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A che punto è la notte

I tagli con il rasoio, la rabbia, le bugie, il funerale nel cervello. La voce degli adolescenti che nei lockdown hanno perso la voglia di vivere, lo sgomento dei genitori davanti all’infelicità. Ma il pettirosso prova le sue ali, e poi vola

“E allora ho iniziato a tagliarmi”. Quando arriva l’inverno non sai come è cominciata, se il freddo potevi prevederlo dalle nuvole nere all’orizzonte, se potevi metterti al riparo. O se è inutile farsi domande e non ti resta che attraversarlo. Angelica, 16 anni, con il suo filo di voce dolce da bambina ha fatto cose feroci contro sé stessa. Soffriva e si procurava tagli alle braccia che a me sembra un modo di aggiungere dolore a dolore e invece – mi spiega lei con pazienza e lucidità – i tagli facevano male sì al suo corpo, ma davano un po’ di sollievo alla sua anima. “Sentivo un funerale nel cervello – scrive, in una poesia, Emily Dickinson – E i Dolenti avanti e indietro andavano. Finché sembrò che il senso fosse frantumato”. Angelica non è la sola adolescente che non ha più trovato un senso. Giorgio, 18 anni appena compiuti, ne aveva 16 durante il lockdown. “Un periodo bruttissimo”, dice. Da lì è stato tutto un precipitare tra problemi di dipendenza da cannabis, crisi, abbandono della scuola. Elisabetta, quasi 17 anni, è caduta in depressione. Federico, 15 anni, era così ossessionato dal virus che aveva preso a lavarsi compulsivamente le mani, troppe volte, sempre di più. Riccardo, 14 anni, ha iniziato a essere aggressivo. I dati della Società italiana di NeuroPsicoFarmacologia dicono che un adolescente su quattro, dopo il lockdown, ha sintomi clinici di depressione e uno su cinque segni di un disturbo d’ansia. L’incidenza di depressione e ansia fra i ragazzi è raddoppiata rispetto a prima della pandemia. Sono aumentati i tentativi di suicidio e le richieste di intervento al pronto soccorso. Conferme arrivano anche da uno studio pubblicato su Jama Pediatrics. A che punto è la notte dei nostri figli? Adesso che le mascherine sono orpelli abbandonati nei cassetti e che sono tornati i concerti di decine di migliaia di persone e quindi pare che vada tutto bene, come stanno davvero i ragazzi?

Angelica parla della ragazzina che era appena un anno fa come di una persona che ha conosciuto e che non frequenta più. “Prima usavo le forbici, poi il rasoio. La prima volta mi ha fatto male, ma poi non avevo paura del dolore, mi dava sollievo. Non riuscivo a smettere. Quando papà se n’è accorto si è messo a piangere, non se lo aspettava, mi chiedeva di smettere, ma non riuscivo. È durata un anno, poi ho cambiato scuola, siamo tornati in presenza, ho iniziato a fare nuove amicizie e a non sentirmi più sola e non ho più avuto bisogno di farlo”. Quando le chiedo come sta adesso Angelica dice che sta bene e attribuisce la colpa del suo malessere alle troppe cose accadute in soli dodici mesi, in particolare il primo anno di liceo, la Dad e l’isolamento. “Quando è iniziato il lockdown ero in terza media, la scuola era anche più facile in Dad, non avevo neppure gli esami. Ma poi a settembre ho iniziato il liceo, una settimana in Dad e una in presenza. Non ho avuto modo di socializzare e non mi sono mai integrata con la classe”. La mattina Angelica non riusciva ad alzarsi dal letto, non voleva vedere nessuno, non voleva partecipare alle lezioni, né in Dad né in presenza, aveva smesso di andare dalla psicologa, teneva tutto per sé. Dice che sicuramente stare in lockdown ha alimentato la sua crisi. “Con la mia migliore amica non ci siamo viste quasi per un anno. Lei sta a Milano come me, ma i suoi genitori erano molto protettivi e quindi anche nei periodi in cui non c’era il lockdown non poteva vedere nessuno tranne i compagni di scuola. Questo mi ha fatto soffrire”. Finito il primo anno, è andata al mare. “In spiaggia non potevo coprire le cicatrici. Era imbarazzante perché i miei amici e i loro genitori le vedevano. Questa cosa mi ha dato un motivo per uscirne”. Angelica ha ripreso ad andare dalla psicologa, una nuova, e oggi sta meglio, dice che le piacciono i bambini e gli anziani e che in futuro vuole occuparsene. Soprattutto ha smesso di tagliarsi. “Non ci penso più. I rasoi sono sempre lì, ma quando li vedo non li tocco, sono oggetti comuni, che non mi attraggono. Le cicatrici ora si notano poco, me ne accorgo quasi soltanto io. Quando le vedo a cosa penso? Penso ma come ho fatto ad arrivare fino a quel punto”.

Come si fa ad arrivare a quel punto se lo chiedono tutti i genitori con cui ho parlato. “A 16 anni hai il mondo in mano – dice Rosanna, mamma di Elisabetta – invece questi ragazzi stanno male”. Elisabetta da un anno ha attacchi di panico, crisi d’ansia, disturbi alimentari che cura con terapia e farmaci. “Andava già dalla psicologa – racconta Rosanna – a casa era molto aggressiva, pianti, eccessi di rabbia. Alcune persone che ha iniziato a frequentare non le hanno fatto bene. Ha iniziato a fumare, si è affacciata nell’abisso, si ribellava, ci contestava. Tutto regolare, come quasi ogni adolescente. Poi con il Covid c’è stato l’isolamento, si è disabituata a stare con le persone, al punto che adesso sono io che la forzo a uscire, perché altrimenti lei è impaurita”. Elisabetta secondo lo psicoterapeuta ha una forte emotività e tutto quello che le accade le risuona forte dentro. Quindi quando le sue emozioni vengono sminuite sta peggio. Rosanna tendeva a sminuire, un po’ per paura, un po’ per incredulità.

Ora non lo fa più. È una madre spossata, esausta, ma almeno – dice – nell’inverno attraversato assieme loro due hanno imparato a costruire una nuova complicità. Tuttavia il senso di colpa è sempre lì, acquattato e pronto a saltarti addosso. “Mi chiedo – dice Rosanna – ma io dove ero? La risposta non ce l’ho. Ero lì, ma forse non le ho fatto le domande giuste”.

Se i ragazzini soffrono, non meno si tormentano i genitori, madri e padri preoccupati – forse per la prima volta nella storia – della felicità dei figli. C’è mai stata prima una generazione di genitori che ritenesse importante la vita emotiva dei figli? I nostri nonni si preoccupavano che i figli avessero da mangiare, i nostri genitori che tornassimo in orario. Oggi ci preoccupiamo anche delle rifrazioni di luce dell’anima dei ragazzi. È un progresso? Senz’altro. Ma poi ci sono cortocircuiti inattesi. Riccardo, 13 anni, ha appena finito la terza media a Roma, ma non vuole più andare a scuola, non vuole fare sport, non vuole uscire. “È aggressivo – racconta suo padre Andrea – contro di me e contro sua madre. La cosa strana è che l’unica persona che rispetta è il nonno, mio padre, che è un uomo tutto d’un pezzo, un uomo d’altri tempi. Per farlo ragionare, basta che gli dica che avviso il nonno. Lui ne ha un profondo rispetto e quindi si acquieta”. Cortocircuiti, appunto. La crisi di Riccardo è iniziata circa un anno fa, non si lavava più, sputava, si mangiava le mani, manifestava rabbia. Ha iniziato a dire bugie, a lanciare gli oggetti, a essere violento anche contro i genitori, sfiniti, disorientati, increduli. “L’abbiamo portato al Bambin Gesù – racconta Andrea – mi ha detto: papà perdonami, ma non riesco a controllarmi. Ora è in cura con terapia e farmaci”. Il lockdown di Riccardo ha coinciso con la fine della prima media. Prima la socialità arrivava dalla scuola, dallo sport, improvvisamente ha dovuto restare a casa, ma non sembrava risentire. “Lui – spiega Andrea – ricorda il lockdown come un periodo bellissimo. Ma in realtà è stato molto solo, stava davanti al computer o ai videogiochi. Troppo tempo passato così. Ma che dovevamo fare? Noi dovevamo lavorare, era inevitabile. Lui si è disabituato allo studio, alle regole, allo stare in classe, alla socialità. Quando è stata ora di tornare alla vita normale, non ce l’ha fatta. Ha iniziato ad avere incubi, stati d’ansia”. Dopo il lockdown Riccardo ha anche avuto una crescita fisica improvvisa, si è ritrovato con un corpo di un metro e ottanta ad appena 14 anni. Immaginate che vi chiudano in casa piccoli come un topolino e che quando potete uscire siete improvvisamente uno struzzo, con le misure di un struzzo, la goffaggine di uno struzzo, con tutti che vi additano come uno struzzo. Non è facile.

C’è chi poi, durante il Covid, ha avuto sintomi collegati alla paura del virus. Come Federico, 15 anni, che frequenta la prima liceo scientifico in una città del nord-est, e ha il terrore di contaminarsi. “Sto impazzendo, sono disperato”, ha detto a sua madre Irene, un anno fa. Faticava ad alzarsi dal letto, era sempre stanco, alienato sullo schermo del cellulare. Pensava che le persone potessero infettarlo, si lavava continuamente, anche dieci volte al giorno. “Il problema non è stato tanto il primo periodo – dice Irene, sua madre – ma il fatto che poi queste ondate di Covid si ripresentavano, sembravano non finire mai, l’incertezza così protratta è stata devastante. E gli effetti si sono visti dopo”. Il problema di Federico è iniziato con la pandemia quando disinfettavamo tutto perché non sapevamo se il virus restava contagioso sulle superfici. Ha iniziato a pensare in particolare alla scuola come a un luogo contaminato. Un disturbo quasi didascalico da quanto sembra collegato alla pandemia. Se qualcuno lo toccava aveva la tachicardia, iniziava a sudare. Tornato a casa si toglieva subito la t-shirt, si faceva la doccia, disinfettava il cellulare più volte. I libri e i quaderni dovevano stare in un tavolo a parte. Poi è finito il lockdown, ma non il problema. Con l’aiuto farmacologico e terapeutico oggi Federico sta meglio. Si lava sempre le mani più volte al giorno, ma meno di prima.

Anche per Giorgio, 18 anni appena compiuti, 16 quando è iniziato il lockdown, il Covid è stato un lungo inverno gelido. “Un periodo brutto, l’ho vissuto male. È stata una guerra invisibile, in cui non si vedeva il nemico, non si capiva come difendersi. Era una situazione assurda il fatto di non poter uscire, di non poter vedere gli amici. E tuttavia veniva vissuto come normalità, questo era ancora più assurdo”. Giorgio frequentava la quarta ginnasio. “Bisognava stare in casa e io a casa stavo male. La famiglia non si sceglie, i conflitti non si risolvono stando assieme. Ho vissuto malissimo la Dad, perché la scuola non deve insegnare solo una materia, ma anche la socialità. Questo è venuto meno”. Durante l’isolamento l’unico ragazzo del palazzo con cui Giorgio aveva contatti gli ha passato uno spinello, poi due, poi tre, la sera, di giorno, anche la mattina. È subentrata la dipendenza. In quinta ginnasio ha iniziato ad avere difficoltà, a seguire a singhiozzo le lezioni, i giorni di Dad sì, in presenza no. Diceva vado, ma poi stava male e non usciva di casa. A maggio 2021, quando la classe è rientrata completamente in presenza, Giorgio non ci è riuscito. D’estate la situazione è esplosa. Ha iniziato a essere aggressivo, a minacciare di uccidersi. Di notte piangeva e di giorno dormiva. Due volte i genitori lo hanno trovato sospeso nel vuoto, appeso alla balaustra della terrazza. Due volte ha avuto crisi psicotiche.

Magari i problemi che Giorgio ha avuto sarebbero emersi comunque in seguito, in un’altra fase della vita. Quanto ha contato la pandemia? Non lo sapremo mai. La controprova non esiste. Ma certamente ci sono molti ragazzi che non stanno bene. “Come me ce ne sono tanti, posso asserire che la mia storia non è unica”. Asserire: dice proprio così Giorgio e sembra pregustare l’effetto che farà la sua proprietà di linguaggio. Quella che Giorgio definisce “la mia malattia” potrebbe portare a un disturbo del comportamento di stampo narcisistico, secondo il medico. Ma davvero si può fare una diagnosi a un ragazzo così giovane? Qualche neuropsichiatra infantile si rifiuta. Tutto può accadere, tutto può cambiare, inchiodarli a una diagnosi può anche essere fuorviante. Anche Paola, la madre di Giorgio, come tutti i genitori che ho incontrato, ha il senso di colpa accucciato dietro la porta e si chiede come sia possibile non aver capito, non aver intuito quello che stava accadendo al figlio. Mi racconta che quando è scoppiata la pandemia e poi siamo finiti tutti in lockdown Giorgio aveva una fidanzata che viveva in un’altra città e che non ha più potuto vedere per molto tempo. Poi, quando finalmente si sono visti, hanno dovuto praticamente convivere, nella cameretta di lui, grazie alla complicità dei genitori. Una convivenza a 16 anni senza andare a scuola, senza uscire con gli amici, è forse stata troppo intensa ed esclusiva per una età così giovane? Sua madre oggi si interroga su questo e su tutto. “Pensa – dice Paola oggi – che io ricordo il lockdown come un periodo bello, che abbiamo passato in famiglia. Facevamo giochi in scatola, cucinavamo, stavamo assieme. Ora lui dice che è stato un periodo orribile. Noi non avevamo capito”. Ora se gli si chiede come sta, Giorgio dice “male”. È arrabbiato con tutti. Ha cambiato diversi psicologi, non gli piace nessuno. “Non mi sono sentito aiutato dalla società, anche ora che mi è stata prescritta la cannabis legale me la devo comprare, non me la passa il servizio sanitario nazionale. I farmaci mi stanno aiutando, la terapia psicologica no. Sono stato curato da cani, ho subito violenze e aggressioni verbali, minacce, ricatti. Il modo in cui ti tratta questo stato è sbagliato. Mi hanno fatto diventare loro quello che pensavano che fossi. Mi hanno anche minacciato che se non stavo zitto mi avrebbero fatto un Tso”. È deluso da noi, Giorgio, deluso dai medici, dalla società, dai genitori e anche da me, tanto che alla fine mi dice: “Mi aspettavo di più da questa intervista”. Ma è anche davanti a un’altra pagina della sua vita. D’accordo con i suoi genitori, è appena andato a vivere in una comunità di ragazzi. “Di questo sono contento” ammette con fatica. Ha anche iniziato a studiare canto, scrive canzoni, forse a settembre ricomincerà la scuola. “Sono un sognatore” dice di sé e la voce finalmente si ammorbidisce. Giorgio non può pensarlo ora, ma forse un giorno guarderà tutto questo da lontano e vedrà che è stato un passaggio della sua vita, molto doloroso, ma alle sue spalle. Come le cicatrici di Angelica, che si vedono ancora, ma meno. E un giorno, al mare fra molti compleanni, si siederà sulla spiaggia con i suoi figli e mentre loro giocheranno sulla sabbia le scivolerà lo sguardo su un punto della pelle dove è scritta la sua storia, così sbiadita che nessuno la nota più tranne lei: lei avrà il ricordo di quel dolore, terrà con sé la consapevolezza che il dolore può aggredire alle spalle, ma può anche essere superato. “Il pettirosso prova le sue ali – scrive Emily Dickinson – non conosce la via, ma si mette in viaggio verso una primavera di cui ha udito parlare”. L’inverno è quasi passato, c’è tutta una vita davanti.

Valentina Furlanetto (Montebelluna, 1972), giornalista di Radio 24 il Sole 24 Ore dal 2002, cura e conduce la trasmissione “I figli di Enea, storie di italiani di origine straniera”. Il suo ultimo libro è “Noi schiavisti” (Laterza, 2021).