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Mia nonna Rosa e le altre donne in fondo al pozzo

Mia madre era la figlia della pazza, io sono la nipote della pazza. Rosa è stata rinchiusa prima della legge Basaglia: quanti elettroshock per un problema neurologico. Per finire in manicomio bastava la parola del marito, del padre, del prete. La follia di essere pigre, discinte, frigide

Mia nonna era pazza e forse ero pazza anch’io. Che la nonna Rosa fosse pazza lo dicevano tutti e lo prova il fatto che è stata in manicomio. Che io fossi pazza era un dubbio che ha sempre galleggiato nella mia testa, perché se una persona di famiglia è stata in manicomio sospetti di tutto, anche delle rassicurazioni di chi ti spiega che le sue crisi epilettiche sono arrivate in seguito a un incidente, non erano genetiche, e oltretutto erano disturbi neurologici, non psichiatrici, solo che al tempo non esisteva la distinzione. Eppure quando ero bambina per un periodo ho sentito le voci, monotone, circolari, insistenti. Poi sono sparite. Ma periodicamente ho avuto paura del pozzo profondo, era una possibilità. Era facile scivolarci, soprattutto se donne.

Per scrivere il mio libro ho cercato Rosa, mia nonna, rovistando nei miei ricordi, in quelli di mia madre e mia zia, nella sua storia, nei pochi scritti e infine nella cartella clinica custodita nell’ex manicomio Sant’Artemio di Treviso.

Ho cercato anche le storie delle altre donne rinchiuse, ho letto molte cartelle cliniche conservate all’archivio dell’ex ospedale psichiatrico. Ho scoperto che a Rosa non fu risparmiato niente del tormento inflitto ai malati psichiatrici prima della rivoluzione di Basaglia: la reclusione, l’insulinoterapia, l’elettroshock, la privazione dei diritti civili, la vergogna, l’isolamento, lo stigma, l’essere additata come la pazza del villaggio. Mia madre era la figlia della pazza. Io sono la nipote della pazza. Quando camminavamo in paese la vergogna ci si appiccicava addosso.

Al Sant’Artemio mia nonna Rosa era ricoverata fra le dozzinanti, quelle che non potevano pagare e quindi avevano un trattamento più ruvido e pietanze meno curate, altrove c’erano le solventi, con lenzuola più morbide e piatti più ricercati, ma tutte non potevano uscire, tutte consegnavano all’entrata i vestiti e gli effetti personali, come nei lager o in prigione, tutte venivano sottoposte a elettroshock, tutte erano chiamate pazze, perché la ricchezza non ha mai salvato nessuna dal pozzo.

Le donne rischiavano di finire in ospedale psichiatrico per mille motivi, non tutti collegati ai disturbi mentali, talvolta avevano a che fare con la povertà, la marginalità, la ribellione alle regole e l’originalità dei comportamenti. Tra il 1850 e il 1950 sono state rinchiuse in manicomio in Italia molte malate di mente, ma anche molte ragazze e donne semplicemente disabili, depresse, ansiose, dissidenti politiche, ribelli, donne indipendenti che arrecavano disturbo alla famiglia, disinibite, che vivevano la loro sessualità in maniera libera, che non volevano sottostare alle regole imposte dalla società, dai mariti, dai padri, dai fratelli. Le donne potevano essere internate per sintomi psichiatrici (allucinazioni, pensieri ossessivi, depressione), disturbi neurologici (come è accaduto a Rosa, mia nonna), ma anche per motivi sostanzialmente etici. Tutte noi avremmo potuto finire in manicomio.

Ho letto le motivazioni di ricovero delle cartelle cliniche e mi sono appuntata queste: «non aiuta nelle faccende domestiche», «instabilità di carattere», «erotomania», «discinta», «traditrice», «esce di casa a ogni ora», «si rifiuta di dormire con il marito», «non vuole avere figli», «non acconsente a sposarsi», «dà pubblico scandalo», «orfana», «rapporti sessuali occasionali», «stravagante», «ruba», «idee originali».

Quella che in assoluto preferisco per la sua palese assurdità, per il suo essere chiaramente un pretesto è: «La paziente viene portata all’ospedale psichiatrico perché ballava e cantava in strada e in casa». È la mia preferita forse perché anche ieri cantavo e ballavo in auto da sola. Ero pazza? È un pensiero che contemporaneamente mi fa venire i brividi e voglia di ballare e cantare ancora più forte.

Nelle carte impolverate, scritte a mano o a macchina, ho trovato tante storie. Ho passato ore straordinarie in compagnia di queste donne e di mia nonna Rosa, che ho frequentato da bambina e mi aveva affascinato con i suoi sorrisi sbilenchi, il comodino ricoperto di pillole colorate, i movimenti lenti, il corpo pesante che sprofondava ovunque si sedesse.

Ho scoperto che a volte le famiglie si volevano semplicemente sbarazzare di queste madri, suocere, mogli, figlie, sorelle disubbidienti, faticose, diverse, che procuravano solo guai, erano un peso economico, motivo di scandalo in paese, ribelli, libere, poco operose, spudorate, gelose, depresse, ansiose, sessualmente compromesse, traumatizzate, povere, pulsanti di vita o di morte, troppo tristi, troppo allegre, arrabbiate, sexy, discinte, pigre, frigide, lesbiche, erotomani, scandalose, originali. Povere creature. Per finire rinchiuse bastava la parola del marito o del prete o dei vicini.

È un genero, per esempio, a far rinchiudere al manicomio Sant’Artemio una donna di 54 anni nel 1930. Ci resterà vent’anni. Non è malata di nulla, ma il marito della figlia non la sopporta e la fa ricoverare. Per anni lei insiste a scrivere a casa, chiede che le vengano portate le poche cose – un golfino, le ciabatte – che le servono. Nessuno l’ascolta.

Poi ci sono quelle – tantissime – che vengono rinchiuse perché destano scandalo. Una ragazzina di 16 anni arriva all’ospedale psichiatrico accompagnata dalla madre. La sua colpa è di essersi «mostrata succintamente vestita alle finestre di casa sua così che gli uomini che stavano di fronte le facevano delle proposte». Il medico scopre che la giovane ha subìto una violenza sessuale «da parte di un ragazzo che le faceva la corte, è rimasta molto traumatizzata da questo perché dice: ‘Sono stata presa con la forza se invece mi avesse presa con delicatezza’», ma anziché biasimare l’uomo che l’ha violentata il medico stigmatizza il comportamento della ragazza che viene ricoverata l’11 settembre 1969. Cinque giorni dopo il suo arrivo, il 16 settembre, le fanno l’elettroshock, da allora la famiglia la abbandona in manicomio e lei tenta due volte di togliersi la vita.

A volte le donne vengono internate perché la famiglia è numerosa, non possono lavorare e quindi sono un peso. È il caso di una giovane di 17 anni ricoverata da quando ne aveva 13. La famiglia è povera e numerosa. Quando finalmente questa fanciulla esce dall’ospedale psichiatrico un po’ alla volta si riprende e dopo mesi sembra un’altra, sta bene, scrive il medico, a riprova del fatto che spesso i manicomi erano lontani dall’essere la soluzione ai problemi mentali: spesso ne erano la causa. Nei miei incontri all’archivio ho incrociato anche la storia di una giovane donna che arriva al Sant’Artemio nel 1953 al quinto mese di gravidanza. È agitata e rifiuta il cibo. Sostiene che il marito la tradisce, è arrabbiata, gelosa. Le annotazioni del medico appartengono più alla sfera dei rimproveri morali che a un approccio psichiatrico: «È sempre fatua, querula, ironica e sfrontata – scrive il dottore – talora sboccata alquanto». Tanto basta per rinchiuderla. Appena partorisce le portano via il bambino.

Infine c’è la madre di tre figli, rinchiusa in manicomio perché gelosa al punto che «si recò anche da una fattucchiera per fare un ‘legame d’amore’ per suo marito». La donna viene sottoposta a trenta sedute di elettroshock in pochi anni. Uscirà poi dall’ospedale psichiatrico e starà meglio. Anni dopo scriverà una lettera, contenuta nella cartella clinica, in cui si viene a scoprire la verità e cioè che subiva dei maltrattamenti e non era affatto pazza. «Sono riuscita a separarmi, non però legalmente, ma sono separata lo stesso», scrive al primario. «Ho trovato una stanzetta e una cucina» e poi chiede un certificato che attesti che è sana «come lei dottore ha sempre detto», così da poter riavere i suoi figli.

E Rosa? Ogni giorno mia madre, da ragazza, andava a trovarla di nascosto. La trovava seduta alla finestra, tra suoni penosi di urla e chiavi che serravano le porte e l’odore del manicomio, un misto di minestra e urina. Stavano per ore sedute l’una di fronte all’altra alternando qualche frase al silenzio. Desiderava tornare a casa, Rosa, «sono cento giorni che non torno», diceva. Ma desiderava anche riavere i suoi diritti civili, che le erano stati tolti per lo status di malata psichiatrica, voleva andare a votare. Ne soffriva tanto, ne parlava spesso, era uno dei suoi crucci.

Per anni al Sant’Artemio la legano al letto, la intontiscono di farmaci. A 36 anni ha tutti i capelli bianchi. È stato l’elettroshock, dice. Le sue crisi esplodono all’improvviso, ma per il resto è una donna mite, appesantita, placida che ama i libri e i film, soprattutto quelli misteriosi o di avventura. È anche frivola, pigra, svogliata. Come me. Da ragazza – dicevano le sue sorelle – si sottraeva ai lavori domestici. Da adulta ha avuto il coraggio di separarsi di fatto dal nonno. Da anziana quando è stata dimessa dal manicomio, viveva da sola a Guia, ma spesso si allontanava di nascosto in corriera, senza avvisare le figlie, per andare a trovare qualche amica.

Me la immagino Rosa che sale sul bus per andare in città. È una giornata di sole, ha preso la borsa e il golfino, sale trafelata e si sistema su un sedile, si passa il fazzoletto sulla fronte e sul viso, sorride, guarda dal finestrino il paesaggio che muta, scambia qualche parola con la persona che le sta di fianco, consegna il biglietto all’autista, pregusta l’avventura. Me la immagino mentre sente il piacere della scoperta, l’anonimato della città, palpita all’idea di un caffè da sola, lontana dal racconto di chi già la conosce e già l’ha etichettata come Rosa “la malata”, “la pazza”. Solo lontano poteva essere qualcos’altro. Me la immagino mentre cammina in mezzo a gente sconosciuta, mentre riporta di lei quel che vuole che sappiano, tace quel che non vuole sia riferito, non più ingabbiata nell’immagine precostituita dalla sua storia, dai medici, dal marito, dalle sorelle, dalla sua famiglia, costruendo un’altra Rosa su questo terreno spoglio, iniziando un nuovo racconto di sé, inedito, più autentico.

Scrivendo alla fine mi rendo conto che non ho fatto altro che cercare mia nonna e insieme a lei avvicinarmi a mia madre e parlare a mia figlia.

Rosa nascondeva anche dei segreti, cose che aveva subìto, di cui si colpevolizzava, violente, dolorose, indicibili. E infatti non le ha raccontate, le sue figlie non conoscevano la vera storia fino a che non hanno aperto la sua cartella clinica un anno fa. I suoi segreti li ha tenuti nascosti dentro di sé perché le avevano insegnato che certe cose sono una vergogna per chi le subisce, non per chi le compie, si doveva vergognare e doveva tacere, questo le avevano detto, spingendola tutti assieme in fondo al pozzo.

Ho guardato e sporgendomi ho allungato una mano. Ti ho molto cercata, Rosa. Eccoti qui.

Valentina Furlanetto (Montebelluna, 1972), giornalista di Radio 24 il Sole 24 Ore dal 2002, cura e conduce la trasmissione “I figli di Enea, storie di italiani di origine straniera”. Il suo ultimo libro è “Noi schiavisti” (Laterza, 2021).