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Il mio stalker sul balcone di un altro, a Tokyo

Prima mandava messaggi e foto. Poi ha iniziato a scrivere ai miei amici, ai miei genitori, pure all’ambasciata italiana. Diceva che era mio marito. Storia vera di una persecuzione che non è finita nemmeno con la prigione. Da più di vent’anni il Giappone ha cominciato a fare i conti con lo stalking, e ha cambiato approccio. Nessun poliziotto dice più: è sicura di non esagerare?

«Ho bisogno di aiuto. Sono vittima di stalking». Non avrei mai immaginato che sarei arrivata a pronunciare quella frase. Mi trovavo alla stazione di polizia in un quartiere di Tokyo ovest. Era come essere finita dentro il cliché di una sceneggiatura scadente.

Da un paio di settimane, un conoscente di un club di arti marziali aveva iniziato a scrivermi insistentemente sui social. Era convinto di essere innamorato di me. All’inizio avevo ignorato i messaggi, e come avrebbe fatto chiunque, avevo dato ben poco peso al problema.

Taro Sato (il nome è di fantasia), sui 35 anni e disoccupato, a un certo punto aveva iniziato a contattare tutte le persone nella mia cerchia di conoscenze. Prima i miei colleghi, poi i miei genitori, addirittura l’ambasciata italiana a Tokyo. Diceva a tutti che io ero in pericolo e che lui stava cercando di proteggermi. «Ci ha detto che vi siete sposati, e che voleva formalizzare la cerimonia», mi ha riferito a un certo punto la responsabile all’ambasciata. Man mano che i giorni passavano la situazione si faceva sempre più inquietante. Poi è arrivata la paura: c’era forse il rischio che se avessi postato una foto sui social sarebbe potuto risalire alla mia posizione? E se uno dei miei amici avesse accidentalmente rivelato il mio indirizzo di casa? L’ho bloccato sui social, ho iniziato a evitare i luoghi in cui avrei potuto incontrarlo. Eppure mi ritrovavo di continuo a pensare a lui, al peggiore degli scenari, e rimuginavo su cosa fare.

Un giorno, nel dubbio, ho riaperto la chat. Volevo vedere se aveva continuato a contattarmi. Ci è voluto un po’ per caricare centinaia e centinaia di messaggi: mi raccontava la sua giornata, mi offendeva per non aver risposto, poi riprendeva a lusingarmi per convincermi a scrivergli. C’erano foto di quello che aveva mangiato a cena, e qualche riga dopo foto più esplicite di sé. Era come se conversasse con una persona immaginaria. Una settimana dopo ho deciso di andare alla polizia.

Nelle settimane successive ho trascorso diverse ore al commissariato. Le testimonianze e la pila di foto che documentavano i messaggi Instagram di Sato portarono a una denuncia e a un ammonimento nei suoi confronti. Nel frattempo però, quando tornavo a casa, facevo sempre strade diverse – in realtà avevo deciso di ignorare la raccomandazione della polizia di traslocare per precauzione.

Una settimana dopo aver presentato la denuncia, la polizia mi sveglia con una telefonata: un uomo è stato arrestato per violazione di proprietà privata. Si stava arrampicando su un balcone di un condominio in un quartiere non lontano da quello dove risiedo, e diceva che stava cercando me. Ho un ricordo nitido di quel momento: ho avuto paura. È stato il giorno in cui per la prima volta ho chiesto a una collega di poter dormire a casa sua.

Intanto, i proprietari dell’appartamento che si erano ritrovati Taro Sato sul balcone presentarono un’altra denuncia contro di lui, che venne condannato a un paio di mesi in carcere. Per quel paio di mesi ho dormito di nuovo tranquilla: magari la faccenda era chiusa. E invece poco dopo essere stato rilasciato, Sato ha ricominciato a contattarmi. Gli ammonimenti della polizia sono diventati due (uno informale e poi uno formale), ignorati entrambi: continuava a mandare messaggi a me e ai miei amici, a promettere (minacciare?) di venire a cercarmi. Alla fine è stato fermato, e ammesso in un ospedale psichiatrico. Sono passati mesi da allora, ma ancora oggi la polizia mi contatta una volta al mese per verificare che sia tutto sotto controllo, e che non ci siano nuovi sviluppi.

Confesso che quando sono entrata per la prima volta nell’angusta sala del commissariato, l’ho fatto con una certa dose di scetticismo. Vivo in Giappone da sei anni, faccio la giornalista. Leggo spesso di casi di violenza domestica in cui le istituzioni sono accusate di non fare abbastanza per proteggere le vittime. Non credevo potesse esistere un sistema che protegge le persone vittime di stalking. Ma la mia esperienza si è rivelata molto diversa: la polizia ha accolto velocemente e con serietà la mia denuncia. Nel giro di pochi mesi, al di là del tentativo di intrufolarsi a casa mia attraverso balconi altrui, la situazione si era calmata. Avevo avuto la percezione di un sistema che stava cercando di imparare dagli errori del passato, di proteggere la vittima riconoscendola, dandole voce. Era solo una sensazione, ma mi ha spinto a indagare un po’ più a fondo. Stando ai dati ufficiali, in Giappone nel 2022 ci sono state circa 19 mila denunce per stalking: per il 90 per cento sono state presentate da donne. Il numero è in leggero calo rispetto agli anni precedenti. Non è detto che i cosiddetti «atti persecutori» finiscano sempre con un omicidio, ma chi lavora su queste materie sa che c’è una corrispondenza fra i due reati, ed entrambi nella maggior parte dei casi sono connessi con il rapporto tra uomini e donne. In media, in Giappone i casi di femminicidi oscillano attorno ai cento all’anno, un numero simile a quello italiano, se non fosse che il Giappone ha una popolazione quasi il doppio della nostra. Per quanto riguarda il quadro legale, anche il Giappone ha avuto il suo caso di cronaca che ha cambiato tutto, in maniera simile a quel che è accaduto in Italia dopo che è stata uccisa Giulia Cecchettin.

«Le cose sono cambiate drasticamente più di vent’anni fa», mi spiega Tadashi Moriyama, professore di Criminologia all’Università di Takushoku a Tokyo. Nel 1999 una ragazza di vent’anni fu uccisa dal suo ex ragazzo nei pressi della stazione di Okegawa, a Saitama. Le indagini successive rivelarono che la polizia non aveva preso seriamente le denunce della ragazza. Lei era consapevole del rischio che stava correndo, e scrisse alcune lettere indirizzate ai suoi amici in cui diceva: «Sono sicura che verrò uccisa». Dopo il suo omicidio, la sua famiglia denunciò le forze dell’ordine per negligenza. Cercando una spiegazione all’operato della polizia, Moriyama mi spiega che «in passato, vigeva il principio secondo cui la polizia non si immischiava nelle dispute civili. Lo stalking spesso veniva trattato in questo modo».

L’anno successivo, nel 2000, fu introdotta la prima legge anti stalking. Ma non basta l’approvazione di una legge per cambiare la società. Lo ricorda anche Naomi Hasegawa, avvocatessa della provincia del Hyogo, nell’ovest del Giappone, che segue da anni casi di violenza di genere, tra cui anche lo stalking. «La polizia non era ancora pronta ad ascoltare. Quindici anni fa i poliziotti erano quasi sempre uomini, e chiedevano alle vittime domande del tipo: “È sicura che non sta esagerando?”. Dovevamo andare più volte dalla polizia, e raramente gli agenti facevano qualcosa».

L’avvocatessa Hasegawa attribuisce la reticenza nelle indagini della polizia all’atteggiamento di quegli anni, che tentava quasi sempre di giustificare gli uomini coinvolti nella vicenda. «Questo aveva l’effetto aggravante di convincere lo stalker del fatto che il suo comportamento fosse corretto».

Passarono gli anni. Come spiega il professor Moriyama, gli aggiustamenti alle leggi venivano eseguiti solo quando al reato di stalking si aggiungeva quello di omicidio. Nel 2012 ci fu un caso di stalking fatale a Zushi, nella prefettura di Kanagawa, non lontano da Tokyo. Rie Miyoshi fu uccisa dal suo ex compagno dopo sei anni di tormenti e molestie, e nonostante gli avvertimenti della polizia.

Il fratello di Rie promise di combattere per la verità sulla morte della sorella. «La tragedia mi convinse che per le vittime non c’era modo di scappare all’infinito», disse in un’intervista nel 2019. Iniziò a parlare con gli esperti in tutto il Giappone per raccogliere studi e idee e trovare un modo per migliorare la legge, da un lato per proteggere le vittime, e dall’altro per tentare di cambiare il comportamento degli stalker.

Fu istituita una commissione, che fornì spunti alle istituzioni e alle forze dell’ordine per costruire misure di prevenzione, come il monitoraggio tramite braccialetti elettronici e i programmi riabilitativi. Tra gli esperti c’era anche il professor Moriyama, che tuttora partecipa al dibattito sulle misure anti stalking a livello nazionale.

Nel frattempo, il processo della denuncia sembra essere cambiato radicalmente, con una procedura più facile e immediata.

Viene chiamata «strategia one stop»: la polizia risolve tutto internamente. Dove possibile, i casi sono assegnati ad agenti donne, e le denunce di stalking sono ammesse con più frequenza e velocità. Come spiega l’avvocatessa Hasegawa, «di questi tempi non seguo più casi di stalking. Le vittime riescono a denunciare anche senza il mio aiuto. Da questo punto di vista, la situazione è molto migliorata». Hasegawa spiega anche che adesso la polizia giapponese ha il dovere di prendere atto delle denunce di stalking. Qualora non ci sia un ammonimento, c’è la responsabilità di informare le vittime del perché della decisione. «Il processo di accountability, quindi di responsabilizzazione della polizia, è stato fondamentale per cambiare il sistema».

I numeri pubblicati dalla polizia di Tokyo suggeriscono anche un recente aumento di avvertimenti eseguiti dalle forze dell’ordine. Hasegawa mi spiega che questo potrebbe significare un cambio di percezione fra le vittime: «Quando le vittime percepiscono che una denuncia può portare a risultati concreti, allora aumentano anche le denunce». E un ammonimento, nella stragrande maggioranza dei casi, risolve la questione. «È molto importante frenare il problema prima che ci sia un’escalation», dice Hasegawa.

Il tema dello stalking e della violenza domestica di genere in Giappone resta complicato. È in parte dovuto alla natura del crimine, difficile da definire. «Non è possibile dire che 10 email vadano bene, ma 100 email qualificano il reato di stalking», commenta il criminologo Moriyama. Le norme anti stalking devono anche stare al passo con i tempi e la tecnologia. Oltre all’uso dei social, recentemente sempre più persone usano micro dispositivi Gps per tenere sotto controllo i movimenti delle vittime. E si è aperto il dibattito su quali misure cautelari adottare, come il braccialetto elettronico e le sessioni di terapia, quando gli ammonimenti non sono efficaci. C’è tanto da migliorare, mi spiega Moriyama. Ho avuto tuttavia l’impressione che tanto può cambiare quando c’è un impegno collettivo nell’ascoltare le vittime. Impaurite, bloccate in una prigione e con il terrore di non essere credute. In Giappone, forse, qualcosa è cambiato.

Arielle Busetto (Parigi, 1994). A Tokyo dal 2017, è giornalista di Japan Forward, dove scrive di politica, società e cultura giapponese.