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Tagliami come i capelli degli angeli

Volevo che fosse Kurt Cobain a dirmi cosa farmene della mia adolescenza. Le ore passate a tradurre le canzoni per trovare una spiegazione alla tristezza, le magliette nere con lo smile giallo sulla bancarella del mercato, e le sue interviste rilette oggi, trent’anni dopo la sua morte, quando ognuno di noi ha trovato il proprio modo specifico per andarsene via da lì

Qualche giorno fa ho aperto Facebook, una cosa che faccio più di quello che dovrei, mi piace pensare di essere ancora molto giovane, e una delle notifiche mi segnalava che forse mi avrebbe fatto piacere rivivere un ricordo di otto anni fa con Diletta.

Io e Diletta andavamo al liceo insieme, è stata lei a darmi da leggere per la prima volta un libro di Jonathan Coe, lei a farmi ascoltare I Cani e sempre lei a spiegarmi in che modo le ragazze fanno sesso tra di loro. Siamo state amiche per molti anni, e per alcuni di questi anni abbiamo litigato, fino quasi a non parlarci più. Ma è impossibile pensare di non parlarci più davvero, perché, appunto, ci conosciamo e ci vogliamo bene da quando scrivere sulla bacheca di qualcuno era considerata la norma.

Il ricordo di otto anni fa che Facebook mi ha riproposto, in quel modo cerimonioso e dimesso di chi sa di essere stato rimpiazzato da TikTok, era un messaggio da parte sua: «Oggi sono ventidue anni che è morto Kurt Cobain». Solo questo, senza aggiungere altro e senza che io, otto anni fa, le rispondessi nulla.

Nel 2016 Diletta era a studiare a Londra e io stavo cercando di trovare lavoro senza successo a Torino. Eravamo lontane, avevamo vite diverse, ci sentivamo poco, ma lei aveva deciso di raggiungermi così.

Kurt Cobain si è ucciso nella sua casa di Seattle il 5 aprile del 1994, a ventisette anni. Tre anni prima con i Nirvana aveva pubblicato uno dei dischi più importanti della storia della musica contemporanea, Nevermind, passando da un’etichetta indipendente a una major.

Nevermind vendette 300 mila copie a settimana, i Nirvana diventarono la band grunge più famosa del mondo, Kurt Cobain cominciò ad avere dolori lancinanti allo stomaco.

Vengono raccontati, il dolore allo stomaco, il successo, la paura, la stanchezza e tutto quello che c’è stato in mezzo, nelle interviste che minimum fax ha raccolto nel libro Territorial Pissings, uscito a fine marzo con la traduzione di Assunta Martinese.

Le interviste sono in ordine cronologico, iniziano dal 1990 quando alla batteria c’era ancora Chad Channing e il gruppo era in tour per il primo disco, Bleach.

È strano leggere dei Nirvana senza Dave Grohl, ricordarmi che c’è stato un periodo in cui non sono stati la formazione che conosciamo tutti: il bassista altissimo che ai concerti saltava come un pazzo, il batterista con i capelli lunghi e i dentoni, curvo sul rullante, il ragazzo piccolino e biondo che cantava a squarciagola.

Parlano subito di Aberdeen, la cittadina a cento chilometri da Seattle in cui Cobain e Krist Novoselic (il bassista) sono nati e cresciuti. «Già Seattle è considerata una città isolata, ma Aberdeen è proprio fuori dal mondo», commenta Cobain. E poi, poche righe dopo, quando l’intervistatore Bob Gulla gli chiede come sta andando il tour: «Sembra che i booker decidano il programma delle date tirando freccette su una mappa. Ma noi dormiamo fino a tardi, se non ci va non ci presentiamo al sound check. Abbiamo scelto di fare i musicisti, e abbiamo sempre pensato che il rock dovesse essere rilassato. Che diavolo, non dobbiamo lasciarci la salute».

Non è l’unico passaggio di queste interviste a sembrare quasi un’ironica premonizione, come se in fondo Cobain avesse già intuito che invece sarebbe stato proprio il contrario, che il successo sarebbe arrivato, e in pochissimo tempo, che sì è vero non avrebbero più dovuto preoccuparsi dei soldi e di non avere abbastanza budget per mangiare due pasti al giorno, che sarebbe finalmente riuscito a comprarsi la casa nel bosco che dice di desiderare (e nella quale morirà), ma che tutto questo avrebbe comportato esattamente ciò che teme: lasciarci la salute. E forse, ancora peggio, il successo avrebbe significato allontanarsi irrimediabilmente da Aberdeen, dalla loro prima etichetta, la Sub Pop, dalla sottocultura punk rock che li aveva visti nascere, da quei “weirdos”, come li chiama Cobain, che sono il pubblico che preferisce in assoluto.

Diventare i Nirvana avrebbe voluto dire rilasciare un insensato numero di interviste alla settimana, ripetere sempre le stesse cose all’infinito, suonare Smells Like Teen Spirit fino ad averne la nausea. Avere tra i propri fan anche i fascisti, i sessisti, gli omofobi, quelli che al liceo avrebbero preso in giro Cobain perché era gracile e il suo unico amico maschio, il solo con cui riuscisse davvero a parlare, era un ragazzo gay. Avrebbero avuto i giornalisti ad aspettarli fuori casa, nessun controllo sulla propria vita privata, ma in compenso la loro musica sarebbe arrivata a chiunque.

Le magliette nere con lo smile giallo sorridente avrebbero attraversato l’Atlantico e sarebbero planate in una pila bella ordinata su un banchetto di via Sannio, la via di un mercato affollato a San Giovanni. Tra quei banchetti io e Diletta andavamo a comprarci le cinture con le borchie, i pantaloni cargo a vita bassa, gli orribili polsini da tennista con la faccia del Che, qualsiasi cosa ci avesse permesso di apparire subito diverse. Ma poi nessuna delle due aveva il coraggio di essere per davvero emo o punk rock, di rasarci i capelli e portare i cravattini, di andare nei centri sociali e scappare da casa di notte.

Facevamo una vita borghese, anche se lei dopo i nostri giri per bancarelle tornava a casa in macchinetta ai Parioli, e io tornavo in autobus alla Giustiniana, il quartiere periferico in cui non abitava nessuno che conoscevo.

Me ne stavo in cameretta, di pomeriggio, a tradurre i testi di In Utero con il dizionario Zingarelli inglese-italiano che mio padre prendeva in sconto per il suo lavoro di rappresentante di libri. Speravo che quelle frasi mi potessero rivelare qualcosa, che mi spiegassero cosa farmene della tristezza che provavo a vivere lì, lontana da tutti, a disagio nei miei vestiti e nella mia faccia piena di punti neri. Passavo ore a cercare di decifrare le parole che Cobain diceva di scribacchiare su dei quaderni come fossero poesie, ci provavo davvero, ma senza successo.

Le orchidee carnivore non perdonano nessuno, ancora.
Tagliami come i capelli degli angeli e il respiro dei bambini,
l’imene lacerato della tua irraggiungibilità, rimango indietro
cala il tuo cordone ombelicale affinché io
possa arrampicarmici per tornare.

Cioè, obiettivamente e con tutto lo sforzo, non capivo nel concreto di che cazzo stessero parlando.

Però mi piacevano lo stesso, da matti, come non mi era mai piaciuto nessun gruppo grunge prima e come non me ne sarebbe mai piaciuto nessuno dopo.

E quei testi me li ricordo tutti, dalla prima parola all’ultima, me ne sono accorta mentre continuavo a leggere Territorial Pissings, ogni volta in cui veniva citata una canzone.

«Spesso scrivo i testi all’ultimo momento, perché sono pigro. E poi mi devo inventare delle spiegazioni», dice Cobain nell’intervista del 1993 rilasciata a Erica Ehm. Quindi dopotutto aveva un senso se da ragazzina non ci capivo nulla, mi dico, e forse è stata proprio la natura stessa di quelle parole, l’incomprensibilità intrinseca, che me le faceva amare, che le permeava di sacralità come fossero una preghiera, un mantra.

Magari era stato questo, il fatto che non riuscissi a comprenderlo, il motivo per cui, fra tutti gli altri simulacri del rock presenti e passati, avessi eletto a mio mito proprio lui. Volevo che fosse Kurt Cobain, e non Jim Morrison o John Lennon o Sid Vicious, a dirmi cosa farmene dell’adolescenza. Fantasticavo, con l’arroganza sfacciata dei miei quindici anni, che in qualche modo, ascoltando la sua musica fino allo sfinimento, per osmosi sarei diventata anche io come lui, sarei riuscita a tirarmi fuori dal posto in cui ero.

Lo credevo talmente tanto che avevo iniziato a prendere lezioni di chitarra, e a provare a scrivere dei testi, a controllare quanto costassero i voli per Seattle, ma poi si era tutto sgonfiato quando mi ero scontrata con una dura realtà: non bastava amare molto qualcosa per essere anche brava a farla.

Allora pian piano, e con un certo sollievo, ho mollato. Non sarei diventata una rock star quindi, e neanche avrei scritto di musica su Rolling Stone, non mi sarei fidanzata con un batterista magrissimo di venti anni più grande di me, sarei sempre stata terrorizzata dalle droghe, avrei cercato di capire qual era il mio modo specifico per andarmene via.

Quando scrivo, lo faccio sempre con la musica in sottofondo perché il silenzio mi atterrisce, e allora mentre lavoravo a questo pezzo ho pensato: beh potrebbe sembrare ridondante, ma perché non mettere un po’ di Nirvana? Ascoltare Unplugged in New York magari, un live che avevo riprodotto decine di volte mentre facevo i compiti al liceo (non sopportavo il silenzio neanche allora).

Ho aperto Spotify ma poi per qualche motivo non ci sono riuscita.

Non ascolto i Nirvana da dieci anni. Farlo adesso, e per un’occasione comandata come l’anniversario della morte di Cobain, mi farebbe sentire in qualche modo un’impostora, una che vuole riappropriarsi di qualcosa che è stato e ora non è più. Ha a che fare con l’imbarazzo, credo, verso chi ero quando avevo quindici anni, verso quella passione e quello struggimento, quelle poesie scritte sui quaderni. Ma anche con la nostalgia, la consapevolezza che non potremo più essere così.

Da tempo non vivo alla Giustiniana, e Diletta non vive più ai Parioli. Ci siamo spostate nella zona est della città, dove abitano molte persone che, come noi, non si capisce bene che lavoro facciano. Le nostre case sono a cinque minuti di distanza a piedi, ma non ci vediamo mai.

Abbiamo trovato entrambe, credo, il nostro modo specifico per andarcene via.

«A parte le interviste, qual è la cosa che ti pesa di più in questo periodo?», chiede Chuck Crisafulli nell’ultimo dialogo di questo libro, che scorre veloce e potente come la carriera dei Nirvana, sintetico e inesorabile fino all’11 febbraio 1994. È l’ultima intervista di Territorial Pissings, ed è anche l’ultima intervista della vita di Kurt Cobain.

«Stare lontano dalla mia famiglia», risponde lui. «Il fatto che mi danno da mangiare raffinato cibo francese quando io voglio solo mac-and-cheese. Il fatto che dicono che sono inavvicinabile, quando un tempo dicevano che ero timido. Le interviste le ho dette?».

Sarebbe un gioco assurdo immaginare a cosa avrebbe pensato lui di noi tutti, a vederci adesso, sognarlo un cinquantenne tatuato e imbolsito che suona in una nuova band, oppure saperlo nascosto in una casa gigantesca, un eremita che non rilascia più interviste come Salinger. È un gioco che non mi va, che mi fa sentire in imbarazzo come se mi appropriassi di qualcosa che non è mio. È meglio lasciare le commemorazioni a chi lo conosceva davvero, a chi soffre per la sua perdita perché era suo marito, suo amico, suo fratello. Frances Bean, sua figlia, adesso ha la mia età e ha sposato un ragazzo di cui è impossibile non notare la somiglianza con Kurt. Su Instagram mette un post il 5 aprile, lo leggo, mi fa commuovere.

«Quest’anno sono trenta», scrivo a Diletta su WhatsApp. Lei non mi risponde, ma non importa. Sa bene a cosa mi riferisco.

Greta Olivo (Roma, 1993), scrittrice. Il suo primo romanzo, «Spilli», è appena uscito per Einaudi.