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L’Italia in Europa con i suoi candidati per finta

È tutta nostra la singolare pratica dei leader dei partiti che si mettono capolista ma sanno che a Bruxelles non ci andranno. Per gli elettori non è una truffa: sono consapevoli, gli va bene così. Un viaggio politico dentro al voto europeo, che è una simulazione di elezioni nazionali di metà mandato, scansando le contraddizioni, per capire che paese siamo dentro l’Unione europea

Le elezioni europee sono sempre un test politico, in tutti i paesi. In Germania, dove la coalizione semaforo guidata da Olaf Scholz è in estrema difficoltà e si teme sempre l’ascesa dell’estrema destra di AfD (anche se per ora ad avanzare sono i popolari della Cdu). In Francia, dove l’estrema destra di Marine Le Pen probabilmente doppierà Emmanuel Macron, e dove il Partito socialista torna a dare segni di vita con Raphaël Glucksmann. In Spagna, dove il Partito popolare tenta di dare l’ennesima spallata al governo precario e incrollabile di Pedro Sánchez. Ma soprattutto in Italia, dove erano un test nazionale le regionali in Sardegna, poi in Abruzzo e infine in Basilicata, figurarsi quindi le europee. Se negli altri paesi dell’Unione le elezioni europee hanno anche una ricaduta nazionale, in Italia sono una specie di simulazione di elezioni di mid-term nazionali che, incidentalmente, servono anche a eleggere il Parlamento europeo.

Tanto è vero che, come è stato più volte evidenziato, solo in Italia esiste questa singolare pratica dei leader di partito – e addirittura di governo – che si candidano, ma per non andare a Bruxelles. È il caso della premier Giorgia Meloni (FdI), della segretaria del Pd Elly Schlein, del ministro degli Esteri Antonio Tajani (FI), del leader di Azione Carlo Calenda. E non è esattamente una “truffa”, come viene denunciato da molti commentatori e dalle altre forze politiche che, per vari motivi, hanno fatto una scelta differente. Perché gli elettori sono pienamente informati e consapevoli che i vari leader di partito resteranno in Parlamento o al governo a Roma. Non c’è alcun inganno. Anzi, li votano proprio per questa ragione: non per mandarli in Europa, ma per esprimere una preferenza a loro favore. C’è quindi un patto non scritto tra candidati ed elettori: le europee sono un surrogato, sono finte elezioni nazionali in cui i leader si candidano per finta. L’apoteosi del succedaneo è stata l’ipotesi di un confronto televisivo tra Meloni e Schlein, che si candidano senza andare in Europa, come se si trattasse di un ballottaggio nel nuovo premierato che ancora non c’è.

Ma se questo discorso vale parzialmente per le candidature (diversi partiti come M5s, Lega, Stati Uniti d’Europa e Alleanza Verdi-Sinistra hanno fatto una scelta diversa), vale ancor di più per i programmi. Quali programmi? Ecco. Questo è già il primo problema. Perché in piena campagna elettorale, a pochi giorni dal voto, i programmi non esistono proprio. Dei partiti che hanno probabilità di superare la soglia di sbarramento del 4 per cento, soltanto tre l’hanno presentato: Forza Italia, Azione e M5s. Nei primi due casi si tratta di programmi in dieci punti, che mettono in testa i temi della difesa comune, della sicurezza europea e quindi del sostegno all’Ucraina. Anche il partito di Giuseppe Conte nelle sue cento pagine mette l’Ucraina in testa, ma per dire «basta all’invio di nuove armi e perseguiamo in tutti i modi la pace». E poi la riforma delle istituzioni europee, la transizione energetica, la politica industriale e tutto ciò che si decide in Europa. Gli altri partiti un programma nemmeno ce l’hanno. Il Pd, che storicamente rappresenta una delle forze più europeiste, si è limitato a lanciare una campagna di comunicazione dal titolo «L’Europa che vogliamo» con slide colorate: «Un’Europa per la pace, non di guerra», «Una famiglia, non un bersaglio», «Aria pulita, non veleni» e via di seguito. Insomma: slogan, non programmi. Giorgia Meloni, invece, non ha né programmi né slogan. Solo il suo nome: Giorgia detta Giorgia. «Basta la parola!», come recitava la réclame di un noto confetto dalle fondamentali proprietà terapeutiche.

La realtà, però, è che di fronte a sfide epocali per l’Europa – dalla guerra in Ucraina all’allargamento dell’Unione, dalla transizione energetica alle nuove regole fiscali – in campagna elettorale si discute solo di questioni di politica interna. Le censure in Rai, la fine del Superbonus, il premierato, l’autonomia differenziata, le inchieste giudiziarie in Puglia o in Liguria, il rinnovo dei bonus in scadenza a fine anno, le uscite del generale Vannacci. Ed è un vero peccato, perché nell’attuale contesto i partiti italiani, e quindi l’Italia, potrebbero ambire ad acquisire un ruolo importante a Bruxelles. Giorgia Meloni guida uno dei governi più stabili e con i livelli più elevati di consenso tra i grandi paesi europei, per giunta i voti di Fratelli d’Italia (che sarà il primo partito in Italia) e in generale del gruppo dei conservatori potrebbero essere determinanti per l’elezione della nuova Commissione, e quindi per spostare gli equilibri politici europei. Elly Schlein, invece, con l’Spd tedesca in crisi e il Psoe spagnolo in calo potrebbe ritagliarsi un ruolo di guida nel Partito socialista europeo, visto che quella del Pd potrebbe essere la delegazione più numerosa del Pse.

Ma un po’ come diceva Enrico Cuccia per le azioni, spesso i voti non si contano ma si pesano. Sia Meloni sia Schlein, proprio per tentare di aumentare o non perdere consensi interni, hanno preso posizioni che fanno perdere credibilità in Europa. Sul Patto di stabilità, per esempio. L’accordo sulle nuove regole fiscali europee, più flessibili di quelle precedenti e simili al metodo usato per il Pnrr, sono state proposte da Paolo Gentiloni (commissario europeo del Pd) e poi, dopo un compromesso con la Germania (guidata dal socialista Scholz), firmate da Giorgia Meloni. Eppure l’accordo finale, approvato dal massimo esponente del Pd in Europa e sottoscritto dal governo italiano, non è stato votato né dal Pd né da FdI al Parlamento europeo. Peggio. L’Italia è stata l’unico paese che, praticamente all’unanimità, non ha votato il nuovo Patto di stabilità: tutti i partiti delle principali famiglie politiche europee hanno votato in dissenso dai rispettivi gruppi (Pd-Pse, FI-Pp, Iv/Azione-Renew, FdI-Erc).

Eppure, nelle lunghe trattative il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti era riuscito a ottenere una specie di scorporo, in caso di deficit oltre il 3 per cento, dell’aumento delle spese militari: se la difesa dell’Ucraina è un obiettivo comune, era il ragionamento dell’Italia, la spesa militare deve avere un trattamento diverso. La deroga era stata annunciata dal governo come un proprio grande successo negoziale. Il problema, però, è che l’Italia è uno dei pochi paesi europei a non aver aumentato le spese militari: il governo Meloni, accusato di essere “bellicista”, in realtà le ha ridotte in rapporto al pil. Mentre altri paesi come la Germania o la Grecia, pur trovandosi in crisi, e pur avendo un deficit sotto al 3 per cento, hanno aumentato le spese per la difesa senza avere alcuno sconto. Paradossalmente dovrebbero essere questi paesi a lamentarsi delle nuove regole europee, e invece è l’Italia a farlo. Schlein, dal canto suo, chiede di ridurre ulteriormente le spese per la difesa sia in Italia sia in Europa, nonostante il programma del Pse sostenga il contrario. Con queste posizioni sia Meloni sia Schlein non rafforzano la propria credibilità e quella del paese in Europa, soprattutto dopo che l’Italia ha chiuso il 2024 con il deficit più alto dell’Unione: 7,4 per cento (grazie Superbonus!).

Le altre forze politiche non si trovano in uno stato di salute migliore. Matteo Salvini è stato il mattatore delle europee del 2019 con il 34 per cento e ora gli andrà bene se prenderà un quarto dei voti. La Lega è ai margini in Europa, nel gruppo dei reietti di estrema destra, e i malumori interni sono diventati ormai pubblici: la situazione è talmente disperata che per salvare la leadership Salvini ha puntato tutto sulla candidatura del generale Vannacci. Il M5s si ritrova, a ogni tornata europea, con lo stesso problema: non ha una casa. Dopo la prima esperienza del 2014 nel gruppo di estrema destra, ha fatto nel 2019 una legislatura da senzatetto: Luigi Di Maio aveva in progetto di costruire un gruppo con nazionalisti greci, comunisti croati, rocker polacchi, gilet gialli francesi, ma fallì. Giuseppe Conte ha provato a bussare a tutte le porte: liberali, popolari, socialisti, verdi, ma è sempre stato respinto. Ora potrebbe accoppiarsi in un gruppo rossobruno con Sahra Wagenknecht, l’astro nascente tedesco a capo di una forza populista di estrema sinistra, anti immigrazione e filorussa: fattori che accomunano altri partiti come quello di Robert Fico, l’Orbán socialista slovacco. La vera sorpresa è Forza Italia, che sembrava destinata al declino dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi, e che invece è data attorno ai consensi delle scorse politiche.

I liberali, che fanno riferimento alla famiglia macroniana di Renew, vanno divisi: Matteo Renzi ed Emma Bonino da un lato con la lista Stati Uniti d’Europa, Carlo Calenda e un pezzo di +Europa dall’altro con Azione-Siamo europei. Entrambi sono impegnati in una guerra fratricida per rubarsi i voti, con il rischio che nessuno dei due superi la soglia del 4 per cento. Sarebbe l’ennesima occasione persa per i liberali europeisti, che paradossalmente alle europee vanno sempre peggio che alle elezioni nazionali. Un altro esperimento singolare e tutto italiano è quello dell’Alleanza Verdi-Sinistra di Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, anche loro al limite dello sbarramento: se lo superano, gli eletti andranno a sedere in due gruppi diversi, i Verdi e la sinistra Gue, che hanno posizioni opposte su temi come il sostegno all’Ucraina.

Ci sono poi due liste di scopo, un po’ più lontane dalla soglia: Michele Santoro con il pacifismo filoputiniano di “Pace terra dignità”, che ha appunto come obiettivo spingere l’Ucraina alla resa (termine che nel loro dizionario politico si scrive “pace”). L’altra è la lista “Libertà” di Cateno De Luca, che ha riunito 19 sigle, partiti e movimenti tra i più disparati e contraddittori tra loro (pensionati, ambulanti, agricoltori, No euro, No vax, ambientalisti, secessionisti del nord, autonomisti del sud, etc.). Il politico siciliano ha un eletto in Parlamento con il suo partito “Sud chiama Nord”, e questo gli evita di raccogliere le firme per presentarsi alle elezioni. Grazie a questo asset, De Luca ha messo all’asta (politica) gli spazi all’interno del suo simbolo: in questo modo, se mai la cooperativa dovesse passare la soglia, tutte le sigle partecipanti non dovranno in futuro presentare le firme per presentarsi alle elezioni e potranno accedere al 2 per mille. Un programma forse discutibile, ma comunque più concreto e meno pericoloso di quello di Santoro e compagni.

Luciano Capone (Ariano Irpino, 1985), giornalista del Foglio dal 2014.