cinque o sei righe. Com’è che quando c’è la verifica fanno l’analisi logica di quindici frasi in cinque minuti? Vabbè ma era facile, prof.

La prossima la faccio più difficile, penso tra me e me, e a volte poi lo faccio. La restituzione, però, avviene con gli stessi tempi: qualche minuto e hanno già finito.

In effetti mi capita di correggere verifiche in cui l’esercizio chiedeva una cosa e loro invece ne hanno fatto un’altra. Dovevano fare un riassunto e invece hanno fatto un tema. Dovevano scrivere una frase usando una certa parola e invece ne hanno scritto la definizione.

Spiegazioni, istruzioni, consegne li annoiano: sbuffano, le saltano. Perché?, mi chiedo, come mai? Se tengono così tanto al voto («Ha corretto le verifiche, prof?», mi chiedono sei secondi dopo averle consegnate, «ha portato le verifiche, prof?», «quando ci porta le verifiche, prof?»), com’è che non prestano attenzione alle richieste del compito? A volte glielo domando. Mi rispondono che loro sanno già, hanno già capito cosa devono fare, e non vogliono perdere tempo, vogliono fare il compito, consegnarlo e ricevere subito il risultato, tanto è facile, prof, che ci vuole? E se poi il voto è basso?, gli chiedo. Loro fanno una faccia come per dire: ma non si può shoppare un voto più alto utilizzando centoventi gemme?

È il game? Scotomizzano? Può darsi, non lo so, il ministero promette da anni di inserire nelle classi la figura di uno psicologo: è una cosa che bramo e temo allo stesso tempo. Da un lato mi piacerebbe tantissimo condividere le piccole e grandi difficoltà della pratica didattica con qualcuno che ha su di noi uno sguardo esterno. Dall’altro sono quasi sicuro che io e i ragazzi finiremmo per comportarci con lo psicologo come fanno marito e moglie quando vanno in terapia di coppia: lo tireremmo in mezzo come se fosse il giudice di una puntata di Forum, pretendendo che dia ragione a una parte e torto all’altra. Comunque i ragazzi non applicano questo eccesso di sicurezza solo alle cose di scuola, li vedo fare così anche nei piccoli momenti di svago.

Certe volte vanno su YouTube (medium ormai utilizzato quasi esclusivamente per questo genere di video) e cercano un tutorial su qualcosa: come fare un aeroplanino di carta, come trasformare un foglio A4 in una busta da lettera, come piegare una maglietta per farla entrare in uno spazio piccolissimo, e subito dicono: ah sì ho capito, e chiudono il video mentre c’è ancora la sigla.

Lo youtuber non ha fatto in tempo a dire come si chiama il suo canale o a invitarli a iscriversi, il video non è neanche cominciato ma loro hanno già capito, e stanno già piegando il foglio A4 o la maglietta, e mi stanno dicendo: guardi prof, ha visto? E io guardo, e ho visto, e vedo che la maglietta non è piegata, è appallottolata, e quello non è un aeroplanino, è una barchetta, e quel foglio A4 non è diventato una busta da lettera, è diventato una specie di cappello da muratore. A volte faccio notare loro l’incongruenza tra obiettivo e risultato, ma nemmeno allora entrano in ansia, mi dicono: vabbè prof, è la stessa cosa, vola pure questo, guardi, e lo lanciano. «IL BATTESIMO DELL’ARIA», urlano mentre sospingono nel vuoto una barchetta così pesante che sulla chiglia ci si potrebbe rompere una bottiglia di spumante. Com’è stabile l’umore di questi ragazzi, penso con ammirazione mentre assisto allo schiantarsi al suolo del natante, com’ero insicuro io alla loro età, com’ero timido, com’ero impacciato, com’ero fatto male, oh com’ero fatto male, e mi trattengo dal rivalermi su di loro dicendogli: ma scusa, ma non lo vedi che non vola?

Mi trattengo non tanto perché minerei questa loro sana autostima (non credo sia scalfibile), ma perché appunto loro non lo vedono: hanno lanciato il loro presunto velivolo in aria ma non l’hanno seguito con gli occhi, non hanno visto che precipitava (o meglio che colava a picco).

Stavano già facendo un’altra cosa, stavano guardando la sigla di un altro tutorial, stavano facendo partire una canzone trap in napoletano e ne stavano ascoltando solo i primi venti secondi, perché poi arrivava un loro compagno che ne voleva ascoltare un’altra e diceva: metti quella di Paki, e poi ok, ora però basta, l’abbiamo sentita, adesso metti quella di Shiva, adesso metti quella dei Ricchi e Poveri, anzi no, non la mettere, la canto io, la ballo io, la so cantare, la so ballare, la so a memoria, guarda qua, guardate qua, guardatemi tutti, guardi prof!

E io guardo.

E non la sa cantare, non la sa ballare, non la sa a memoria.

Gli undici-tredicenni delle mie classi sono così, non sono traumatizzati, non sono ansiosi, non temono l’esibizione anzi la cercano, si buttano, si lanciano, se una volta il problema erano le aquile che si credevano polli, adesso abbiamo il problema delle barchette che si credono aeroplanini.

Certe volte veramente mi sale il nervoso: oh, ma come? Vivete in una società spietata, la performance è tutto, perché non siete ansiosi? Non vi fa paura il fallimento? Fallire ancora, fallire meglio, certo, va bene, ma se non vi accorgete mai di aver fallito, come facciamo? Al posto di un cacciabombardiere vi è uscito un peschereccio per lo strascico e siete pure contenti? Com’è che non avete la sindrome dell’impostore? Non dovreste averla tutti?

Forse – mi dico – l’epidemia di malessere psichico non li ha ancora travolti, se c’è, è ancora latente o ancora lieve, o forse per il momento si manifesta ancora in forme bambinesche, che inteneriscono più di quanto preoccupino. Stanno bene? Stanno male?, mi chiedo mentre la primavera siciliana fa sembrare le finestre dell’aula le bocche di un forno che si riscalda ogni giorno di più.

Che tipo di rapporto hanno questi ragazzi, anzi questi pre-ragazzi con cui passo così tante ore ogni giorno, con le patologie da cui i giovani un po’ più grandi di loro sono affetti in numero sempre maggiore?

Di sicuro ne hanno uno di tipo nomenclatorio.

Nessuno usa per se stesso o per un compagno di classe parole come triste o preoccupato o angustiato o semplicemente di malumore, l’unica parola che conoscono e usano è “depresso”, patologia che per altro applicano a tutta la storia della letteratura italiana: Leopardi era depresso e ha scritto Il sabato del villaggio, Dante era depresso perché Beatrice non lo salutava, Tasso invece era bipolare e aveva “gli attacchi di panico” (crisi epilettiche) e Manzoni sviluppa una forma di mania ossessiva, all’epoca nota come giansenismo. Ignorano termini come scatenato, scalmanato, spericolato, vivace, intemperante, irascibile, arrabbiato, litigioso, vanitoso, prepotente o anche semplicemente stronzo, e usano solo termini medico-scientifici: Adhd, narcisista, egocentrico, esibizionista. Per insultarsi o prendersi in giro tra loro si danno del o della “104” e poi usano tutta la diagnostica dell’apprendimento: Bes, Dsa, Nas, dislessico ecc. Non ci sono più nemmeno magri e grassi, solo anoressici e obesi.

La fisiologia, alle medie, risulta abolita, tutto è patologia. Sanno dire di se stessi se sono visual o auditory o kinesthetic, insomma sembrano tutti dei piccoli neuropsichiatri, e naturalmente anziché darsi del ricchione si danno dell’Lgbtq+. Pare che la generazione Z sia quella che «ha imparato più parole da una macchina che dalla propria madre». I miei studenti, invece, nati un po’ dopo, sembrano averne imparate ancora di più dal Dsm.

Da Mark Fisher in poi, questa cosa che i ragazzi imparano a parlare da una macchina sembra spiegare un po’ tutto: la depressione come patologia di massa, la difficoltà (presunta) di questi ragazzi di nutrire, coltivare, gestire l’affettività e la sessualità, l’incapacità di superare la dimensione individuale ed entrare in quella collettiva, la mancanza di solidarietà di gruppo, la disaffezione dalla politica, ecc.

Io però ho 50 anni e anch’io ho imparato più parole da una macchina che da mia madre. La mia generazione è cresciuta davanti alla tv (elettrodomestico che durante la mia epoca svolgeva già una pluralità di funzioni: tramite la tv si guardavano per trecento volte di seguito cartoni animati prima in vhs, poi in cd o dvd, e tramite la tv ci si ingarellava fino a notte fonda con videogiochi che giravano su consolle all’inizio semplici e poi via via sempre più evolute).

Siamo stati esposti a macchine parlanti fin dalla primissima infanzia, durante la quale ascoltavamo per ore le favole raccontate da un mangianastri, per tempi simili sia in durata che in frequenza a quelli che i ventenni di oggi hanno trascorso davanti agli smartphone durante la loro infanzia/adolescenza. E meno male, altrimenti avremmo parlato quasi solo dialetto, come i nostri nonni.

Allora come oggi, le famiglie progressiste più avvertite si affannavano a disciplinare il consumo di televisione e videoregistratore e consolle di videogiochi (e dal Vic20 in poi dei computer) esattamente come è accaduto alle famiglie degli attuali ventenni con l’uso dei telefoni, dei tablet, ecc.

Allora come oggi, il segno distintivo del progressismo erano affermazioni come: mio figlio non ha la tv, o guarda la tv al massimo per un’ora al giorno, stessa frase che ho sentito e sento dire ai genitori dei miei studenti riguardo agli smartphone, i tablet, ecc.

Forse la novità deve ancora arrivare. Io e i ragazzi che entrano in classe ancora oggi tutto sommato abbiamo imparato parole da una macchina vecchio tipo, una macchina dentro alla quale c’erano degli esseri umani che parlavano.

I prossimi impareranno parole da una macchina dentro la quale ci sarà UN’ALTRA MACCHINA CHE PARLA.

Se vogliamo guardare ancora più avanti, dentro questa macchina con dentro una macchina che parla, per un certo periodo di tempo ci sarà una macchina che attingerà parole dal repertorio umano, ma poi, forse, a un certo punto, ci sarà una macchina che attingerà parole dal repertorio delle macchine che l’hanno preceduta.

L’inverno quest’anno non c’è stato, ve ne siete accorti?, chiedo ai ragazzi quando finiamo con l’analisi del periodo, adesso siamo in primavera e la temperatura è già quella di luglio, non vi mette ansia questa cosa? No prof, mi dicono loro, sabato scorso abbiamo fatto il bagno al mare, l’acqua era calda, è stato BELLISSIMO. Sì, gli dico io, ma come faremo quando l’acqua sarà bollente e non troveremo più refrigerio nemmeno al mare? La raffreddiamo prof, che ci vuole?

Mario Fillioley (Siracusa, 1973), scrittore e insegnante alle scuole medie. Ha pubblicato «Lotta di classe» (minimum fax, 2016), «La Sicilia è un’isola per modo di dire» (minimum fax, 2018) e «Sesso più sesso meno» (66thand2nd, 2021).