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La bella libertà di essere anche cringe

La Gen Z chiama delulu quella speranza che ci fa spedire lettere d’amore ai nostri cantanti preferiti, sperando che ci sposino. Taylor Swift è la regina di questo sentimento: sposta il pil dei paesi, provoca scosse sismiche ai suoi concerti, e apre al mondo il suo diario nelle canzoni. Inchiesta sul popolo degli swifties, quello in cui tutti possono, semplicemente, essere sé stessi

Lo ricordo come un momento molto specifico della mia adolescenza: sono a casa da sola e guardo Mtv nel salotto dei miei genitori. Il mio solo obiettivo è intercettare qualsiasi video dei Green Day, l’unica grande ossessione dei miei sedici anni.

Per il mio compleanno i miei compagni di classe hanno fatto una colletta e mi hanno regalato il biglietto per l’Heineken Jammin’ Festival, a Mestre, una delle pochissime tappe in Italia.

Dopo due ore di fila sotto il sole di luglio per accaparrarmi un braccialetto di gomma verde che mi avrebbe permesso di accedere alla prima fila, sono al settimo cielo. Anche se è da qualche anno che non credo più di avere davvero una chance di potermi sposare con il cantante Billie Joe, c’è una piccola parte di me convinta del fatto che stare schiacciata sotto il palco possa aumentare le probabilità che lui mi veda, che mi noti, che (chissà!) magari voglia passare il resto della sua vita con me.

Il nome a questo tipo di speranza qui gliel’avrebbe dato anni dopo la Gen Z: delulu, che viene da delusional, ovvero una sorta di fede senza giustificazione razionale, quella che mi faceva credere, appunto, che un cantante di fama mondiale con due figli e una moglie avrebbe potuto accorgersi di me tra molte centinaia di persone.

Ero molto delulu quando ho deciso di spedirgli una lettera in cui confessavo il mio amore per la sua musica, delulu quando ho comprato i francobolli dalla tabaccaia sotto casa, delulu quando ho cercato sul computer di famiglia l’indirizzo della sua P.O. box a Oakland, terribilmente mortificata quando dopo qualche settimana mio padre è rientrato con la mia lettera in mano, dicendomi che era tornata indietro e forse avrei dovuto metterci dei francobolli che andassero bene per l’America.

Qualche anno dopo, nel mio gruppetto di amici c’era questo gioco che si faceva ogni tanto, quello di assegnare a ognuno di noi una persona famosa che ci somigliasse.

«Se Giulia fosse un’attrice, sarebbe Winona Ryder», aveva detto una volta la capa del gruppetto a una ragazza con i capelli corti e punk.

«Se Greta fosse una cantante, invece», e aveva fatto una pausa per guardarmi negli occhi, «sarebbe Taylor Swift».

Aveva sogghignato, sapendo di avermi affibbiato la somiglianza peggiore di tutte.

Somigliare a Taylor Swift, nel ridicolo codice pseudo alternativo del 2012, significava essere sciapa, sapere di poco. Essere carina ma non avere molto da dire.

Ho trascorso il resto della mia adolescenza e parte della mia vita adulta a non ascoltare  cantanti pop donne e bionde. Non è stata una scelta presa a tavolino, qualcosa che ho deciso consapevolmente, quanto il prodotto dell’opinione comune, più o meno esplicita, che avvertivo attorno a me: se è giovane e canta canzoni d’amore e ha un aspetto canonico, allora probabilmente è anche sciocca, frivola, non può trovare spazio nella riproduzione casuale del mio iPod.

Era un assunto intriso di maschilismo, misoginia e sessismo, tutte questioni in cui ero immersa senza accorgermene, lo stesso assunto che, ad esempio, spesso induce a considerare i romanzi rosa come privi di qualsiasi valore letterario, libri di serie B, solo perché parlano d’amore e sono scritti (quasi sempre) da donne.

Ma se di romanzi rosa a un certo punto ho iniziato a leggerne molti, e con gusto, le canzoni di Taylor Swift non hanno mai varcato la mia bolla. TikTok mi aveva fatto conoscere qualche ritornello, ma tra le persone che conosco non c’è nessuno che l’ascolti seriamente.

A un certo punto ho provato a saperne di più partendo dagli album recenti, con scarsi risultati.

Forse è perché le sue canzoni mi sembrano tutte uguali (ma anche quelle di molti artisti che amo lo sono), forse è la sua voce che non mi convince, o il fatto che non abbia un profilo politico netto (ma anche Lana Del Rey non ce l’ha, eppure la ascolto di continuo).

È una pop star troppo educata, non ha niente di conturbante, ho l’impressione quasi che vorrebbe essere mia amica, amica di tutt*.

Ma non lo è.

O più semplicemente, come succede anche con molti libri e molte persone, non è scattato l’amore.

È per questo che, quando quest’anno il suo successo è diventato impossibile da ignorare, quando si è iniziato a parlare di pil smossi al ritmo del suo tour, vibrazioni sismiche provocate dai fan ai concerti, record assoluti di ascolti su Spotify, una domanda quasi inconfessabile ha cominciato a sorgere tra noi che non la ascoltiamo: cosa ci trovano tutte queste persone in Taylor Swift?

L’unico modo per capirlo, ho pensato, sarebbe stato chiederlo ai suoi fan. E così ho fatto.

«Prima di tutto mi piace la sua capacità di scrittura», dice Gloria, andando subito a centrare uno dei punti ricorrenti nelle risposte che ho raccolto, l’immaginario potente che Taylor Swift sembra smuovere con i suoi testi.

«Per me le sue parole riescono a immobilizzarti in un’auto in corsa pronta a schiantarsi contro un muro, e subito dopo a darti un bacio in fronte», aggiunge Sim. «È una cosa che percepisco con pochissimi artisti musicali, ma con lei è super intenso».

Non è un caso infatti che sia la parola diario a uscire spesso dai messaggi vocali che ho ricevuto.

«Taylor dice sempre di non essere mai andata in terapia, e grazie al cielo. Si vede che la scrittura è il suo modo per snocciolare i problemi, è come se fosse un diario» dice Camilla, «dona tutti i suoi pensieri alle canzoni e quindi al pubblico. Sento che mi guida, che posso imparare dai suoi errori». A lei si unisce Maria Vittoria: «è così personale ed espressiva e impulsiva nello scrivere le cose, che legittima i miei sentimenti più nascosti, quelli di cui a volte mi vergogno».

Non so quanta effettiva impulsività ci sia nel lavoro di Taylor Swift quando scrive i suoi testi, e quanto invece non sia frutto di un sapiente lavoro di cesello che sicuramente è tutt’altro che lasciato al caso, però un fatto è certo: raggiunge il suo obiettivo. Camilla dice: «Taylor è la sorella millennial che non ho mai avuto. La prima volta l’ho vista su Mtv a dieci anni, ed è stato un imprinting: mi è sembrato di rivedere me stessa in lei, nei suoi testi».

Non pensavo che la Gen Z avesse fatto in tempo a intercettare Mtv, ma l’esperienza condivisa mi emoziona. Per un attimo sono di nuovo quella ragazzina con l’apparecchio che crede che il cantante dei Green Day stia parlando proprio a lei. Così tremendamente delulu, dice la voce seriosa e intransigente nella mia testa.

Che bello permettersi di essere imbarazzanti, spedire lettere oltreoceano alla band del nostro cuore, credere che quel cantante abbia scritto quella canzone per noi.

Siamo tutti stati delulu, a un certo punto delle nostre vite, e forse, per certi versi, lo siamo ancora.

Per ultimo ascolto il messaggio di Laura. «Anche i sentimenti più cringe sono legittimati. Mi fa sentire compresa, mi fa dire: non sono la sola. Non è sofisticata, non è hipster, non ha allure. Semplicemente, è lei».

Una delle ragazze con cui ho parlato è riuscita ad accaparrarsi un posto in prima fila al suo concerto a Milano, lo vedo dalle sue storie Instagram. È emozionata, e anche io lo sono per lei.

Quel concerto dei Green Day alla fine non sono mai riuscita a vederlo, perché un tremendo tifone estivo si è schiantato contro il palco a pochi minuti dall’inizio, obbligando tutti a evacuare e riducendo me e altre centinaia di fan in lacrime.

Sospetto che sia per questo che non sono sposata con Billie Joe, adesso.

Greta Olivo (Roma, 1993), scrittrice. Il suo primo romanzo, «Spilli», è appena uscito per Einaudi.