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Mi chiamo Antonia e non so proprio cosa fare di me

Scrivere un personaggio non basta, bisogna anche metterlo in scena dalla terapeuta: «Sto male, ho litigato con il mio compagno, sono andata via di casa, ho perso il lavoro, sono svenuta e ho scoperto di avere l’endometriosi». Le bugie che non lo erano, una passeggiata sudata a Madrid e una serie tivù che è come vivere

La prima volta che sono andata da una terapeuta ho finto di essere Antonia, la protagonista di una serie televisiva che stavo scrivendo. È stata tutta colpa di Carlotta Corradi, autrice con me di quel personaggio: è stata lei a pensare che potesse essere interessante sentire cosa avrebbe veramente detto una psicologa a una donna che le arrivava nello studio nelle stesse condizioni in cui Antonia, in puntata uno, arriva nello studio della prima delle varie figure di sostegno che incontrerà. Carlotta ha chiamato la sua ex terapeuta, che ha accettato a condizione che fossi io a interpretare Antonia perché con Carlotta, che era stata sua paziente per anni, l’esperimento non sarebbe mai riuscito.

Non è facile andare in terapia se non lo hai mai fatto: le mie esperienze in merito erano una seduta con una psicologa dell’infanzia che mi avevano fatto incontrare a sei anni per poter certificare il mio stato psichico prima di accedere alle elementari (visto che mi ero rifiutata di frequentare la scuola materna) e uno psicodramma che un’amica di un’amica aveva deciso di fare al posto della sua festa di compleanno e che ci aveva trascinato in una seduta intima e sentimentale tra semisconosciuti (durante la quale ho pensato che forse avevo sbagliato a rifiutarmi di frequentare la scuola materna).

«Tu mi stai dicendo che non sei mai andata in terapia?», mi ha chiesto Carlotta sconvolta, qualche giorno dopo che ci eravamo conosciute. Io, lei e la sua pancia di otto mesi e mezzo camminavamo sudate e sperse tra le strade di Madrid, quando ha aggiunto: «Io, se potessi, non farei altro che quello». «E faresti bene», ho pensato io, considerando quello che era successo la prima volta che ci eravamo sentite, qualche settimana prima.

Laura Pugno, allora direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura di Madrid, ci aveva invitate per un festival teatrale al Centro Dramático Nacional, dove ci sarebbero state delle mise en espace dei nostri testi che avevano vinto, in diverse categorie, il Premio Riccione. Alla notizia, Carlotta si era fatta dare il mio numero benché non ci conoscessimo e mi aveva chiamato per mettermi a parte delle sue preoccupazioni, facendomene una lista lunga e dettagliata: voleva partire ma aveva una pancia enorme, grande quasi quanto la sua paura di volare, di svenire al Reina Sofia e di avere le doglie in Spagna. «Poi sono della bilancia, odio i conflitti, non voglio discutere con nessuno riguardo a questa cosa della gravidanza – tassisti, impiegati dell’aeroporto, addetti alle file. E infine c’è il fatto delle rane: devo essere difesa da qualsiasi loro raffigurazione: se le vedo, le sento, le immagino mi viene da vomitare. Se viaggiamo insieme, mi puoi dare una mano?». Io l’avevo rassicurata, vendendomi come una compagna di viaggio stabile, attenta e organizzata, della quale si sarebbe potuta fidare. Ed era vero quando l’ho detto, o almeno io pensavo lo fosse perché solitamente lo è, ma non in quel periodo: era l’inizio del 2019, stava per uscire il mio secondo libro ed ero in piena crisi personale, emotiva e lavorativa. Nel momento in cui mi sono ritrovata su un aereo pronto a decollare, mano nella mano con questa donna praticamente sconosciuta, ripiena di liquido amniotico e preoccupazioni, ho capito che le avevo mentito. E infatti i giorni successivi sono stata un disastro: ho scordato chiavi, perso oggetti, confuso appuntamenti; ho parlato di rane, bloccato un ascensore, sbagliato strade. Era pieno mezzogiorno e avevamo camminato per una decina di chilometri a piedi, quando Carlotta, enorme, affannata e zoppicante, si è stupita che io non fossi mai andata in terapia e mi ha detto che lei non avrebbe fatto altro e io, nonostante continuassi a fingere di sapere la strada e di non essere in crisi, ho avuto il coraggio di pensare che faceva bene a perseguire quell’anelito psicoanalitico perché la sua (gravid)ansia era molto peggio della mia bugia: va bene, forse ero in negazione, ma ti pare che non avrei ritrovato l’albergo?

Se Carlotta non ha partorito a Calle de Concepción è solo perché abbiamo incontrato per caso il critico teatrale Graziano Graziani, anche lui ospite del festival, che mosso a compassione per queste due drammaturghe in ambasce ci ha ficcato in un taxi, tirandoci via da quella scena fin troppo simbolicamente didascalica nell’introdurre il momento in cui, arrivate finalmente in hotel, Carlotta mi ha parlato per la prima volta di Antonia.

Qualche mese prima, Chiara Martegiani l’aveva chiamata e le aveva detto che aveva voglia di raccontare una storia che prendesse spunto dal momento complicato che stava attraversando come donna e come attrice e che – le sembrava – anche molte altre persone intorno a lei stessero vivendo. La crisi come varco per cercare di capire chi si è.

«Dovremmo scriverla insieme», mi ha detto Carlotta davanti alla tisana bollente con cui abbiamo controintuitivamente cercato di riprenderci. E io, anche se non avevo mai scritto niente insieme a nessuno, ho detto di sì.

Nella sala d’aspetto di Angela, la terapeuta davanti alla quale, due anni dopo quel giorno, stavo per fingere di essere Antonia, ho maledetto quel sì: non lo volevo fare, mi sembrava una performance al di sopra delle mie possibilità, una mistificazione che non avrei saputo gestire. Dovevo posizionarmi nel giorno del trentatreesimo compleanno di Antonia, sulle macerie della sua vita appena esplosa. «Sto male, ho litigato con il mio compagno, sono andata via di casa, ho perso il lavoro, sono svenuta e ho scoperto di avere l’endometriosi», mi ripetevo per entrare nella parte perché era questo il punto del personaggio che avevamo costruito.

Dopo Madrid, avevo conosciuto Chiara, e la sua crisi, la mia e quella di Carlotta avevano trovato un terreno comune, quello che ha gettato le basi su cui si è appoggiata la storia che abbiamo scritto e riscritto: take, soggetti, monologhi sull’animalità di Roma, pagine di Wikipedia in cui immaginavamo di raccontare Antonia e le sue caratteristiche di comportamento, backstory, studio dei percorsi degli autobus di Roma, condizionamenti, paure. Quando Chiara, qualche mese dopo che abbiamo iniziato a parlare, ha scoperto di avere l’endometriosi, abbiamo discusso molto sull’eventualità di inserirla nel racconto: era una sfida complessa, un argomento poco trattato, avevamo paura di sbagliare. Poi però ci siamo guardate intorno (e dentro), abbiamo parlato con le nostre amiche, scoperto i numeri e capito la necessità; abbiamo letto, ci siamo informate, abbiamo studiato i casi e intervistato la più grande esperta italiana in materia, fino a capire che l’endometriosi per Antonia poteva essere un detonatore: scoprire di avere una malattia così profondamente connessa con il dolore le avrebbe permesso di riconoscerlo, quel dolore, dargli un nome, prendersene cura e iniziare un viaggio per smettere di viverlo come una colpa.

Quando mi sono seduta sul divanetto di Angela, con Carlotta a meno di un metro, su uno sgabello, pronta a interrompermi se stavo dimenticando qualcosa, Antonia era ormai già Antonia, cristologicamente impantanata nei trentatré, tra morte e rinascita, pollo e gallina, ansia e negazione. «Mi chiamo Antonia», ho detto: «E a differenza di Gesù che, dopo la morte è stato capace di risorgere, io non so proprio cosa fare» e poi a seguire mi sono lanciata in tutta un’altra serie di intellettualizzazioni che hanno spinto Carlotta a interrompere l’esperimento, mettendo le mani a T come durante una partita di pallavolo, per poi avvicinarsi al mio orecchio e dirmi tutta una serie di cose che, stringi stringi, significava: «Sei la peggiore paziente che una terapeuta può incontrare». E siamo andate avanti così, a tentativi interrotti, autonarrazioni letterarie, domande sbagliate, atteggiamenti ostili e convinzioni da smontare, il tutto condito da altre considerazioni bibliche, soprattutto inerenti al fatto che, con tutto il rispetto per Gesù, pure essere donna, certe volte, è una via crucis.

Angela non si è scomposta, anzi: è riuscita ad astrarsi e a rispondere nel merito di quello che era il vero argomento in campo, ci ha ispirate a continuare a cercare. Dopo di lei abbiamo parlato con una psicologa della Gestalt, un paio di sessuologi, una sciamana di Matera, uno sciamano messicano e un’analista freudiana. Ci siamo nutrite delle esperienze di Carlotta e delle mie, di quello che conoscevamo e che ci avevano raccontato, del percorso di scoperta e diagnosi di Chiara, della giungla romana in cui viviamo, del mio cattivissimo animale di potere e della descrizione certosina dell’aura di Carlotta. Abbiamo fatto i tarocchi, provato la cristalloterapia, seguito i consigli della nutrizionista di Chiara. Siamo state deluse, sconfortate ed esaltate perché, mentre scrivevamo Antonia che ne passava tante, pure noi non ce le siamo fatte mancare.

Poi, a un certo punto, Chiara si è vestita da Antonia, le sceneggiature sono diventate settimane di set, la prima stagione è stata girata, montata, musicata e trasmessa e io e Carlotta, mano nella mano (mi vuole sempre dare la mano, è fatta così), l’abbiamo vista uscire ed essere guardata anche dagli altri.

«Ma non ti è venuta voglia di andare in terapia?», mi ha chiesto Carlotta qualche pomeriggio fa, mentre scrivevamo insieme l’inizio di un nuovo progetto: «Io mi sa che provo l’EMDR». «Non so», le ho risposto io: «Seguendo i primi colloqui gratuiti di Antonia sinceramente mi è sembrato di averlo già fatto un percorso». Carlotta non ha fatto in tempo a biasimarmi che è arrivata sua figlia Lea e ha iniziato a spingermi ripetutamente con le mani sulla schiena – forse per vendicarsi di quel giorno a Madrid che era a sudare con noi dentro la pancia di sua madre o forse per dire in azione quello che Carlotta stava pensando. Io ho fatto finta di niente e ho continuato a battere con le dita sulla tastiera del mio computer.

Scrivere è un po’ come vivere a Roma. Ti insegna a sopravvivere e te lo fa sembrare meglio di vivere.

Elisa Casseri (Basso Lazio, 1984) è una scrittrice e sceneggiatrice. Ha scritto «Teoria idraulica per famiglie» (Elliot, 2014), «La botanica delle bugie» (Fandango, 2019) e «Grand Tour Sentimentale» (Solferino, 2022).