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Acqua di fuoco

Che schifo le feste, le ragazze e l’Alcol Buongusto, che schifo questi vermi che mi strisciano in testa. Carlotta aveva detto: dài, venite anche voi. Carlotta non c’è. Carlotta forse arriva. Nulla è imbevibile quando Carlotta non viene nei posti. Abbracciare un rastrello a vent’anni, e la banda di sbronzi che diventa l’esercito della salvezza

Claudio si sentì male quasi subito ma per un po’ di tempo continuò a ridere e a scherzare come quando si è ubriachi, sì, ma non molto. Alla festa c’era molta gente, tutte persone con le quali Claudio e Giorgio avevano già chiuso da un pezzo, che rispuntavano solo perché in vacanza la loro severità si allentava (erano addirittura andati a vedere Fast and Furious 9, la sera prima, al cinema all’aperto). E poi era stata Carlotta a invitarli, aveva detto «dài, venite anche voi» facendo intendere che altrimenti lei, senza di loro, in mezzo a quella gente, sola con Edoardo – il suo fidanzato Edoardo, il loro amico Edoardo – si sarebbe annoiata a morte.

Così, l’ultimo atto di lucidità che Claudio aveva potuto compiere, quella sera, era stato accorgersi che Carlotta non era venuta: erano le undici e mezza e ormai non sarebbe venuta più. Subito dopo aveva trascinato Giorgio davanti a una bottiglia di soluzione alcolica al novantacinque per cento denominata Alcol Buongusto, che il padrone di casa – un calvo – aveva tirato fuori dall’armadietto con aria di sfida, dicendo: «imbevibile». Ne avevano bevuti insieme alcuni bicchieri, in silenzio, senza averne cognizione, solo per dimostrare al calvo che nulla era imbevibile quando Carlotta non veniva nei posti. Ma Giorgio non aveva molta voglia di ubriacarsi, non così presto, forse credeva che Carlotta potesse ancora venire. Di tanto in tanto abbandonava l’amico, senza averne cognizione, e usciva a prendere un po’ d’aria e a respirare l’odore della pineta.

Era formidabile la pineta, di notte, buia e impenetrabile come un libro chiuso.

Molti vermi gli strisciavano in testa quando si alzò dal tavolo sotto il porticato. Scese un paio di gradini, inciampò in un terzo e cadde bocconi sul prato. Rimase un istante sdraiato a faccia in giù, nel naso l’odore di anguria dell’erba tagliata da poco, tra i denti il sapore della terra umida, aspettandosi il commento di qualcuno, qualche risata. Niente, nessuno lo aveva visto. Si rialzò, con un male al ginocchio: ecco, pensò, cadere e farti male e rialzarti senza che nessuno veda, questa è la tua vita. Di notte con la macchina si poteva anche correre, in pineta: se puta caso ce ne fosse stata un’altra a violare il buio impenetrabile si sarebbe visto di lontano, dai fari. Giorgio spinse un po’ sull’acceleratore, sobbalzando su quelle cunette messe lì apposta per far moderare la velocità, che venivano chiamate dissuasori – ma la macchina era di Claudio e lui non era ancora così ubriaco da non ricordarlo. Quella era la dissuasione.

Si fermò da qualche parte a fumare. Non in uno dei tanti luoghi che gli erano cari, e gli ricordavano l’infanzia, o Carlotta, o Claudio e Edoardo: si fermò in un posto qualsiasi a fumare. C’era qualcosa di più grande, qualcosa di immensamente più grande dietro a quei vermi che gli strisciavano nella testa; anche per Claudio, dietro al suo Alcol Buongusto, era lo stesso; anche per Carlotta, lo stesso. E anche in quel momento, anche tra i grilli, nel buio impenetrabile, ubriaco, sotto il cielo più stellato del mondo, Giorgio si accorse che non poteva fare a meno di chiudere il cerchio: lui-Claudio-Carlotta, e tutti quelli che non avevano mai fatto ciò che desideravano. Uno spreco di pini, dunque, di cielo e di grilli, con quel brusio nelle orecchie, sh, sh, come una conchiglia vicina all’orecchio, sh, quel piccolo rumore continuo, come di mare, come di rubinetto che perde nel mare, sh – forse era il mare.

Giorgio pensò di andare sul mare. La sabbia tiepida sotto la sabbia fredda, le dune, il ginepro, il cielo più stellato del mondo. Passare davanti alla casa di Carlotta per spiare, sh, controllare. Ma risalì in macchina, senza averne cognizione, e riprese a correre meno di quanto avrebbe voluto, verso la festa, a sobbalzare sui dissuasori. Intravide il chiarore delle luci – là si stanno divertendo – gli tornò in mente il suo amico – ma Claudio è diverso –, e si sentì meno solo, meno perduto. Rallentò indefinitamente, nel tentativo di continuare ad avvicinarsi alla festa senza raggiungerla mai. Il contachilometri segnava venti all’ora, ma lui andava più piano, molto più piano, aveva raggiunto una lentezza impossibile da misurare: a malapena riusciva a superare i dissuasori. Spense i fari. Ripensò a quando erano ragazzini, lui, Claudio, Edoardo, e scappavano di casa ogni notte, e viaggiavano coi motorini a fari spenti per la pineta, poi a occhi chiusi, poi bendati. Conoscevano a memoria ogni curva, ogni leggera deviazione di quelle stradelle. I dissuasori li avevano messi molti anni dopo.

Quando rientrò alla festa Claudio era già in declino – dove sei stato? – stava già crollando – in giro dove? –, si capiva dagli occhi – non ti si vedeva più. Stava facendo insieme agli altri un gioco imbecille col vino, come se ci fosse stato bisogno di una penitenza per bere. Giorgio non voleva credere ai propri occhi vedendo che c’era gente che si impegnava a morte anche lì: dopo che avevano bisogno di un gioco imbecille per bere il vino, facevano di tutto per vincere e non bere il vino. Perdevano. Claudio no, lui vinceva, ogni volta che veniva il suo turno sbagliava apposta, platealmente – il regista di Fratello Sole Sorella Luna? Tinto Brass! –, volgarmente – il regista di Titanic? Stocazzo! –, o raffinatamente – l’attrice che interpreta Mary Poppins? Julie Christie! –, e le penitenze non le faceva col Montepescali bianco come tutti gli altri, lui aveva la sua bottiglia di Alcol Buongusto già molto vicina alla fine. Con le palpebre a mezz’asta lanciava sguardi annebbiati al suo amico, gli strizzava l’occhio, sbagliava quando toccava a lui e beveva, senza averne cognizione. Prendeva in mano la bottiglia e la mostrava ora a Giorgio, ora a tizio, ora a un pino, ripetendo a voce alta «Vera acqua di fuoco, woah». C’erano anche le ragazze, naturalmente: alcune belle, altre brutte, tutte molto abbronzate, tutte già ubriache: per quanto si impegnassero a fondo nel gioco per non sbagliare, erano stupide, e fatalmente, piuttosto spesso, sbagliavano. Erano quelle ragazze che bevono soltanto vino bianco: molte ragazze stupide sono così, il vino rosso lo disprezzano, con quello bianco ci si ubriacano, e non si capisce perché.

D’un tratto Giorgio non vide più Claudio. Si voltò: era disteso sul prato rasato, bocconi, come lui prima, le braccia aperte, i capelli confusi con l’erba bagnata. Era molto tardi, ormai, e per fortuna Carlotta non sarebbe venuta più. Qualcuno gli si avvicinò, chinandosi a fatica. E tirati su. E ragazzi questo sta male. E bevi questo. E succhia quest’altro. Tutt’a un tratto quella banda di sbronzi era diventata l’esercito della salvezza.

Giorgio non sapeva che fare. Camminò un poco, barcollando dignitosamente, scese uno, due, tre gradini senza cadere – ecco, vedi, nessuno si è accorto che non sei caduto – e si distese sul prato vicino al suo amico che si lamentava. «Rimasugli», borbottava. Gli avrebbe sussurrato qualcosa all’orecchio, non appena l’impulso che aveva fatto partire dal cervello fosse arrivato a destinazione: l’avrebbe fatto ridere, qualcosa Giorgio avrebbe fatto per il suo amico che stava male, e invece glielo portarono via. Due ragazze se lo trascinarono da qualche parte dietro una siepe, nel buio impenetrabile.

Tornò a sedere a un tavolino con degli sconosciuti, dove la bottiglia abbandonata di Alcol Buongusto guaiva come un cagnolino abbandonato. Erano veramente novantacinque gradi? Volumetrici? Saccarometrici? Qual era il peso specifico dell’alcol? Rod Stewart era sexy? O era sexy solo la sua voce? Si mise a berne gli ultimi sorsi. Adesso tutti si stavano raccontando di quella volta in cui si erano ubriacati, ed erano stati male, e avevano vomitato: ognuno sosteneva che la sua era stata la sbornia peggiore del mondo. Giorgio ascoltava in silenzio – lo stesso silenzio dei pini, là fuori, delle montagne invisibili –, sorrideva a qualche ragazza dalle spalle nude, lisce, senza averne cognizione. Non c’era nulla da salvare, in tutto quello. Nulla da salvare. Commovente gli sembrava soltanto il pensiero di non esser mai venuto a quella festa, di non esser mai stato, giammai vissuto, o essersene andato in fretta e allegramente. Beveva il suo alcol, fumava sigarette e non ne aveva cognizione, solo del peggio si rendeva ancora conto. Arrivò un tale (Francesco? Daniele? Geremia? E in questo caso, con che coraggio si poteva chiamare un figlio Geremia?) che annunciò: «Gli è presa triste, ora è in macchina che piange». Qualcuno disse che anche lui, quella volta, aveva pianto.

Giorgio s’incamminò con cautela verso la macchina di Claudio, che lui stesso aveva parcheggiato lungo la strada: di nuovo si ricordò di tutti e tre i gradini e non inciampò, ma nessuno gli disse bravo. Sopra di lui le stelle erano molte più del necessario.

Claudio era sdraiato sui sedili anteriori, di traverso, le vecchie scarpe di corda blu che sporgevano dallo sportello aperto, la debole luce dell’abitacolo che illuminava un groviglio di membra. Accanto a lui una ragazza bruna gli accarezzava la fronte e una ragazza bionda gli sussurrava paroline nell’orecchio – Dai, non fare così. Ecco, pensò Giorgio, è esattamente questa la dolcezza che nessuna ragazza gli riserva quando è sobrio, quando non piange, quando non diventa lo zimbello della festa.

«Gli è presa triste», ripensò: «è tutto il resto che è triste: la ragazza bruna e la ragazza bionda che scompariranno domattina, i giochi col vino, il rumore del mare dentro la conchiglia, sh, sh – quello è triste».

Giorgio contemplò l’amico devastato davanti a lui. Quel viso popolato da smorfie di cui lui conosceva ogni sfumatura, adagiato su ginocchia abbronzate, femminee, altrui. Cercò di ignorare per quanto possibile le chiome ondulate delle ragazze, di non farsi distrarre dalle vampate di profumo che ogni tanto lo investivano, cercò di non farsi ingannare dalle apparenze: quelle ragazze non esistevano. Claudio stava piagnucolando qualcosa, solo.

–             Non voglio essere un cazzo d’uomo – borbottava – Un rimasuglio.

Poi taceva.

Poi riprendeva.

–             Ma anch’io sono un cazzo d’uomo – e piangere – Un rimasuglio.

–             No – diceva la bruna – Tu non sei così…

Cosa ne sapeva lei, si chiese Giorgio. Cosa ne sapeva.

–             Voglio essere anch’io uno di quelli che ah, il Salento è diventato uno schifo da quando…

E piangeva.

–             No, no – diceva la bionda – Non fare così…

–             E lo spinello, e lo spinnaker…

–             No – la bruna – tu non sei così. Tu sei migliore.

Questa era bella, pensò Giorgio. Questa era proprio bella. Stanno tutta la vita con ragazzi così, li sposano, ci fanno dei figli, e magari li chiamano Geremia in onore di qualche maledetto nonno, e improvvisamente si accorgono che Claudio è migliore. Che schifo, concluse. Che schifo le feste, le ragazze, il Montepescali e l’Alcol Buongusto. Che schifo Carlotta che non viene mai. Lei è migliore.

Giorgio si fece un po’ di posto in un angolo del sedile. Fece attenzione a non farsi ingannare dal caldo, fugace contatto della sua schiena con i seni della bionda. Non esistevano. E visto che non esistevano, non era forse il caso che se ne andassero, tutte e due, e lo lasciassero solo con il suo amico? «Vorrei dissuadervi dal restare», sbrodolò, e loro se ne andarono. Claudio protese una mano verso la bionda che si dissolveva nel buio, le sfiorò appena un polpaccio.

Giorgio prese la testa del suo amico sulle ginocchia. Gli disse qualcosa, senza averne cognizione, e quando riuscì ad averla si rese conto che erano le stesse parole della bionda:

–             Dai, non fare così – uguali precise.

–             Stai zitto tu, che sei peggio di me – insorse Claudio – Anzi, sei come me!

Allora lo riconosceva, pensò Giorgio. Allora anche in quello stato Claudio riconosceva il suo pard. Povero Claudio. Gli passò una mano tra i capelli, gli asciugò il sudore dalla fronte. Era già un po’ stempiatello, Claudio. A ventitré anni. Poi gli parlò di Carlotta, ma non ne parlò solo a lui, parlò anche a se stesso: in fondo era ubriaco come lui, stava male come lui, amava Carlotta come lui.

–             Sto veramente male, Giorgio – bisbigliò Claudio.

–             Prova a metterti due dita in gola e vomita.

–             Ma vaffanculo…

Aveva ragione, pensò Giorgio. Non puoi dire le stesse cose che disprezzi quando le senti dire dagli altri, e loro avevano disprezzato molte cose, insieme, molti luoghi comuni, compreso quello del mettersi due dita in gola e vomitare. Così non restava che tacere.

Ricomparve la bionda, che gli disse «fammi posto» ma intendeva dire «hai visto che anche con te non ha smesso, cazzone?», e Giorgio allora se ne andò, indignato. Fece qualche passo prima di lasciarsi cadere sul prato. Che schifo immenso, immensissimo. Qualcuno gli si avvicinò prontamente, stava male anche lui? Era il padrone di casa, il calvo, voleva che stesse male anche lui, lo desiderava ardentemente, poiché assieme a Claudio aveva osato sfidare la sua bottiglia imbevibile. E invece no, Giorgio stava benone, e per dimostrarglielo gli fece l’imitazione di Pierluigi Pardo: «Possesso Juve!». Laggiù, però, c’era ancora qualcuno che aveva voglia di blaterare: cosa, cosa avrà da dire? Giorgio si alzò e raggiunse il porticato. Inciampò in un gradino, non cadde – un’altra variante.

–             Perché anche alzarsi alla mattina è politica

–             stava dicendo uno dei tanti con la barba – Scopare è politica. Mangiare la carne è politica.

–             Nulla è politica – lo interruppe Giorgio.

Un altro gli si avvicinò e gli chiese se non si sentisse male. Stava be-no-ne.

–             La palla è quadrata! – sentenziò, con rabbia – Venezia è brutta ma io ci vivrei! Sean Connery era molto più bello da giovane! E il teppismo negli stadi ha tutto a che fare con lo sport!

Fece gli occhi da pazzo, brandì una bottiglia di Montepescali vuota e la batté contro una colonna di legno, senza peraltro riuscire a romperla. Gli furono subito addosso in due, nessuno si era impaurito.

–             Ehi. Calma un po’… Lo spinsero via.

–             Sono scene che vorremmo vedere sempre!

–             disse Giorgio, con la voce di Pierluigi Pardo. Ora Claudio era seduto sull’erba insieme alla bionda e rideva, e la ragazza rideva insieme a lui. Sembrava soddisfatta, sollevata, come se il ridere di ora e il piangere di prima non fossero la stessa cosa. E lei era solo una chiazza rosa sull’erba verde, immersa nel buio impenetrabile, che non esisteva nemmeno. Accidenti a non esser nati frullatore, pensò Giorgio, o rastrello. O rastrello.

Giorgio prese in mano un rastrello, sul prato, e lo portò con sé dentro la macchina rimasta vuota. Si sistemò come Claudio poco prima, sdraiato sui sedili anteriori, con le gambe fuori dallo sportello aperto. Sistemò il rastrello come fosse stato la ragazza bionda, sul sedile, e si addormentò. Quando lo risvegliarono era già tutto sistemato, stavano sbaraccando, Claudio stava meglio, dormiva, e ormai sarebbe rimasto lì. «Perché sei abbracciato a un rastrello?».

Gli restituirono il telefonino che si era dimenticato in giro e lo riaccompagnarono a casa – dato che questi noiosi, calvi, detestabili esseri sono anche gentili. Giorgio pensava se perdo il sonno è la fine. Se vomito è la fine. Se inciampo in un gradino è la fine. Se non inciampo in un gradino è la fine. A casa urtò contro il tavolo del soggiorno, si fece pilotare dalle pareti del corridoio come un bob a 2, si buttò sul letto senza spogliarsi. Fece molto rumore: suo padre si svegliò, accapò alla porta della sua camera e gli chiese se andava tutto bene. «Ho un sonno del cazzo», fu la sua risposta, e il padre se ne andò – lasciando un vuoto enorme, però, madornale.

Respirò profondamente, ma non percepì altro che odore di umidità. Si addormentò e però subito si ridestò, oppresso da una sensazione insopportabile: gli sembrava di avere altri corpi dentro al suo corpo, anzi il suo non c’era più. Tre corpi estranei, per la precisione: delle gambe che volevano correre, delle braccia che volevano abbracciare, una vescica che voleva pisciare. Di suo sopravvivevano soltanto quei vermi che strisciavano, brulicavano, e il solito rumore lontano, sh, come di marea che monta, sh, come di risata che cola a picco in fondo al mare. Prima di riaddormentarsi fece in tempo a sentirsi tre volte solo.

Sandro Veronesi (Firenze, 1959), scrittore. Il suo primo romanzo è «Per dove parte questo treno allegro» (1988), a cui seguono «Gli sfiorati» (1990) e «Venite, venite B-52» (1995). Ha vinto il premio Campiello con «La forza del passato» (Bompiani, 2000), e due volte il Premio Strega. Con «Caos Calmo», (Bompiani, 2005), diventato nel 2008 un film di Antonello Grimaldi e con «Il Colibrì», (La Nave di Teseo, 2019), che è diventato un film di Francesca Archibugi. Molti dei suoi romanzi sono stati ripubblicati da La Nave di Teseo. Il suo ultimo romanzo è «Comandante», scritto insieme a Edoardo De Angelis (Bompiani, 2023).