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Inno ai pavimenti e ai pensieri sporchi

Grazie a Diane Williams, Lydia Davis e alle altre eroine dell’avanguardia americana che mi hanno mostrato la strada: fare a pezzi la vita per estrarne il nucleo scintillante e violento. Fiabe paranormali domestiche in forma breve, che fenomenale libertà

Il giorno in cui Ben Marcus presentò il suo primo libro nella biblioteca della mia università, andai con la mia  migliore amica Kate. Eravamo appena entrate al corso di Scrittura creativa e ricordo lo stupore sui volti degli altri studenti quando Marcus cominciò a leggere con la sua voce ferma e caustica dal palco. Il titolo della raccolta era The Age of Wire and String (L’età del fil di ferro e dello spago, Alet Edizioni) e i racconti avevano una lingua asciutta ed epica al tempo stesso. Ogni storia era brevissima e dava indicazioni precise per attraversare un mondo in cui le cose più banali, come i nomi propri maschili, gli stati americani o il cibo, prendevano forme radicalmente diverse da quelle a cui eravamo abituati. Eravamo estraniati da quella forma così nuova eppure riuscivamo a identificarci in ogni storia. Non a caso il titolo del libro faceva riferimento a un’epoca comandata dal fil di ferro e dallo spago, elementi di un mondo analogico che stavamo cominciando a lasciarci alle spalle.

Tempo e spazio si restringevano.

Ma cos’era questo modo di scrivere? Chi lo aveva autorizzato? I racconti erano compatti, esilaranti, il linguaggio preciso, ogni immagine un pugno. Poesie? Racconti brevissimi? Haiku narrativi? Fotografie letterarie? Qualche anno dopo, Kate andò a lavorare per un’estate come volontaria per il giornale letterario Noon diretto dalla scrittrice Diane Williams. Dopo il primo giorno mi chiamò in tutti gli stati. Aveva scoperto la madrina di Ben Marcus. Diane Williams è una delle pioniere americane del racconto breve breve, quello che oggi viene chiamato flash fiction. Quell’estate fu interamente dedicata ai suoi libri e racconti. Come con Ben Marcus, scoprimmo che la sensualità del suo linguaggio passava per vie trasversali. Nella sua novella sperimentale e quasi pornografica Romancer Erector, i turbamenti, le brame, le erezioni e le forze propulsive della vita percorrevano una strada adiacente a quella del racconto canonico, senza attraversarla mai. Alla fine di quell’estate Kate mi regalò qualche edizione di Noon. Scoprire quel giornale fu come entrare nel salotto della casa in cui avevo sognato di vivere per anni: Lydia Davis, Deb Olin Unferth, Ottessa Moshfegh, Christine Schutt.

Quella scrittura era una nuova frontiera. Non erano quindi solo gli uomini a essere autorizzati alla forma breve. Nei racconti di Noon c’era urgenza, tensione, narratrici instabili e inaffidabili. Le scrittrici tagliavano la vita a pezzi, buttavano via la cornice per far emergere il nucleo scintillante sotto la superficie. Conoscevano la carica surreale di Leonora Carrington, le fiabe oscure rivisitate di Angela Carter, l’immaginario killer di Ljudmila Petruševskaya con i suoi racconti natalizi horror di genitori imprigionati e abeti decorati da polli morti, donne che tentavano di uccidere i neonati delle proprie vicine di casa.

Diane Williams aveva studiato con l’editor di Raymond Carver, Gordon Lish, dal quale aveva imparato (e poi trasformato) una rigorosissima tecnica di editing. Quando timidamente riuscii a sottoporle un racconto di venti pagine, mi rispose che lo avrebbe pubblicato ma che avrei dovuto accettare i suoi “tagli”. Su venti pagine ne tirò fuori quattro. Mi mandò a casa via posta gli edits sul racconto stampato. Pagine intere erano state cancellate con un segno di penna. Cercavo tra le righe, sperando di poter salvare almeno qualche frase dal naufragio, ma niente. Poi vidi la bellezza di quello che aveva fatto. Tutto era più forte, più teso, più crudo. Accettai e diventai un’assidua lettrice di Noon.

I racconti di Diane Williams erano violenti e primordiali come leggende antiche. C’era il sesso, la morte, il terrore. In quelli di Lydia Davis c’era anche la quotidianità, la ritualità degli eventi mondani, il tentativo di riscoprire azioni banali per rivelarne un fondo grottesco. La sua raccolta Can’t and Won’t (in Italia tradotto da Adelaide Cioni con il titolo Osservazioni sulle faccende domestiche, Mondadori) è un inno agli orrori dei nostri pavimenti sporchi, l’ammissione che le faccende di casa sono spesso più violente e drammatiche di un romanzo russo.

“La cosa utile di essere una persona egoista è che quando i tuoi figli si fanno male, non ti preoccupi troppo perché tu invece stai bene”, scrive Lydia Davis in un racconto.  I  figli nelle storie di Diane Williams sono innocenti ma anche pieni di istinti omicidi. Quando la flash fiction si insinua nella vita di famiglia, regala a ogni scrittrice un via libera fenomenale. Per me raccontare la casa in forma breve significa immergersi in una fiaba paranormale in cui qualche volta può capitare che una madre ansiosa si trasformi in un piccolo mammifero selvatico, una babysitter annoiata pugnali gli orsacchiotti di una bambina, un marito cerchi di convincere la famiglia a togliersi la vita tutti insieme.

Se oggi ho la libertà di esplorare le zone d’ombra delle cucine disordinate e delle vasche da bagno sporche di terra, lo devo molto a queste donne che si sono prese rischi quando era difficile farlo. Alla fine degli anni 80 Gordon Lish rifiutò di pubblicare un romanzo di Diane Williams. Le disse che la sua scrittura così scarna ed eccentrica le avrebbe spezzato il cuore e procurato anni di rifiuti. Oggi Jonathan Franzen la definisce una delle “eroine viventi dell’avanguardia americana”.

Racconti

La custode

La ragazza ci aveva regalato degli orologi perché pensassimo che fosse una brava persona. Il senso era: guarda che belli che sono, tutti colorati, si avvolgono al polso con una sola mossa secca e io ve li sto regalando, capisci? Come potrei mai fare male ai vostri figli?

Ce li siamo passati attorno al tavolo, annuendo. Grazie a Dio ci aveva fatto quel grande regalo, continuavo a dire a mio marito, erano in effetti la prova della sua affidabilità.

Ma lui non si faceva fregare.

“E quella volta che ha accoltellato l’orsacchiotto di nostra figlia?”.

“Sì, ok, ma poi l’ha ricucito, neanche si vedeva”.

“E quando ci ha rubato i soldi?”.

“Erano solo poche banconote”, avevo insistito.

Poi mi ricordò che la ragazza ci chiedeva sempre un extra nei giorni in cui faceva il bagnetto ai bambini. “E pensa quanto ancora avrebbe potuto chiedere se le avessimo chiesto di preparargli la cena o metterli a dormire!”. Cosa faceva esattamente questa ragazza?

Molto poco. Ma questo non potevo dirlo. Cercavo di difenderla, almeno sulla questione degli extra. Anche lui, perché non capiva? I bambini erano sporchi, l’acqua diventava scura quando facevano il bagno, a volte sembrava che ci scomparissero dentro. I saponi si scioglievano nella vasca, forse si sarebbero potuti sciogliere anche i nostri figli. Chissà quanto era difficile trovare mani e arti in quell’acqua nera. Era pieno di pericoli là dentro: oggetti di gomma colorata che galleggiavano, setole di maiale per pulirsi le unghie, ciotoline di plastica. Ai bambini piaceva infilarsi in bocca le spugne sporche.

Se le mettevano sulle narici, inalavano forte e dicevano di voler divorare quel profumo di terra e bagnoschiuma alla rosa. Sarebbero potuti morire soffocati. Fare il bagnetto richiedeva riflessi pronti. Che ne sapeva lui, gliel’aveva fatto solo poche volte. Ma lei, la ragazza, aveva un certificato specifico solo per questo compito, ne aveva vari per tutte le sue mansioni. Ogni attestato aveva un costo. Il foglio dichiarava che con lei immergersi nell’acqua torbida era un’attività sicura. Nessun bambino morto. La pagavamo tantissimo, ne valeva la pena.

La ragazza non era mai gentile. Avevo provato a difenderla anche quando sapevo che era una forzatura. La casa puzzava sempre di aglio che lei faceva ribollire in uno stufato acquoso per tutto il giorno. Lo beveva per rafforzare il suo sistema immunitario. Era l’unica cosa che cucinava. Quando le avevo chiesto se le andasse di preparare il cibo per i bambini invece di bollire l’aglio nell’acqua calda, si era infuriata. Mi aveva guardata con grandi occhi da vitello e aveva detto che era lei quella normale, non io. Lei aveva cresciuto molti fratelli e sorelle, aveva annaffiato e potato moltissime piante.

Lei sapeva cosa fosse la cura, io no. Così avevo riconsiderato i miei dubbi, avevo rivalutato le mie preoccupazioni anche per quell’incidente dell’orsacchiotto. Qualche mese prima aveva appeso un animale di pezza al muro e lo aveva sventrato con un coltello da cucina. Aveva costretto mia figlia a infilare il naso nelle zolle di pelo arruffato dentro la pancia dell’orso, poi le aveva offerto il coltello.

“Vai, tocca a te. È una cosa da grandi, eh”, aveva detto con tono esotico. Mia figlia non voleva accoltellare il suo orso e aveva iniziato a piangere. La ragazza si era scusata e aveva ricucito la pancia di peluche, offesa.

“Peggio per te”, le aveva detto con il labbro che tremava addolorato.

C’era stata anche la volta in cui l’avevo sorpresa ad allattare mio figlio. Ma solo per calmarlo, aveva detto lei. Era normale, le donne dovevano consegnare il seno ai bambini ogni volta che lo chiedevano. Anche se non avevano il latte.

Prima di interrompere definitivamente le cose, la ragazza ci aveva rinchiusi tutti in casa e ci aveva chiesto altri soldi. Era stressata, aveva bisogno di andare alle terme e rilassarsi. Forse era malata. Avrebbe potuto perdere i capelli. Avremmo fatto meglio a darle tutto.

Abbiamo versato quel poco che ci era rimasto sul tavolo della cucina. Lei aveva arraffato il gruzzolo e scosso la testa. Non era molto, si era lamentata. “Voglio il costo dei bagnetti moltiplicato per mille!” aveva ordinato. Ma era una cifra incalcolabile. Frugai nelle tasche mentre i bambini cominciavano a piangere. “Prendi la nostra casa”, le dissi finalmente mettendo le chiavi sul tavolo. Lei accettò e barcollò verso la nostra camera da letto.

“Prenotami la spa”, ribatté sbattendosi dietro la porta.

Chiamai e presi appuntamento. Ma lei doveva essere rimasta a origliare perché quando riattaccai, la porta della nostra camera si aprì. La ragazza uscì con uno sbadiglio. Adesso si sarebbe riposata, spiegò. Finalmente toccava a lei. Fu allora che ci regalò gli orologi, uno per ognuno di noi. Erano facili da usare e avevano colori bellissimi, come cieli di montagna e pascoli luminosi. Con quelli al polso avrei convinto tutti che aveva ragione lei.

Pericoli

La madre era malata e i figli si erano riuniti attorno al letto per decidere cosa fare. Era sempre stata una donna pratica. Ripeteva le stesse idee per dimostrare che erano giuste. Se si dicevano certe cose come “è pericoloso” o “le fragole sono velenose” o “i bambini hanno bisogno di dormire” abbastanza volte nell’arco di una giornata, diventavano reali. Nei primi anni aveva costretto i figli a fare dei riposini che duravano più delle ore in cui erano svegli. Alcuni di loro non avevano memoria dell’infanzia.

La vita della madre era stata una sequenza di dichiarazioni di dati di fatto, le vite dei figli erano state una sequenza di cenni affermativi del capo mentre le stavano accanto. I fratelli concordavano: era pieno di pericoli nel mondo. Mari selvaggi e antiche scalinate, acque velenose, rocce che cadevano dai monti. Aveva ragione la madre. Era sempre meglio restare a casa. Chiudere le porte, accendere i ventilatori, lavare i pavimenti, sedersi sul divano e aspettare.

La madre aveva pulito molti pavimenti e aveva aspettato molte ore, ma ora era arrivato il momento. Se ne sarebbe andata pacificamente, circondata dai suoi cari. Avrebbe trovato il suo posto nell’oscurità. I figli accendevano candele accanto al letto. Lei cercava di concentrarsi sulle parti eccitanti della morte. Si chiedeva se qualcuna delle sue vecchie amiche sarebbe venuta a prenderla per mostrarle cosa fare là fuori, o se avrebbe dovuto scoprirlo da sola. Ciò che temeva di più era la noia, ma anche la solitudine. Aveva sempre sospettato che gli altri si fossero goduti la vita più di lei, e non poteva tollerare il pensiero che potessero esserci persone, magari proprio le stesse persone, che avrebbero goduto della morte più di lei.

Una delle figlie arrivò al capezzale a fine giornata. Non voleva sostenere il calvario. La madre non era turbata e le aveva rivolto comunque un sorriso benevolo. Che importava a questo punto. I fratelli la pensavano diversamente, però. Odiavano il modo in cui la sorella si presentava sempre in ritardo con quel sorriso vacuo come se non avesse fatto niente di male. L’avevano aggredita e rimproverata. Le avevano detto che era sempre la solita, che non c’era speranza, e che se ne doveva andare a quel paese.

Adesso però non era il momento di litigare. Quando i fratelli girarono di nuovo la testa verso il letto, la madre era scomparsa. Al suo posto c’era un coniglio grigio. Forse era un effetto collaterale delle medicine, aveva detto uno dei figli. No, sosteneva un altro, le madri rimanevano nei loro corpi anche da morte. Di solito non venivano sostituite da piccoli mammiferi. I fratelli rimasero a osservare le grandi orecchie del coniglio, discutendo sul da farsi. Dovevano forse adottare il coniglio nel caso fosse una reincarnazione della madre? Dovevano chiedergli aiuto per ritrovarla? Forse la madre era sgattaiolata fuori dalla stanza ed era andata a morire nei boschi come facevano gli animali. Ai figli restava solo quell’essere peloso con gli occhietti concentrati e tante domande, le stesse che li avevano perseguitati per tutta la vita – quelle sui pericoli.

La madre intanto era in una stanza buia e ammuffita, così lontana che riusciva a malapena a sentire le loro voci. Ascoltava il dibattito, il modo in cui incolpavano la figlia ritardataria per averli distratti dal letto di morte. “Ok, va bene è tutta colpa mia, ma cosa facciamo con il coniglio adesso?” aveva detto lei. Dalla nuova stanza la madre li sentiva parlare di conigli letali, di come potessero morderti e darti le malattie. Erano “pericolosi” aveva detto qualcuno, usando la stessa inflessione che usava sempre lei, quella che non lasciava spazio a dubbi.

“Un coniglio pericoloso”, la madre aveva ridacchiato tra sé. Adesso sembrava un’idea così assurda eppure sapeva che da viva l’avrebbe certamente pensata, avrebbe costruito una gabbia in cantina per quell’animale, l’avrebbe rimpinzato di verdure per accertarsi che non gli venisse mai fame di altro. Mentre strisciava avanti nel freddo, desiderava riprendersi tutto. Tutti i discorsi sui pericoli della vita, sulle fragole velenose e il bisogno di sonno dei bambini.

Arrivò al limite della stanza ed entrò in uno corridoio ancora più stretto. Avrebbe camminato un po’, esplorato, trovato il suo posto lì in fondo, senza piastrelle di cui preoccuparsi. Proseguì con la schiena contro il muro, il corridoio si rimpiccioliva. Si chiese quando sarebbero arrivati a prenderla. Dovevano essere in fondo a quel vicolo. Perché ci mettevano così tanto.

Il senso di stare insieme

Ogni mattina i corvi si riposavano sul balcone davanti alla cucina, gracchiando e fissando con occhietti lucidi la famiglia che mangiava, allineati sulla balaustra. A volte riuscivano a volare dentro e raccogliere gli avanzi. Sebbene la famiglia vivesse in uno spazio ristretto, il marito e la moglie parlavano di rado. Lui pensava che avrebbero dovuto farla finita prima di arrivare al punto in cui non si sarebbero parlati mai più e i corvi si sarebbero impossessati dell’intera casa. Uscirne finché c’era ancora un po’ d’amore, o almeno un senso di unione. Preparò il caffè, fece tostare il pane, poi posò la pistola al centro del tavolo davanti ai ragazzi. I corvi volarono via all’istante, il che lo aiutò a confermare la sua teoria. Questa era l’unica soluzione.

Pochi mesi prima il marito si era messo in contatto con una zia morente. Se la famiglia avesse potuto vedere quanto era stata coraggiosa lei, con la sua testa calva e le sopracciglia bianche e rade, si sarebbero fortificati, avrebbero dimostrato anche loro un po’ di entusiasmo in famiglia. Aveva affrontato la morte mostrando i denti. Guardare quegli incisivi era come entrare in un porto sicuro, aveva detto lui per generare un po’ di coraggio nei suoi parenti. Ma i figli e la moglie avevano trascorso molti giorni con la zia morente e i suoi denti larghi e non si erano sentiti meglio. Il tempo non era circolare come diceva lui. Una volta passato era sparito per sempre e loro volevano restare.

I figli e la moglie guardavano la pistola mentre intingevano i biscotti nel latte. Il maschio era perplesso, la femmina aveva accettato il suo destino. La moglie immaginava come sarebbe stata fredda l’arma tra le sue mani. Solo il marito poteva usarla. Questo era quello che diceva, che le armi da fuoco erano come termometri. Erano gli uomini che dovevano decidere se faceva troppo caldo per uscire. Loro decidevano quando i piani andavano annullati. La moglie chiese se poteva almeno toccare la pistola, per assicurarsi che fosse l’idea giusta. La prese dal tavolo. Il marito l’afferrò per il braccio, ma lei si tirò via. Posò a terra l’oggetto estraneo e ci si sedette davanti, contemplandolo come un oracolo. Incrociò le gambe e chiuse gli occhi per raccogliere i pensieri.

Prima di morire, la zia del marito aveva fissato il tetto della casa e aveva visto le stelle attraverso una membrana invisibile. Aveva visto le cose per quello che erano, aveva detto. Ma la moglie non era sicura che sarebbe stato lo stesso per lei. Anche loro avrebbero visto le cose per quello che erano? O sarebbero stati puniti per aver lasciato la loro vita? Era questo il senso di stare insieme? E se il marito avesse fatto fuori gli altri, ma non avesse trovato lo stesso coraggio per se stesso? Era difficile immaginare cosa avrebbero fatto dall’altra parte, forse ci sarebbero state altre giornate in cui non ci si parlava, chiusi in una casa senza finestre.

I corvi tornarono in volo sul balcone e gracchiarono. Volevano il cibo. Non volevano che tutti morissero. La madre sentiva il potere della sua scelta. I bambini la guardavano dai loro posti, in attesa. L’avevano vista spesso pregare per avere risposte.

Avere una famiglia

Non potevamo fare tardi, aveva detto mio marito. La famiglia da cui saremmo andati seguiva un programma rigoroso. Mentre ci affrettavamo a raggiungere la stazione dei treni ci eravamo dovuti riparare per via degli uccelli morti che cadevano dal cielo. Erano piccioni, precipitavano uno sopra l’altro, ammassandosi ai bordi della strada. Ce ne erano così tanti che le auto sbandavano, si sentiva in continuazione il suono delle pance sotto le ruote delle macchine schizzare fuori dai corpi. La gente si stringeva all’interno dei bar per ripararsi. Tutti quegli uccelli morti non potevano che essere un cattivo presagio. Forse era meglio non andare a visitare quella famiglia, forse non avremmo dovuto cambiare le nostre vite.

Mio marito era convinto che nulla dovesse rallentarci, di certo non qualche uccello di città. Mi aveva afferrato la mano e aveva chiesto di non badare ai piccioni morti. Avevamo un treno da prendere. Una volta arrivati a destinazione, la famiglia che ci ospitava avrebbe reso tutto migliore. Il padre era un vero uomo, di quelli che ordinavano per tutti al ristorante e decidevano come dispensare i soldi. Avrei potuto ammirare la sua guida sicura e il nuovo quartiere in cui si erano trasferiti.

Facevo molto affidamento su mio marito. Stavo con lui da quando ero giovane e pensavo che lui sapesse cosa fosse meglio per me. Lui decideva cose come quando mangiare o come masticare, il posizionamento dei tovaglioli sul tavolo. Mi aveva anche raccontato della punta nera delle banane e di come causasse terribili malattie. Una volta mi aveva preso la mano tra le sue e mi aveva fatto sentire la ruvida sommità del frutto. “Fidati, qualunque cosa ci sia lì dentro può solo farti del male”, aveva affermato. “Non mangiarla mai più o morirai”. Io gli avevo creduto. Avevo smesso di mangiare tutta la frutta per sempre. Mi diceva anche che prima di aprire la bocca dovevo pensare attentamente alle cose che aveva detto lui prima di me. Erano cose interessantissime, perché non volevo ascoltarle? Spesso parlava di attrezzi per cucinare o certi tipi di copri pentole. Amava gli oggetti che resistevano al caldo e al freddo. Amava anche la sicurezza ed era per questo che voleva mettermi in guardia sulle banane e farmi salire sul treno per andare dalla nuova famiglia. Loro mi avrebbero insegnato come si faceva a diventare un nucleo sicuro.

Il viaggio poi era andato liscio, mio marito era soddisfatto. Quando siamo arrivati, abbiamo raggiunto la casa all’orario giusto. Le figlie del proprietario si stavano sistemando sulle stuoie in soggiorno, pronte per andare a letto. Il padre ci aveva accolto e poi  le aveva messe a dormire. “Che uomo che è”, aveva detto mio marito con un’inflessione profonda. “Guarda come rimbocca bene le coperte alle sue ragazze”. Io avevo risposto che non era che ci fosse molto da rimboccare con quei tappetini fragili, ma lui mi aveva ricordato di non parlare troppo e mi aveva pregata di non essere scortese. Persone diverse avevano idee diverse su come si faceva ad andare a dormire. Basta con il tuo mondo, aveva detto. “Il tuo mondo, c’è sempre e solo il tuo mondo”. Io ormai avevo un’immagine di questo mio mondo di cui lui parlava  spesso. Era  come un globo, ma nebbioso e distante, senza oceani e senza terra, un po’ una palla che non serviva a niente.

Per la cena, la moglie del padrone di casa era spuntata strisciando fuori dal seminterrato. Era lì che trascorreva le sue giornate, sommando e sottraendo numeri, salendo di tanto in tanto fino al piano terra per condividere i risultati delle sue operazioni. A tavola si parlava delle solite cose, soprattutto del nuovo quartiere dove avevano scelto di andare a vivere, di come fosse abbastanza lontano dalla città perché le bambine potessero pedalare in tranquillità sui marciapiedi, ma abbastanza vicino perché si potesse andare al lavoro senza doversi svegliare troppo presto. E quanto erano tutti più felici ora che vivevano vicino al grande negozio di ferramenta. Tutto ciò di cui avevano bisogno era proprio lì. Mio marito

mi lanciava sguardi chiedendomi di prestare attenzione alla conversazione. Dopotutto erano la ragione per cui eravamo venuti lì. Un giorno anch’io avrei potuto costruire un ufficio nel seminterrato per fare i conti. Cercavo di prendere appunti mentali sul ferramenta e dire qualcosa di intelligente sulle recinzioni da costruire contro i procioni, ma già non riuscivo a ricordare più il nome del negozio e temevo che i padroni di casa potessero capire che stavo fingendo.

Venne la notte ed era ora di andare a dormire. Le finestre della nostra stanza avevano sbarre di metallo. Dal letto vedevo il laser della telecamera di sorveglianza riflettere sul muro esterno. Da chi dovevano proteggersi, mi chiedevo. Le case del quartiere erano identiche alle loro, piene di figlie e biciclette e finestre sbarrate. Era difficile dormire. Ogni volta che passava un animale di corsa, le luci si accendevano. Era una parte importante del protocollo di sicurezza della casa, aveva sottolineato mio marito. I fari a grandangolo fornivano un’ampia copertura del terreno esterno. “Così è tutto più sicuro, capisci?” aveva detto, poi era svenuto e aveva iniziato a russare.

Io ero rimasta sveglia, le luci fuori lampeggiavano. Illuminavano la  stanza,  rivelando le foto incorniciate delle bambine. Avevo chiuso gli occhi e cercato di prestare attenzione ai piedi per rilassarmi. Respiravo in ogni parte del corpo ma non riuscivo a lasciarmi andare. Poi la porta si era aperta e avevo sentito un nuovo respiro entrare nella stanza. Avanzava verso di me nel buio. Qualcuno stava armeggiando con il mio cuscino. Mi ero voltata e avevo visto la faccia del proprietario davanti alla mia.

“Sei sveglia?” mi aveva sussurrato all’orecchio.

“Sì”.

Aveva scosso la testa, poi un sospiro. “Hai fatto buon viaggio oggi?”.

Gli dissi la storia dei piccioni che cadevano dal cielo e di come avevo pensato fosse un brutto segno. Gli dissi anche che mio marito ci teneva che imparassi tutto da loro.

Si avvicinò al mio viso, i suoi occhi erano spalancati e tristi mentre cercava la mia mano sotto le coperte. La afferrò e sentii la sua, calda, un po’ sudata. Aveva una profonda cicatrice tra le dita come se era stato diviso in due.

“Ammettiamolo, è la cosa più insopportabile del mondo”, aveva detto.

Sapevo benissimo di cosa stava parlando.

Se non puoi scopare un uomo

Se non puoi scopare un uomo che vuoi perché sei impegnata in una relazione e lui pure. Se non puoi scopare un uomo perché lui è sposato e tu pure. Se non puoi scopare un uomo, te ne stai sdraiata sul letto la sera pensando a come sarebbe averlo. Oltre ai brividi tra le gambe, il cuore comincia a espandersi finché non giungi alla conclusione che sei innamorata. Questa sensazione d’amore corre perfettamente in parallelo con il resto della tua vita. Sali su un autobus e sei innamorata di un uomo. Porti fuori la spazzatura e sei innamorata di un uomo. Bevi una bottiglia d’acqua, innamorata. Anche quando fai la cacca, un po’, sei innamorata. Sei combattuta tra desiderio e impossibilità. È una battaglia estenuante che ti lascia abbattuta sulla scrivania, con la testa fra le braccia, piangendo. Piangi per puro desiderio. La fame ti mangia viva. Ti masturbi furiosamente. Poi, quando incontri l’uomo, ti mostri docile e mortificata. Lo guardi bene. Metti a fuoco il possibile per bloccare il desiderio. “Gli è venuta la pancia”, dici fra te e te. “Ecco cosa succede a questi uomini addomesticati. Mangiano. Guarda quei piedini da maialino. Quelli non sono piedi da uomo. Guarda quei coni che spuntano sotto alla maglietta. Tette da uomo. E quelle cosce grasse e quelle gambe corte. Quest’uomo sicuro usa troppe virgole. Sbaglia tutte le parole. Quest’uomo non digerisce niente e non ha il senso dell’orientamento. È un uomo brutto, che non legge e non sa remare. Queste immagini che passano per la testa sono un balsamo rassicurante. Ti rendono grata per quello che hai e ti impediscono di desiderare tutto quello che ti manca.

L’unico problema è la notte. In ogni sogno l’uomo è lì e ti guarda con aria di sfida. Concepisci un modo per cui i vostri corpi possano fare l’amore senza toccarsi. Penetra la sua anima e schiaccia il piccolo uomo a terra. Dipende da te.

Chiara Barzini (Roma, 1979), scrittrice e sceneggiatrice. È autrice della raccolta di micro fiction “Sister Stop Breathing” (Calamari Press, 2012) e del romanzo “Terremoto” (Mondadori, 2018.) Ha tradotto in inglese le poesie tratte da “Ancestrale” di Goliarda Sapienza. Per il cinema e la tivù ha scritto tra gli altri le serie “Corpo Libero” e “Bang Bang Baby” e il film “Magari”.