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Adesso lui mi ucciderà, ma io vado via

I Meridiani nascosti nella stanzetta dello studentato, la gelosia pazza di Valerio per gli uomini e per i libri. Leggere “Madame Bovary” a San Lorenzo e trovare il coraggio di mentire e di scappare: in carrozza con Léon, in tram con le valigie

L’ultima notte penso che Valerio mi ucciderà. Rimango sempre sveglia. Lui invece rimane a letto, con gli occhi aperti, a guardare alternativamente il vuoto, la tv a cui ha collegato la Playstation, o i programmi che passano. Non mi fa niente. Il giorno dopo metto gli scatoloni con le mie cose sul tram. Arrivo a Centocelle. Quando porto l’ultima valigia nella mia nuova stanza, Valerio mi manca. Nonostante tutto, l’ho amato molto. Quando lo lascio, gli voglio ancora bene. Gliene voglio anche adesso, una quindicina d’anni dopo. Però, me ne dovevo andare. Non c’era alternativa. Sono stata con lui tre anni. Da almeno due, pensavo di lasciarlo. Ma non mi sarei mai decisa se non fosse successa una cosa. La cosa si chiama Madame Bovary.

Ho sempre amato leggere. Ho sempre voluto fare la scrittrice. I libri, Valerio li odia. Non i libri in generale, i libri che leggo io. O che studio io all’università. Frequento Scienze Umanistiche a La Sapienza. Studio come non ho mai fatto in vita mia. Adoro questa facoltà. Vivo a Roma da sei anni. Ho voluto pagarmi la vita da sola, e anche l’università. Per questo, l’ho cominciata molto tardi. Mi mantengo lavorando in una casa editrice. È un lavoro che ho imparato mentre lo facevo. L’editore mi ha vista piena di entusiasmo e dedizione; dopo uno stage durato poco si è fidato di me. I soldi per pagare una casa, però, per tanto tempo non li ho.

Vivo nello studentato di San Lorenzo, nella stanza di Valerio, abusivamente. La stanza è sua. Una stanza minuscola senza bagno, giusto lo spazio per un letto singolo in cui dormiamo stretti, e una scrivania. Non c’è spazio, è vero. Io ho montagne di libri. Valerio li odia. Se leggo, o studio, o scrivo, non ci vede più. Mi ama moltissimo, dice. Mi ama più di ogni cosa al mondo. Invece, io, più di lui amo la scrittura. La scrittura, i libri, lo studio mi allontanano da lui. Quando c’è di mezzo tutto questo, non mi importa più di niente. È quello che pensa lui. È quello che mi ripete tutti i giorni. È quello che mi urla, minaccioso, spaventoso, molto spesso. Quando si arrabbia, ci sono tanti mezzi di tortura. Il più leggero è non parlarmi anche per dieci giorni. In quei dieci giorni si può impazzire. Viviamo in una stanza infima, dobbiamo stare tutto il tempo appiccicati, io cerco di parlargli ma lui ha una faccia terrificante e non mi parla mai. Non cede mai. È testardo, inflessibile nella sua tortura del silenzio. Lo ammiro, di nascosto, per la sua forza di volontà così granitica.

La parola che comprende tutto questo si chiama gelosia. Valerio è la persona più gelosa che ho mai conosciuto. Se passeggiamo, d’un tratto si ferma. Mi guarda con due occhi ciechi di rabbia, mi dice: “Secondo te sono un coglione, che non ho visto come hai guardato quello?”. “Quello chi?”, mi giro a cercare chi mai avrei potuto guardare. Giuro, spergiuro, che non ho guardato nessuno, non mi ha guardata nessuno. Ma quanto più dico la verità, tanto più Valerio non mi crede. Non oserei mai guardare nessuno, nemmeno pensare a qualcuno. Ho paura, anzi sono convinta, che lui possa penetrarmi nella testa, leggermi i pensieri, che sappia quello che penso prima ancora che lo pensi io. Sono convinta che, anche se facessi una piccolissima cosa che può disturbarlo – cioè, anche semplicemente sorridere con cortesia al tabaccaio che mi dà le sigarette – a mille chilometri da lì, lui lo saprebbe immediatamente. Non intuirebbe: saprebbe. Tramite una specie di facoltà ultrasensoriale. Se lo sapesse, lo prenderebbe come un oltraggio mortale. E io vivo con la testa bassa e il cervello chiuso, sono convinta che Valerio sappia tutto, tutto quello che esiste ma anche quello che non esiste. Tutto è una prova del fatto che l’ho tradito. Se è agosto e torno a casa sudata, in salita, sotto il sole: ho sicuramente scopato con qualcuno. Se vado a prendere il caffè alla macchinetta nell’ingresso dello studentato, chissà quanti ragazzi e uomini mi sono fatta, davvero o col pensiero.

Io non penso a niente. Allontano chiunque mi si avvicini. Sono terrorizzata. E incazzatissima. Mi dico: se lo meriterebbe proprio, che gli dicessi una bugia. Ma è impossibile. Non appena ho un pensiero del genere, subito lo zittisco, terrificata. Che Valerio abbia letto anche quel pensiero?

Non penso niente. Non faccio niente. Cerco di difendere solo il mio diritto ai libri, e su quelli si abbatte, sempre, la sua rabbia. Me li butta di nascosto (tanti libri che ho amato, sottolineato, appuntato e letto quando ero con lui, oggi non li trovo più). Più di tutto, odia i Meridiani Mondadori. Perché io amo i Meridiani. E dentro i Meridiani, a un certo punto scopro Madame Bovary.

Non ho i soldi per comprarli. Me li compra mia madre nella versione più economica, che esce in edicola. Mia madre ha sempre avuto una mente matematica. Segna diligente su un quadernetto i numeri che mi mancano, li depenna uno alla volta. Io le dico: non c’è spazio per i libri nella nostra stanza!

Allora lei mi compra una libreria minuscola, di legno, molto bassa, profonda il giusto per un Meridiano (mia madre ha preso le misure, si è fatta i calcoli al millimetro). Apribile e richiudibile – e nascondibile, anche se lei non sa delle follie di Valerio – in pochi secondi, ci entrano precisamente quattro file di Meridiani in altezza, e una media di dieci in larghezza. Ci stanno perfetti, a filo. Poi mi compra la seconda, perché in una non ci stanno più. Poi mi compra la terza.

Valerio non sarebbe contento, ma io faccio sparire le librerie sotto la scrivania, aderenti al muro, e lui non se ne accorge. O, se mi dice qualcosa, io le faccio scomparire subito e riapparire al momento giusto. Quando non è arrabbiato. Il che succede, perché altrimenti sarei pazza a stare con una persona così. Lo amo molto, l’ho detto, e non perché io sia una masochista. Forse, più che altro, sono un’illusa.

È luglio inoltrato. A Roma fa un caldo pazzesco. Noi dobbiamo dare gli esami della sessione estiva. Poi andremo a Reggio Calabria, al mare, dove vivono i suoi e dov’è nato lui. Dove c’è un padre che è l’origine di tutto. Ma non qui. Qui, in questa stanza dello studentato, qui nella mia vita, nella nostra vita, le veci di suo padre le fa lui. Quando non è nella stanza, io leggo i Meridiani. Quel giorno, prendo il volume dedicato a Flaubert. E inizio a leggere Madame Bovary.

Madonna, Madame Bovary. Inizio a leggerlo come leggo tutti i classici, con un misto

di reverenza e di paura che non mi piacerà. Poi, dimentico tutto. Ma proprio tutto. Mi immergo nella classe in cui un giovanissimo Charles Bovary arriva come nuovo, è più vecchio degli altri studenti, e stringe tra le mani un cappello incredibile, che ha tutte le fogge e nessuna. Vado a cavallo con lui, ignara, per la prima volta, verso la casa dove vivono papà Rouault e Emma. Mi concentro, con lui, sulle unghie di Emma, che non sono belle, e poi su Emma, pagina dopo pagina, che è sensuale nella scriminatura dei capelli, negli occhi che a ogni descrizione cambiano colore, nel modo di muoversi, non muoversi, cucire. Vado con Emma, per la prima volta, al ballo. E inizio a desiderare insieme a lei. Un desiderio di tutto e niente, senza fine. “Aveva voglia di viaggiare o di ritornarsene a vivere al convento. Desiderava morire. Desiderava vivere a Parigi”. Mi avevano detto che Madame Bovary era il romanzo di una donnetta incontentabile, corrotta a desideri effimeri dalla lettura dei romanzi. Io ci trovo me stessa in tutte le mie manie e le mie frustrazioni, ci trovo il mio desiderio di essere sempre altrove, sempre qualcun altro, ci trovo la mia convinzione che gli altri vivano sempre vite migliori della mia, siano più felici. Ci trovo me stessa, e sono io quella donna incapace di essere felice, quella donna che si invaghisce prima di Léon, ma non si concede, poi diventa l’amante di quel cretino di Rodolphe dalle frasi sdolcinate, poi ritrova Léon e si butta nella relazione con quell’uomo. Un’adultera. Ecco cosa sono. Sono un’adultera e il mio adulterio, insieme a Emma, non si esaurisce con gli uomini. Tradisco tutti, tradisco anche me stessa, vago per il mondo in cerca di un appagamento che non arriva mai. Finalmente, sono chi sono.

“Ma a lei non succedeva niente, così Dio voleva. L’avvenire era un corridoio buio, con al fondo una porta sprangata”.

Mi metto a bere aceto insieme a lei, per far pensare a Charles che l’aria di Tostes, dove viviamo, non mi fa bene. Voglio un cambiamento, lo voglio più di tutto. Mi viene una tossetta secca come lei, e perdo l’appetito. A differenza di Valerio, Charles non ha nessuna capacità extrasensoriale, anzi: non vuole assolutamente capire chi è sua moglie, cosa fa sua moglie. L’unica cosa che gli importa è rimanere insieme a lei. Pur di rimanere con lei, è disposto a non conoscerla mai; a non vedere i suoi tradimenti e il suo disprezzo, a rimuoverli anche dal subconscio (se ci penso, però, anche Valerio sarà disposto a non conoscermi mai, pur di perpetrare per sempre la sua dittatura del pensiero su di me). Ma io adesso sono Emma e voglio un cambiamento; uno spostamento del mio desiderio altrove. Allora Charles, per quietare lei, per quietare me, ci porta a vivere a Yonville. “Quando se ne andarono da Tostes, nel mese di marzo, madame Bovary era incinta”. Io non sono incinta, non ho nessuna intenzione di esserlo, non ora. Non qui. Ma lo sono insieme a Emma, insieme a Emma spero che sia un maschio, insieme a Emma quando scopro che è una femmina svengo.

Non amerò mai la bambina.

E insieme a lei mi butto in un mare, in una tempesta di bugie. Così tante bugie che ci prendo gusto. Con Emma, comincio a mentire su tutto, anche sulle cose più insulse. Solo per divertimento.

Ma adesso?

Adesso, da quando ho cominciato a leggere, nella realtà saranno passate poche ore. A me invece è passata davanti una vita intera. Quella di Emma. La mia. E ho fatto un errore imperdonabile. Mi sono dimenticata.

Mi sono distratta dalla dittatura del pensiero del mio uomo (oh, Emma, chi saresti potuta essere se il tuo uomo fosse stato Valerio, e non Charles?). Mi sono dimenticata che Valerio legge i miei pensieri. Che adesso, dovunque sia, sa tutto.

Sa che mi sono appassionata alla lettura di questo romanzo, sa che mi sono identificata con l’antonomasia dell’adulterio, dell’amoralità. Sa che ho fatto l’amore con Léon – ho scopato con lui, per essere precisi – in una carrozza che correva indemoniata per le vie della città. Mentre il cocchiere ormai era stremato, non ne poteva più di spronare i cavalli in questa corsa senza fine. Mentre “sul porto, fra i carri e i barili, e per le strade e sulle cantonate, i bravi cittadini sgranavano gli occhi davanti a uno spettacolo tanto straordinario in provincia, una vettura con le tendine tirate che senza sosta rispuntava qua e là, sballottata come un veliero e più ermetica di una tomba”. Io e Léon, lì dentro, non eravamo più due persone ma due creature dell’inferno. Cosa è successo in quella carrozza, Flaubert non lo scrive in modo chiaro, ma lo evoca – appunto, come uno spirito degli inferi. E io sono stata in quella carrozza, nuda, sudata, corpo contro corpo con Léon. Ci sono ancora.

E adesso?

Ovunque sia, a quest’ora Valerio saprà già tutto quello che ho pensato (quello che ho fatto). Arriverà e mi distruggerà. Poco importa che nella realtà lui non può sapere cosa sto leggendo. Poco importa che Valerio quel libro non lo leggerà mai. Non è la realtà che conta; la realtà per me, ormai da anni, è l’impressione che ho della realtà. Un mentalista che ti fruga nella testa. Ho il cuore in gola. Chiudo il libro. Come faccio a farmi perdonare? Devo bruciarlo? Devo strappare le pagine e distruggerle? Per la prima volta da quando conosco Valerio, ho allentato la guardia e ho lasciato che la mia mente pensasse quello che voleva. Maledetta me.

Mi alzo. Mi guardo intorno per capire cosa posso fare. Se lo butto dal terzo piano, forse, morirà. Apro la finestra. Lo lascio penzolare. Faccio per lasciarlo andare: in nome del mio amore infinito per Valerio. Della mia devozione. Poi però, il libro non lo butto giù. Mi risiedo.

Riprendo a leggere. Succede in modo naturale, come un’epifania. Madame Bovary è la mia epifania. Per la prima volta da quando conosco Valerio, se sta leggendo il mio pensiero non me ne frega niente.

Spendo i soldi di Charles, insieme a Emma. Firmo cambiali su cambiali, me ne frego che ho un marito, me ne frego che ho una figlia. A un certo punto mi rendo conto che di soldi non ce ne sono più. Comincio la mia corsa indemoniata verso la fine, insieme a Emma, chiedo prestiti ai miei amanti, a tutti, non mi aiuta nessuno, sono sola. E però, con Emma, quando il notaio vuole prendermi in cambio di denaro gli urlo: “Vi approfittate spudoratamente della mia disperazione, signore! Sono da compiangere, ma non da vendere!”.

A questa frase mi manca il fiato. Mi batte il cuore all’impazzata. Mi sono innamorata. Mi sono innamorata di Emma Bovary. Di una persona per cui Valerio avrebbe solo una parola: troia. Insieme a Emma, non mi rimane che l’arsenico. Morire, non per arrendermi, ma per attestare il mio desiderio ultimo: decidere da sola la mia fine. Scontarla fino all’ultimo. Decidere da me.

E io, che da quando sto con Valerio non ho più alcun “me”, ma solo un “lui”, scatto in piedi. Valerio arriverà a momenti, questo è sicuro. Saprà tutto quello che ho pensato. Non so cosa esattamente mi farà. Ma sarà terrificante. Intanto, però, Emma si contorce sul letto per l’arsenico, boccheggia prima di morire. Anche questo è terrificante. Siamo nel terrificante insieme.

“All’improvviso si sentì dal marciapiede un frastuono di zoccolacci con lo strascichio di un bastone; e una voce si levò, una voce rauca che cantava: ‘Sovente un bel sole d’estate / fa le ragazze innamoratÈ”. La porta della stanza dello studentato si spalanca. Appare Valerio, e a me sembra gigantesco. Ed è gigantesco, ed è invincibile. “Che stai facendo?”, mi minaccia. E io nascondo il libro perché non sono coraggiosa, non sono come Emma. Però, dentro di me, i pensieri veri stanno sgorgando a fiotti. Non li tengo più.

Mentre sta lì, in piedi contro la porta, sono atterrita ma penso disordinatamente: perché ti amo così tanto? Ti amo per come facciamo l’amore – bellissimo –, per certi attimi che sbocciano di una dolcezza infinita e disarmante, per certe risate che sappiamo solo noi, perché ogni momento penso che tu non sei così davvero, è tutta colpa della violenza che hai ricevuto da tuo padre. E io posso insegnarti che non sei come lui. Io posso salvarti. Ti amo anche perché questo tuo senso di possesso mi fa sentire amata alla follia. Inutile non ammetterlo.

Invece non è vero che tu non sei così: tu sei così. Non lo so cos’ha visto, non lo so cos’ha intuito, ma Valerio varca quella soglia e so che mi farà male.

A un certo punto si cresce, e s’impara che non si può salvare nessuno. Soprattutto, si cerca di salvare sé stessi. E io adesso mi voglio salvare. Per un anno, metto tutti i soldi da parte per potermi pagare una stanza. Faccio solo questo. Faccio tutto di nascosto. Ho imparato a fare le cose di nascosto, anche se sono sempre terrorizzata di essere scoperta. Sono docile e placida ma ormai penso, penso spesso. Penso troppo e, dato che penso, sono in pericolo sempre. Valerio diventa cattivo ogni giorno di più. Non solo cattivo: malvagio. Gli dico che lo lascio solo quando, dopo aver trovato, di nascosto, una stanza a Centocelle, devo fare le valigie per il trasloco (un piccolo trasloco in tram). “Domani me ne vado”. Lui ribalta la stanza. Spacca tutto. Spacca per primi i regali che ho ricevuto dai miei genitori per la laurea, e poi strappa in mille pezzi la mia tesi di laurea. Solo dopo spacca tutto il resto. Cerca di spaccare anche me, ma io sono diventata bravissima a sgusciare, dribblare, scappare. Mentre scappo vedo le guardie dello studentato salire verso la nostra stanza per capire che succede.

Scongiuro una ragazza che ho appena conosciuto di farmi dormire da lei quella notte. Non mi fa dormire da lei. Perché, a sera inoltrata, risalgo nella nostra stanza? Perché non dormo nascosta da qualche parte nello studentato? Inutile mentire: perché quella è la nostra ultima notte. Apro la porta tremando. Lui si gira di scatto. Mi fucila con gli occhi ma non mi parla, rimane steso sul letto e si mette a guardare lo schermo. Lo fa per tutta la notte. Io non dormo mai. Sono convinta che mi ucciderà. Non mi uccide. Non saprò mai se non ne ha avuto il coraggio, o la voglia. A un certo punto smette di guardare lo schermo e, di colpo, si gira verso di me e mi prega. Non te ne andare. Non posso vivere senza di te. Ti prego. Ti prego. Neanche io posso vivere senza di lui ma non me deve importare niente. Mi prega per ore e ore. Ti amo, senza di te non ho più senso. Mi dice le cose più belle che ho mai sentito dire da un uomo. Non vacillo mai. Ho una forza di volontà granitica che ho imparato da lui. Poco dopo l’alba, me ne vado. Me ne vado trascinando gli scatoloni all’indietro, senza mai dare le spalle a Valerio.

I mesi successivi sono duri, mi manca moltissimo. Non torno indietro. Non lo faccio perché se torno indietro lo so che non mi libererò mai più; se torno indietro davvero sono morta. Ma forse anche per quell’anima diabolica, bellissima, di nome Emma Bovary. Che, senza alcun pudore, un pomeriggio di luglio divorato dall’afa, mi ha domandato senza conoscermi: e tu, hai il coraggio di dire una bugia?

Antonella Lattanzi (Bari, 1979), scrittrice e sceneggiatrice. I suoi ultimi libri sono “Devozione” (Einaudi, 2010), “Prima che tu mi tradisca” (Einaudi, 2013), “Una storia nera” (Mondadori, 2017), “Questo giorno che incombe” (HarperCollins, 2021) e “Salvarsi”, (Einaudi, Quanti, 2021). Il suo ultimo racconto è nell’antologia “Willie lo Strambo” (Sperling & Kupfer), ora in libreria.