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Putin contro le donne, delitto senza castigo

Sofi Oksanen sentiva in casa l’eco della violenza russa sulle nonne e le zie, poi ha ritrovato questo terrore viaggiando in Ucraina. Ha denunciato lo stupro come arma di guerra e le hanno detto: isterica. Conversazione sull’ultimo episodio di una saga imperialista e brutale

Sofi Oksanen è un animale notturno. Sono le tre passate quando entro nel suo appartamento, all’ultimo piano di un edificio di Kallio, un quartiere popolare gentrificato di Helsinki. Il biancore malinconico della giornata sta svanendo, eppure la scrittrice ha le imposte chiuse e le tende tirate. Un lungo tavolo nero circondato da dei mobili rosso carminio poggia su un parquet scuro; le pareti sono dipinte di rosso granata. Oksanen è minuta, la sua carnagione pallida è illuminata da labbra tinte di rosso e da occhi grandi e affilati, con palpebre color malva circondati da degli occhiali rotondi. Ama il Natale, un albero addobbato scintilla ancora a fine gennaio. Sopra il camino troneggia una collezione di icone e alla parete è appesa una tela con una giovane donna nuda seduta con le gambe spalancate. Il suo sesso è nascosto da una testa di donna decapitata, mentre tiene in mano un piatto con un’altra testa, come Giuditta con Oloferne. È in questo antro barocco che la scrittrice finlandese-estone ha scritto la sua ultima opera: un pamphlet contro la Russia, Contro le donne. Lo stupro come arma di guerra. «Non potevo che scrivere un saggio. Senza fronzoli. Non sono tempi per le metafore. La violenza sessuale è il più trascurato dei crimini di guerra», dice.

Le truppe russe che hanno attaccato l’Ucraina stuprano, nelle case delle vittime, negli scantinati, nei centri di detenzione illegali, a volte in pubblico. È una strategia deliberata dei responsabili dell’Fsb, i servizi di sicurezza russi, parte integrante dell’arte bellica russa: mettere le mani sulle madri, le mogli, le sorelle dei soldati e delle autorità per spezzare gli individui e le famiglie, intere comunità, per generazioni. Tra gli esecutori ci sono anche i mercenari del gruppo Wagner, ex detenuti che sono portatori di Hiv ed epatite C. «È come se un nemico si fosse intrufolato di sorpresa nel mio letto», le racconta una donna ucraina violentata che non riesce più a fare l’amore. L’autrice scrive che è un’impresa genocidaria: si tratta di minare le fondamenta di una società con l’obiettivo di sterminarne l’identità. Si inserisce nel quadro di una politica misogina su larga scala, un’arma che Vladimir Putin usa da anni. In Russia, questa politica impedisce alle donne di ricoprire posizioni di responsabilità; a livello internazionale, aiuta il presidente russo a trovare alleati sensibili ai “valori tradizionali” che la Russia si vanta di difendere. Oggi per il codice penale russo il femminismo è una forma di terrorismo. Sofi Oksanen conosce bene l’Ucraina. Ci era andata da bambina, quando il padre finlandese lavorava come elettricista nei cantieri dell’Unione Sovietica. Ci è tornata spesso, in particolare tra il 2015 e il 2017, mentre lavorava a Dog Park, un romanzo la cui trama ruota attorno al business della gestazione per altri – l’Ucraina prebellica era l’Eldorado per le coppie in difficoltà.

«Euromaidan (all’inizio del 2014) ha trasformato il paese. Prima di allora, l’Ucraina era ancora un paese sovietico. Per come funzionavano le cose e per la mentalità. La Rivoluzione della dignità ha sprigionato l’energia delle persone. I cittadini traboccavano di entusiasmo. Volevano cambiare tutto, e non solo nell’Ucraina occidentale ed europeizzata». L’autrice porta l’esempio di Dnipro, nell’est dell’Ucraina, dove ha fatto una lunga ricerca. In questa città dall’architettura zarista fondata dall’imperatrice Caterina la Grande vivevano molti russi. «Ma alle finestre sventolavano anche le bandiere ucraine. Gli abitanti avevano scelto di voltare le spalle a Putin e abbracciare il futuro».

Nella biblioteca di Sofi Oksanen si trovano libri sui gulag, su Lenin e sull’Holodomor, la carestia indotta da Stalin negli anni Trenta che ha sterminato quattro milioni di ucraini. Per molto tempo, l’autrice si è distinta nel panorama intellettuale finlandese. Per i suoi rasta colorati, la sua bisessualità, perché rivendica apertamente il femminismo, e ancora di più per le posizioni che ha preso, tutte molto ostili alla Russia. «Mi davano della estone isterica. Fino al 2022 la classe politica finlandese e l’occidente hanno giocato a riappacificarsi con Putin. Dovevamo mantenere il dialogo con Mosca, come se la Russia fosse un elemento di pace e stabilità», dice l’autrice. Questa è l’altra sfida del libro: dimostrare che l’invasione dell’Ucraina è l’ultimo episodio di una saga imperialista che i padroni del Cremlino – zar, comunisti e Putin – hanno portato avanti per secoli. «L’invasione non avrebbe dovuto sorprendere nessuno. Era dal 2007 che sapevo che avrei assistito a una guerra in Europa». Quell’anno i leader estoni hanno spostato il “Soldato di bronzo”, un monumento all’esercito sovietico, dal centro di Tallinn alla periferia. Sono scoppiate le sommosse, alcuni funzionari russi hanno incitato a rovesciare il governo estone “fascista” e i siti web del governo, le banche e i media hanno subìto un attacco informatico di dimensioni senza precedenti. «Putin aveva lanciato la sua prima operazione ibrida in territorio straniero. Era la prova dell’aggressività della Russia; aveva l’odore e il linguaggio della guerra. Era un ballon d’essai. L’occidente non gli ha dato abbastanza peso».

La scorsa primavera Sofi Oksanen ha visitato la Tate Modern. Come ormai è consuetudine, il museo londinese espone la diversity e la storia coloniale di diversi stati.

«Offriva persino un itinerario alternativo che saltava le sale in cui lo sfruttamento coloniale avrebbe potuto mettere a disagio i visitatori». L’autrice nota però che non sono esposti artisti dissidenti dell’Europa dell’est. «L’unica dittatura a cui il museo non si riferiva come stato totalitario era l’Urss», scrive, contrariata ma non sorpresa: «L’esperienza del totalitarismo vissuta dall’Europa orientale sotto il comunismo non è ancora stata metabolizzata nella memoria del continente», e il colonialismo russo, per esempio in Siberia, è invisibile nella cultura popolare occidentale. Non esistono libri, serie televisive o film, come Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese, dedicato al popolo Osage. Continua: «Nell’immaginario occidentale, imperialismo e colonialismo sono associati alle spedizioni oltreoceano delle potenze europee e degli Stati Uniti. Sebbene essi siano propri della natura stessa della Russia. La Russia non ha mai smesso di volersi espandere a danno dei suoi vicini. Il suo imperialismo è iniziato con l’annessione dell’Ucraina nel 1654 ed è proseguito senza interruzioni». Il conflitto in Ucraina è da leggere con questa lente. Secondo Sofi, i russi stanno seguendo lo stesso piano d’azione che hanno seguito in Estonia negli anni Quaranta – l’Estonia, il paese di sua madre, la sua nazione del cuore. Sofi da giovane vi trascorreva le estati quando il paese era ancora occupato dai sovietici. «Mia nonna e le sue sorelle mi raccontavano cosa hanno fatto i russi quando sono tornati, in virtù del patto Molotov-Ribbentrop: terrore, violazioni dei diritti umani, la distruzione della cultura e deportazioni, essenziali ai sovietici per stabilire il loro dominio». In Contro le donne. Lo stupro come arma di guerra, l’autrice ricorda che nel giugno 1941 le élite della repubblica indipendente dell’Estonia furono liquidate. Otto anni dopo, più di ventimila persone, intere famiglie, furono deportate con la forza, e i combattenti della resistenza dei Fratelli della Foresta furono annientati. Durante la guerra l’Estonia perse un quarto della sua popolazione.

«Da decenni, la Russia perpetua il delitto senza castigo e il castigo senza delitto», scrive lei, perché Putin, come i suoi predecessori sovietici, riscrive e manipola la storia. Ha fatto della Grande guerra patriottica il fondamento dell’identità del suo regime. «Non coincide con la memoria della Seconda guerra mondiale. Ma inizia con l’invasione della Germania nel 1941. La sua memoria conferisce ai russi una superiorità morale: nessuno stato sovrano è uguale al loro. Ha permesso al dittatore di giustificare i crimini di Stalin, che ha così riabilitato, i crimini del presente e del futuro, e di creare l’immagine del nemico. Che sia contro la Finlandia e l’Estonia negli anni Quaranta, o contro l’Ucraina oggi, la Russia combatte sempre contro “fascisti” e “nazisti”. Gli avversari vengono disumanizzati, i genocidi legittimati, le vittime dimenticate; l’accettazione di questa violenza ha spianato la strada alla brutalità del regime. Fino a quando la Russia cristallizzerà la sua storia in una forma immutabile, non ci sarà nulla da sperare. Il giorno in cui affronterà il suo passato, potrà liberarsi dalla sua mentalità imperiale».

Nel frattempo, l’occidente deve decidere una volta per tutte se l’Ucraina vincerà o se la guerra continuerà. «Questo è un conflitto tra due sistemi di valori. Non possiamo permetterci di perderlo», afferma con convinzione. Sono d’accordo.

Olivier Guez (Strasburgo, 1974), è uno scrittore e giornalista francese. Vive a Roma. Il suo ultimo libro tradotto in italiano è «Nel paese dell’aquilone cosmico» (Neri Pozza, 2022).