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L’Eurovision cerca la libertà e non la trova

All’origine dell’evento non sportivo più seguito al mondo c’era il divertimento contro la noia comunista. Poi è diventato la baracconata che piaceva all’est. Le edizioni memorabili, le canzoni e la politica soffocante di una competizione in cui gli europei si sono accapigliati tra di loro e con i paesi ai loro confini, in cerca di una musica che li facesse sentire un popolo

Questi gruppi di contestatori hanno messo in atto un antifestival: sotto un tendone si avvicendano giorno e notte oratori e cantanti, che esprimono il loro sdegno contro il festival eurovisivo al suono di musiche che vanno dagli inni dell’Esercito della salvezza, alle marce hitleriane, a Bandiera rossa. Sulla rassegna televisiva pesa poi la minaccia di azioni terroristiche. Si teme un atto di forza che, secondo quanto riferisce la polizia, potrebbe venire tentato da membri del Fronte di liberazione della Palestina o dell’Armata rossa giapponese, o degli ustascia o del gruppo 2 Giugno tedesco». Non sono state scritte ieri, queste parole, ma nel marzo 1975, da Walter Rosboch sulla Stampa di Torino: «I cantanti, gli orchestrali, gli accompagnatori e i 590 giornalisti accreditati per poter accedere al palazzo ove si tiene il festival debbono ogni volta sottoporsi a vere e proprie perquisizioni personali» spiega, e chiosa: «Sottoposto a particolare protezione il cantante israeliano Shlomo Artzi, accompagnato a ogni passo da quattro agenti della polizia». Poco cambiava, se non per gli slogan e gli inni intonati durante la protesta, nella primaverile Malmö al suo terzo Eurovision Song Contest.

L’Eurovision Song Contest, o solo Eurovision per brevità, l’evento non sportivo più seguito al mondo, è l’evento non politico più politico che ci sia. Lo è dalla nascita, nel 1956, lo è stato nel 2024: un paradosso sotto forma di innocua gara di canzoni. Sono gli anni della Guerra fredda, quando muove i primi passi l’Ebu (European Broadcasting Union), il consorzio delle tv pubbliche europee. Lo spirito è quello della grande ripartenza dopo la guerra e della costruzione di uno spirito continentale, ma anche della sperimentazione tecnica del nuovo mezzo in uno spettacolo dal vivo. «Gli italiani non se lo ricordano, ma un concorso europeo c’era già: si teneva a Venezia e veniva trasmesso dalla radio», racconta il croato-australiano Dean Vuletic, autore di Eurovision Song Contest. Una storia europea (minimum fax, 2022). L’idea della gara tra canzoni deriva direttamente dal Festival di Sanremo, nato pochi anni prima ma già di buon successo; è il direttore generale Rai Sergio Pugliese a proporla all’organismo europeo. Solo perché la tecnologia è più avanzata in Svizzera – e il paese è più centrale, quindi più raggiungibile – il primo concorso viene ospitato a Lugano, ma interamente condotto in italiano. Il tutto fuori dalla politica e dalle istituzioni, solo attraverso l’organismo che coordina le televisioni: «Il direttore di Ebu Marcel Bezençon – racconta Vuletic – diceva che sono riusciti a inventarsi Eurovision perché fatto senza i parlamenti, senza i politici». Ma il wishful thinking dell’indipendenza è destinato a rimanere tale.

Il concorso eurovisivo (in Italia inizialmente proviamo a chiamarlo “Eurocanzone”, poi “Eurofestival”, quest’ultima purtroppo difficile da far dimenticare ai giornali italiani) unisce i paesi europei tra loro ma anche contro il blocco sovietico: come scrive Emanuele Lombardini in Unite, unite Europe. Come l’Eurovision Song Contest racconta l’Europa (Arcana, 2024), Donald Sassoon, professore emerito di Storia europea, spiega che «il messaggio dell’Eurovision poteva essere sintetizzato in questo modo: “Qui c’è divertimento e libertà e là c’è noia comunista”». Noia comunista che porterà alla creazione di una gara avversaria, il Concorso Intervision della canzone, dalle alterne fortune – ma ancora vagheggiato in anni recenti da Vladimir Putin.

Fino a pochi anni fa, dalle nostre parti era credenza comune che l’Esc (detto con ancor maggiore brevità) fosse «una baracconata amata solo nei paesi dell’est». Se sul concetto di “baracconata” tocca trovare un accordo – e sui gusti personali non si discute – sulla passione oltrecortina per la manifestazione non ci sono molti dubbi. Chi ha vissuto da bambino gli anni Ottanta, conserva il ricordo nitido di Giochi senza frontiere (altro prodotto Ebu, da un’idea di Charles De Gaulle per consolidare l’amicizia franco-tedesca). Nel 1978, per il «troix, deux, un» di Gennaro Olivieri e Guido Pancaldi si presenta per la prima volta la Jugoslavia, a mostrare una specie di “volto umano” del blocco, l’immagine pubblica gioiosa di una terribile dittatura dentro i suoi confini. Ebbene, all’Eurovision partecipava da anni, senza clamore ma pure senza grandi successi. Vincerà una volta sola, nel 1989, sei mesi prima della caduta del Muro di Berlino.

Il soft power delle canzoni, insomma: vecchia storia. È il caso delle operazioni di maquillage a uso stampa e tv delle edizioni di Mosca 2009 e Baku 2012, ma anche della scelta delle singole canzoni o interpreti. E quando la Russia viene esclusa dalla competizione nel 2022, l’anno dell’organizzazione italiana a Torino, la notizia non viene presa affatto bene. La vittoria dell’ucraina Kalush Orchestra completerà il quadro.

Persino dalle nostre parti, dove cominciamo a guardare sì la gara in tv, ma non conoscendone davvero lo spirito, iniziamo a capire che la questione è seria. Avendo seguito distrattamente la manifestazione (i pochi appassionati la aspettavano in differita, in piena notte, con la vhs pronta nel registratore), ci siamo persi tutti i passaggi che ci hanno portato fino a qui. Da Zagabria 1990, con quasi tutti i brani dedicati all’Europa, alla libertà, alla caduta dei muri (il vincitore, Toto Cutugno, porta il suo inno Insieme: 1992, in cui canta «l’Europa non è lontana, c’è una canzone italiana per voi / insieme, unite unite Europe»). A Belgrado 2008, in onda poco dopo la dichiarazione di indipendenza del Kosovo, avvenuta il 17 febbraio di quell’anno. A Mosca 2009, con la Georgia che cerca di portare al concorso l’allusiva We don’t wanna put in (Put in disco). A Stoccolma 2016, in cui l’ucraina Jamala vince con la canzone 1944, che parla della deportazione dei tatari di Crimea per volere di Iosif Stalin.

E sono pochi, pochissimi esempi. Tornando ancora indietro nel tempo, l’uso propagandistico dell’Eurovision da parte di Francisco Franco (che nel 1968 costruisce una macchina imponentissima per portare alla vittoria la canzone La la la, strappata al catalano Joan Manuel Serrat e affidata alla giovane Massiel, e per ospitare il concorso a Madrid) o di António de Oliveira Salazar. Nel 1964, a Copenaghen, mentre canta la svizzera Anita Traversi, un uomo sale sul palco con un cartello che recita «boycott Franco and Salazar». Viene trascinato via e multato. Curiosamente, dieci anni dopo, sarà proprio la canzone eurovisiva E depois do adeus, di Paulo De Carvalho, a dare via radio il primo segnale in codice per l’inizio della Rivoluzione dei garofani. C’è la delicata situazione tra Grecia, Turchia e Cipro. Ci sono persino le rivendicazioni lapponi, con la Norvegia che porta una canzone nella lingua joik nel 1980. Ci sono le difficilissime relazioni tra Armenia e Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh, che culminano nel 2016 quando la rappresentante armena Iveta Mukuchyan viene sanzionata per aver sventolato il vessillo dell’Artsakh durante la prima semifinale.

Già, le bandiere. «Bandiera palestinese vietata all’Eurovision 2024», si leggeva nei titoli una settimana prima dei giorni di Malmö, con un’espressione insieme letteralmente corretta ma totalmente fuorviante. No, non è stata una decisione dell’ultimo anno, e già nel 2019 il gruppo islandese punk degli Hatari è stato multato per aver mostrato proprio quella bandiera nell’edizione di Tel Aviv. E l’ospite Madonna provoca il panico per le bandiere palestinesi e israeliane insieme sullo stesso palco. Le proteste legate alla presenza di Israele nascono con il suo ingresso, nel 1973, si esacerbano (come abbiamo letto) nel 1975, culminano con le vittorie del 1978 e 1979. Nel 1978 la Giordania, che non partecipa ma manda in onda la trasmissione, censura la premiazione e annuncia, mentendo, la vittoria del Belgio. Nel 1980 Israele decide di non organizzare il concorso (la finale sarebbe coincisa con il giorno dello Yom HaZikaron) ed è l’unica edizione in cui – non a caso partecipa il Marocco (Samira Bensaid arriva penultima con 7 punti, tutti assegnati dall’Italia). Anni dopo, a Mosca 2009, Israele proverà a portare insieme Noa (israeliana di origine yemenita) e Mira Awad (arabo-israeliana di madre cristiana).

Concorrenti palestinesi non ne abbiamo mai avuti, ma pochi sanno che ci si è andati vicini. «La Palestinian Broadcasting Corporation – spiega Giacomo Natali, autore di Geopolitica pop (Treccani, 2023) – è stata membro associato di Ebu dal 2009 al 2014. Trattandosi di un paese solo osservatore Onu, da regolamento poteva essere ammessa con una votazione a larga maggioranza, ma nessuno se l’è sentita».

La storia dell’ultima edizione è recentissima e nota a tanti. Ebu decide di non escludere Israele nonostante appelli internazionali e minacce di boicottaggio in rete, il testo della prima canzone presentata dalla tv Kan viene ritenuto troppo politico (è dedicato alla strage del 7 ottobre) e quindi sostituito con uno nuovo. L’Islanda prova a candidare un artista palestinese, Bashar Murad, al suo concorso per la selezione nazionale, ma perde al televoto contro Hera Björk (e i complottisti adombrano una longa manus israeliana). I giorni eurovisivi di Eden Golan, la cantante di Hurricane, israeliana di ascendenza ucraina e lettone, sono particolarmente accidentati: ogni sua esibizione è accompagnata dai fischi del pubblico, quando parla in conferenza stampa il collega olandese Joost Klein (poi squalificato per uno scontro con una fotografa dietro le quinte) si copre la testa con una bandiera e la greca Marina Satti le sbadiglia vistosamente in faccia. Nei giorni dopo la manifestazione, il cantante lituano Silvester Belt e l’irlandese Bambie Thug hanno definito l’esperienza di salire sul palco insieme a Israele «orribile» e «traumatica». Dalla Norvegia Gåte ha dichiarato di aver considerato il ritiro «fino all’ultimo secondo»; il paese ha ritirato la propria portavoce Alessandra Mele (norvegese-savonese, concorrente dell’anno precedente), che in lacrime, con un video postato sui social poche ore prima, dice di non sentirsi più di partecipare perché «è in corso un genocidio». Ravvedimento tardivo per genuina contrizione o calcolo opportunistico? Non lo sapremo mai.

La situazione là fuori è seria, anzi, drammatica, ma gli appassionati e gli studiosi di vecchia data erano preparati, abituati alle reazioni dell’Eurovision. Talvolta più incisive, talvolta svogliate, spesso inadeguate. Eurovision è da sempre, come dicevamo, l’evento non politico più politico che ci sia. Le proteste, virtuali o in città, sono sicuramente state rilanciate dalla rete e dai social e amplificate come prima mai, innestandosi anche in un movimento più globale. I fischi non hanno risparmiato il supervisore esecutivo, lo svedese Martin Österdahl, che davanti agli occhi di oltre 200 milioni di spettatori ha praticamente perso in diretta il titolo onorifico di Mister Eurovision. Le cose cambieranno, assicura l’Ebu, sotto il peso delle proteste e delle pressioni della rete, ma anche dell’atteggiamento delle delegazioni che hanno accettato di partecipare a un’edizione bersagliata dalle polemiche per l’ammissione di Israele, ma poi hanno cercato di intaccarla dall’interno, come una squadra di calcio che partecipi a un campionato ma per protesta decida di mandare la palla sugli spalti.

Nell’atmosfera di preoccupazione, scoramento, disorientamento dei giorni di Malmö una notizia è passata sotto silenzio. Per la prima volta non erano ammesse le bandiere europee, uniche bandiere di paesi non in gara di fatto tollerate insieme a quelle rainbow. Nel 1990, prima di abbandonare per anni la competizione – e poi tornarci, innamorandocene come mai prima – abbiamo vinto cantando «amori senza confini» e «le nostre stelle una bandiera sola». Ora i tempi sono cambiati, i confini non sono gli stessi, Toto non c’è più e ci hanno fatto sparire la bandiera. L’anno prossimo? Si riparte dalla Svizzera, quindi, di nuovo, dal via.

Marta Cagnola (Vimercate, 1973), giornalista, lavora a Radio24 dal 2000. Da anni è in onda in diretta il sabato pomeriggio con Radiotube e si occupa di spettacoli nella redazione news. È l’unica giornalista italiana ad aver seguito sul campo tutte le edizioni dell’Eurovision Song Contest dal 2013. Ha scritto con Simone Fattori «Musicarelli – L’Italia degli anni ’60 nei film musicali» (Vololibero, 2024).