Non sono mai stata una viaggiatrice esperta. Sono stata fuori per motivi di studio molti anni fa e poi per brevi vacanze. A parte una volta a Sharm elSheikh, non mi sono mai allontanata dalla comunità europea e non mi è mai venuto in mente di farmi fare un passaporto. Perché poi? Per andare dove? Ho sempre la sensazione di avere qualcosa di urgente da sbrigare a casa mia, anche se non so bene cosa. Ho iniziato a lavorare all’aeroporto di Malpensa nell’agosto del 2000 con un part-time verticale che copriva sabato, domenica e lunedì.
Può sembrare curioso che una come me abbia visto tante persone spostarsi da un capo all’altro del pianeta; che una come me maneggi tessere, tesserini, patenti, passaporti delle nazionalità più svariate. Non si direbbe che ho un debole per quelli inglesi con la loro copertina elegante, le pagine levigate, perfette, dalle sfumature azzurrine.
Non si direbbe che mi piacciono le carte d’identità greche che non hanno una data di scadenza, e quelle romene che scadono tra molti decenni e non importa se i loro proprietari non somiglieranno più tanto alla foto, un giorno.
In quegli anni i voli charter occupavano un intero terminal e spostavano centinaia di persone al giorno verso località esotiche. Sharm, Tunisi, Djerba, Palma di Maiorca, Ibiza, Santorini, Mykonos, Creta. E come dimenticare le altre destinazioni: Colombo, Malé, Santo Domingo, Cancun. Ho imparato la geografia lavorando e se mi chiedete una capitale, la so.
Mi ricordo l’area gruppi, una sala molto ampia, gremita fin dal mattino, il suo frastuono, le code davanti ai banchi. Tutti volevano le uscite di emergenza, i finestrini, le prime file, e io ripetevo per ore le stesse informazioni, le uscite sono occupate, i posti preassegnati, e sì, siete vicini, oppure no, mi spiace, forse è ancora possibile scambiarvi a bordo con qualcuno.
Le eccedenze costavano parecchio perché si pagavano in chili, e io ancora non padroneggiavo le parole, il giusto tono per dire a una persona che va al mare che la sua valigia pesa troppo. Ma se l’ha sollevata mia nonna! Dopo qualche mese, per evitarmi tachicardie e sudori, avevo imparato dai colleghi più anziani a stare zitta e a distribuire i chili in eccesso tra i passeggeri dello stesso volo.
Non dicevo di no ai compiti che mi venivano assegnati. Vai a dare una mano al gate d4, poi vai al d5 che si trova accanto al d4. Io correvo, anche se mi avevano appena dato della stupida, non m’importava, non avevo il tempo di riflettere sulle cose mentre accadevano, mi rendevo utile muovendomi a scatti e finendo spesso con l’eseguire mansioni anche semplici in modo meccanico.
Se facevo un errore, se mettevo dei passeggeri in lista d’attesa e neanche me ne accorgevo, se gli davo la carta d’imbarco del volo sbagliato e poi, giustamente, la responsabile in turno mi rimproverava, la prossima volta vai tu a rompere i coglioni a quelli dello smistamento, hai capito? Lì per lì non mi ci soffermavo, non potevo.
Mi fingevo ottusa dopo i commenti acidi di qualche passeggero, lei ha intenzione di fare questo lavoro a lungo? Sorride ogni tanto?
Ripensavo a tutto la sera, a fine turno, quando salivo sull’autobus che mi riportava a casa, completamente svuotata oppure, al contrario, troppo piena, satura di tensione, malessere, lacrime. Ai piccoli incidenti, al nervoso che assaliva le persone per un nonnulla, una cerniera rotta, una fototessera dimenticata, un lucchetto. Pensavo a come ci si rimbrottava a vicenda, tutta colpa di quel cretino di mio marito, di quella deficiente di mia cognata. Agli aneddoti che ci si scambiava tra colleghi, alle scenate davanti a un imbarco appena chiuso, alle risate. Anch’io avevo il mio aneddoto. Lei che fa una sorpresa al suo lui comprando un pacchetto last-minute, e lui che quando se la trova davanti, al gate, si rifiuta di salire sull’autobus, se parte lei, non parto io.
Rivedevo la signora anziana, bassina, magra che viaggiava da sola. Su che atollo vado, mi aveva chiesto. Non ho mai dimenticato questa frase, su che atollo vado. L’avevo incrociata di nuovo alla fine di uno dei suoi viaggi nella sala degli arrivi. Non riusciva a inserire la moneta nel carrello, borbottava tra sé e sembrava sotto l’effetto di qualche sostanza.
Poi i charter sono spariti, sono sparite le compagnie che li gestivano. Gli attentati terroristici hanno ridotto a niente l’andirivieni da e verso il mar Rosso, verso il nord Africa, e si è dovuta aggiornare la mappa dei posti meno sicuri per i turisti occidentali.
Numerose compagnie low-cost hanno conquistato gli aeroporti italiani ed europei. I biglietti cartacei sono stati sostituiti da quelli elettronici e la gente ha imparato a registrarsi da sola alle macchinette, a loro volta soppiantate dal check-in online. Si è imparato a fare a meno delle agenzie, a non dipendere del tutto dai tour operator, a non comprare alla cieca pacchetti con sorpresa all inclusive.
Se questo significhi viaggiare in modo più consapevole non lo so, può darsi. Può darsi che oggi più di ieri si sia capaci di cambiare rotta, sguardo, d’inquinare meno.
Ma essere più autonomi significa anche doversi arrangiare. L’assistenza di una lowcost è quasi sempre affidata a un’applicazione sul telefono o a un call-center a pagamento, anziché all’essere umano di una biglietteria.
D’altra parte c’è sempre l’illusione di evitarsi fastidi di ogni genere pagando un sovrapprezzo. L’illusione di potersi comprare un qualche privilegio come il tempo. Lowcost oppure no, c’è sempre una tessera gold da esibire, un club esclusivo di cui far parte, un codice a barre per il fast-track se si vuol saltare la coda, avere un bagaglio in più, imbarcarsi per primi. Qual è il senso di imbarcarsi per primi, di stare in piedi come tanti asparagi in un’area delimitata – mi chiedo – se non quello di mostrarsi? Vedete, non vi assomiglio, è come se si dicesse, io ho la precedenza e voi no, io so scegliere, organizzare il mio tempo, me stesso, mentre voi aspettate il vostro turno.
Con gli anni mi è successo di cambiare divisa, aeroporto, colore di capelli. A un certo punto mi è spuntato un ciuffo bianco sulla fronte che a volte avevo voglia di tingere, a volte no. Proprio quando mi sembrava di aver trovato un equilibrio, di governare finalmente le emozioni, lo stress, la stanchezza, il divertimento tra colleghi, la qualità del lavoro è peggiorata.
I voli da gestire aumentavano, le assunzioni no. I pochi stagionali addestrati in tutta fretta per l’estate, Natale, Pasqua, non venivano riconfermati. Chi veniva richiamato quando c’era bisogno poteva non essere più disponibile se nel frattempo si era trovato un altro lavoro.
Così, a volte non si sapeva a chi dar retta, a chi la precedenza, se alla signora in sedia a rotelle o a quella arrivata tardi, accompagnata dai suoi bagagli, dal cane e dal facchino, che non accetta di aver perso il volo per la Costa Smeralda. Non si sapeva come farsi sostituire, da quale collega, come alzarsi per arrivare puntuali agli imbarchi o come ritagliarsi la mezz’ora del pranzo o della cena. Così capitava di assuefarsi ai ritmi accelerati, capitava che l’ansia e il panico moderato fossero uno stato d’animo permanente. La fame non ti veniva, di fare pipì non sentivi il bisogno.
Mi ricordo che sulla scheda degli assegnamenti ogni giorno della settimana c’era la stessa scritta. Mattina: criticità. Sera: criticità. Perciò provo diffidenza, se non proprio avversione, ogni volta che qualcuno usa questa parola. Cosa c’è sotto – penso – quale muffa, quale stortura?
Ho visto l’aeroporto deserto in due occasioni. La prima quando un vulcano islandese si è messo a sputare cenere e la seconda nel marzo 2020 quando Linate è stato chiuso per cinque mesi. Sembrava impossibile in quel periodo non sentire gli annunci o il rumore del nastro che trasporta i bagagli, non vedere l’elenco dei voli sui monitor, impossibile essere passati d’un colpo dal movimento incessante all’inerzia, dal troppo pieno al vuoto.
E’ comunque in quei momenti, nei momenti di calma, nelle pause, che mi sono chiesta se non abbia sbagliato strada dall’inizio, e perché, per quale motivo non mi sono cercata un’altra occupazione quando avrei potuto, quando ne avevo le forze.
Lei ha intenzione di fare questo lavoro a lungo?
Forse non la volevo un’altra occupazione e forse ho sempre avuto paura di non saper fare niente. Non mi sarei ritenuta capace di stare sugli aerei, per esempio, dove credevo che si dovesse salire truccate, acconciate, sfilare leggere lungo il corridoio, e scendere la scaletta col trolley pieno d’indispensabili cose come le calze color tropico e un inglese da madrelingua praticato in qualche posto negli Stati Uniti.
Forse ho solo creduto che mi piacesse il corso d’addestramento per impiegati aeroportuali di cui avevo trovato l’annuncio su un giornale.
Forse intuivo di non volere responsabilità, pesi sulle spalle, non volevo decidere chi avrei potuto essere o diventare il giorno dopo, l’anno o il lustro successivo. Tornata a casa, a fine turno, volevo pensare solo al mio presente, alla mia cena, a vedere un amico, un film al cinema Gnomo, a correre all’incontro con le teologhe femministe in qualche parrocchia del centro a Milano.
Forse, più che scegliermi il lavoro, è stato il lavoro a scegliermi. Un lavoro senza dubbio sbagliato, inadatto alla persona schiva, ansiosa, incline al panico che sono. Ancora oggi mi capita di sognare di avere il computer bloccato, il telefono rotto, la schiena piegata sul banco mentre orde di persone impazienti d’imbarcarsi mi travolgono da tutte le parti, come in quell’horror con Jennifer Lawrence.
A volte mi sembra di essermi sottoposta a una dura terapia d’urto con il lavoro, a un duro allenamento che mi ha costretta a uscire di casa e a stare in piazza, all’aperto, in mezzo alle persone. Ho dovuto specchiarmi negli altri, in tutti questi altri di passaggio, e nei colleghi, riconoscere in loro la mia faccia, che fosse seria, contenta o disperata, il mio essere qui adesso. Di tante persone non ricordo più il nome né il viso e tante altre non le posso dimenticare. Non dimentico il caposcalo dai modi rudi ma simpatico a cui una volta chiesi se in economy davano il pasto, e lui: macché, le noccioline, come alle scimmie. Non dimentico le voci, le battute di spirito di chi si è licenziato e di chi è rimasto. We have a common loo, rispondeva pronta una collega alla passeggera in cerca di una business class toilet. Non dimentico la collega di pelle nera che parla l’italiano assai meglio di quelli che le chiedono se parla l’italiano, la sua risata contagiosa e inesauribile, e penso che di tutte le cose che avrei potuto fare, ne ho scelta una che mi ha tenuta allacciata al fuori, all’esterno, al lontano e penso che forse di questo avessi bisogno, di tenermi allacciata al fuori, all’esterno, al lontano, e di coltivare in silenzio le mie ore di libertà, il mio atollo segreto e un cuore il più possibile aperto.