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All’ombra dei Dyson in fiore

Signore e signori, ecco cos’è di scena. Da quando la borsa della donna più elegante del mondo, Jane Birkin, è diventata tamarra come un tatuaggio, il catalogo degli oggetti è cambiato, e anche le biblioteche: tenere i Meridiani tutti in fila è una condanna alla burinaggine. Attenzione agli sfondi, ai romanzi troppo nuovi e ai gabinetti aperti
di Guia Soncini
illustrazioni di Makkox

Poche settimane fa ho registrato un’intervista televisiva da casa. Come ci eravamo abituate a fare con la pandemia, quel periodo civile in cui nessuno pretendeva che tu prendessi un taxi o addirittura un treno e andassi in uno studio televisivo: ti collegavi da casa, pettinata ma anche in mutande, tanto la telecamera del computer prendeva sì e no le spalle.

E’ stato in quel dorato periodo di collegamenti comodi che abbiamo imparato l’importanza dello sfondo: poteva essere l’occasione per vendere il proprio prosciutto, mettendo il libro di cui eri autrice su uno scaffale non di costa ma di faccia, col titolo ben visibile anche al pubblico più distratto; poteva essere lo scivolo verso una polemica, in Inghilterra c’è gente che s’è rovinata la reputazione perché alle spalle aveva tomi sulla storia del nazismo; poteva essere il decisivo tassello della propria presentabilità sociale. Ricordo un collegamento che quasi mancai perché, all’ultimo minuto, mi accorsi che alle mie spalle c’erano alcuni orrendi romanzi che mai avrei ammesso di possedere, ma le cui ridicole scene di sesso ero solita declamare nei dopocena a un uditorio sghignazzante. Mi finsi morta e, mentre una redattrice chiamava freneticamente per sapere perché non fossi su Skype, il programma stava cominciando, scagliai i libri compromettenti fuori dall’inquadratura, sostituendoli precipitosamente coi primi Adelphi che trovai.

L’oggetto di scena impresentabile è un rischio mortale. Forse per voi Madonna non è più quella d’un tempo da quando si devasta di filtri Instagram e altre disperazioni per non invecchiare. Per me non è più lei da quando uno dei suoi figli ha instagrammato un balletto in cucina, e sopra la porta c’era il cassone dell’aria condizionata, orrendo e gigantesco, e cosa sei Madonna a fare se non hai un arredatore che trovi il modo di nascondere quella bruttura, va bene che siamo nel secolo in cui la gente si fotografa in bagno col gabinetto aperto, ma insomma. Al contrario, l’oggetto un tempo impresentabile può rinascere a nuova vita scenografica qualora fotogenico: prima del Dyson, nessuna di noi si filmava con voluttà mentre aspirava la polvere, nessuna si esibiva avvinta a un attrezzo per le pulizie con la soddisfazione con cui avrebbe posato in un abito di Valentino. Possibile che i produttori di quei cassoni bianchi chiamati split non abbiano mai capito l’urgenza d’affidarsi a un designer che dia a quegli attrezzi un aspetto meno ospedaliero?

Su Instagram c’è un’adolescente da cui sono ossessionata. È giovane come lo sono stata io, ignorante come lo sono stata io, figlia di madre impresentabile come lo sono stata io, ripetente come lo sono stata io. Ma ha un cellulare con la telecamera, e quindi ha occasioni d’ammantarsi di presentabilità. L’anno scorso l’adolescente si è fotografata sugli scogli, come tutte le sue coetanee, ma l’ha fatto come lo fanno tutte le mie coetanee: con quell’oggetto di scena che è un libro non letto (se li leggi si sciupano e diventano subito meno fotogenici). Il libro non letto era messo sullo scoglio con l’angolazione curata con cui l’adolescente da cui sono ossessionata fotocompone tute da ginnastica e borse di lusso, in una rappresentazione del concetto di Ragazza Ricca in cui non si sa più se l’oggetto di scena sia lei stessa o un accessorio di Chanel. L’oggetto di scena della mia ossessione quella volta era una Némirovsky rosa, che è ormai un investimento meno a rischio d’una Birkin.

Una volta le borse di Hermès erano il modo più sicuro per sembrare: sembrare una nata ricca, sembrare una di buon gusto, sembrare una che opta per i classici e non per le mode di stagione. Vent’anni fa dissi alla banca che dovevo far ristrutturare il bagno. Col mutuo che mi diedero, comprai la mia prima Birkin. Blu. La seconda, nocciola, me la regalò una signora ricca: lei ne aveva tante, e quella era graffiata, rovinata, non l’avrebbe più usata. (I vestiti per i poveri devono essere in buone condizioni, per venire donati; le borse da finte ricche vanno bene anche devastate, sporche, mezze rotte). Poi vennero le Kardashian. Nessuno se le aspettava, come l’inquisizione spagnola dei Monty Python: nessuno, nel secolo scorso, aveva previsto che la borsa della più elegante del pianeta, Jane Birkin, sarebbe divenuta la borsa delle più burine tra le burine, delle più arricchite tra le arricchite, delle più impresentabili tra le impresentabili. Cosa dovevamo fare, delle nostre Birkin, noi che avevamo investito soldi per un oggetto di scena che ci facesse sembrare sofisticate e ci ritrovavamo con un oggetto di scena che aveva l’eleganza percepita d’un tatuaggio?

Un po’ d’anni fa intervistai Courtney Love, e mi disse che, prima di averne una lei, aveva comprato una Birkin alla figlia per il suo sedicesimo compleanno: era l’oggetto che le punk divenute signore compravano alle figlie sperando di riscattarle. Però persino Courtney Love aveva capito già allora che la parete di Birkin contro la quale instagrammarsi faceva di te un’irredimibile tamarra: «Non bisogna averne più di due, se mi vedete con una di coccodrillo sparatemi. Una Birkin di ogni colore da coordinare a ogni vestito? Poi, cosa? Essere Victoria Beckham?».

Col tempo, persi interesse per le borse, e quella blu fece la fine di quella nocciola. A rovinarla non fu l’uso ma la dimenticanza, nell’ingresso, d’un sacchetto della spesa. La rete di cipolle scivolò nella Birkin, e ci restò abbastanza a lungo da marcire e deformare la pelle. Ritrovarla così mi fece capire che non sarei mai riuscita a diventare come quelle amiche ordinate che tengono le borse nei sacchetti di tela e se domani vanno in bancarotta possono rivenderle: chi mai si comprerà una Birkin con la tasca interna deformata dalle cipolle squagliate? Finché, nell’inverno 2023, il New York Times ha soccorso noialtre – noialtre che lasciamo la spesa non disfatta nell’ingresso, noialtre con le Birkin usate e non tenute bene – scrivendo che i personaggi dei reality che hanno armadi pieni di Birkin sono volgari, bisogna averne una e non in uno stato impeccabile. Candice Bergen ci disegna sopra, alla pelle della Birkin, leggiamo noialtre mortali, e se quel mostro di bellezza e sciccheria che è la Bergen scarabocchia la Birkin con l’uniposca allora le mie cipolle hanno nuova dignità. Le imperfezioni, giurano gli intervistati dal NYT (la cui giornalista, inspiegabilmente, non mi ha domandato notizie della rete di cipolle), danno alla borsa un carattere e una storia. Le Birkin come gli uomini fighi: da sfasciati migliorano. Una borsa che è praticamente Marlon Brando.

Ma torniamo ai libri, oggetti di scena preferiti dalle non lettrici. Gli uomini, oltre a potersi sfasciare senza che le regole dell’attrazione ne risentano, non hanno neanche bisogno di dimostrare che benché fighi sono di buone letture. Ho invece, in una cartella riservata di istantanee dello schermo, decine di bellezze femminili che, smaniose di essere notate per la loro istruzione, s’instagrammano con Kant e con Neruda, con Fromm e con Carrère. Il bilanciamento è un lavoro di precisione: se t’instagrammi in una piscina a scrocco con in mano un Proust non d’ultima generazione, ma nell’edizione Einaudi con la righina rossa, sembrerai di letture antiche e quindi anche di soldi antichi, mica una parvenue che tagga l’albergo per non pagare il conto.

Negli anni Ottanta si diceva che Il nome della rosa fosse il libro più comprato e meno letto d’Italia, che la me piccina non capiva essere un complimento nonché il sogno di chiunque incassi diritti d’autore dalle vendite d’un libro: poteva anche non importartene nulla del giallo di Eco, ma dovevi averlo sul tavolo del salotto. All’epoca non mi rendevo conto di che epoca semplice stessimo vivendo: gli oggetti di scena erano di facile reperibilità. Ricordo che mia madre li aveva tutti: Roland Barthes, Milan Kundera, la Fallaci. Tutta la biblioteca che serviva per sembrare una persona d’un certo livello, negli anni in cui la notavano i visitatori di casa tua e non gli sconosciuti che ti cuoricinano, era fatta di libri che trovavi sul banco delle novità in libreria. Adesso, gente che ha tavoli prenotati in ristoranti stellati è disposta a scambiare i sei mesi in lista d’attesa per mangiare da Bottura con una copia stampata nel 1963 di All’ombra delle fanciulle in fiore, che diversamente da quella nuova – burina come una Birkin d’una Kardashian – permetta di sospirare “Lo sto rileggendo”.

Nessuno è abbastanza spregiudicato da andare a mangiare in un ristorante stellato da solo, ed è un peccato: l’uovo di Cracco verrebbe un amore fotografato di fianco a un Super-Eliogabalo. Certo, l’edizione Adelphi è per sua natura un notevole oggetto di scena (Adelphi non ha subìto, nella sciccheria percepita, il declino di Hermès), ma vuoi mettere avere il Super-Eliogabalo di quando Feltrinelli sapeva fare le copertine, con quel fucsia che sembra un abito d’alta moda di Valentino: col giallo dell’uovo di Cracco farebbe l’invidia d’ogni Instagram. Ma niente, un commensale pare oggetto di scena irrinunciabile, la gente si complessa a cenare da sola, e allora tutti i volumi d’epoca finiscono per accontentarsi di venire immortalati con un cappuccino.

Ogni febbraio io ne ordino a domicilio un paio particolarmente schiumosi, e poi procedo a fare cascina di foto. Febbraio è il mese in cui gli Adelphi sono in saldo: ogni Goffredo Parise scontato del venti per cento ha il suo turno fotografico con quello stesso cappuccino, e io accumulo foto con cui rappresentarmi come elegante e di buone letture per i mesi successivi.

Una sola cosa non ho ancora scoperto: chi siano i consulenti per l’esposizione degli oggetti culturali. Sono certa che esistano. Esistono gli interior designer, giacché non sappiamo più decidere che divano ci piace. Esistono gli stylist, giacché per mettere una giacca e un pantalone addosso a un cantante servono professionisti non solo degli orli ma anche dell’abbinamento tra giacche e pantaloni. Vuoi che non ci sia qualche geniale inventore di lavori fin lì inesistenti che abbia creato il bisogno e quindi il segmento di mercato dello spacciatore di Némirovsky rosa? Mica la ciuccia in cui tanto m’immedesimo ci sarà arrivata da sola, orsù.

Vi dirò di più: secondo me esistono anche i disordinatori di biblioteche. Quelli che fanno sembrare lo sfondo del tuo collegamento vivo e consultato e coi Proust in rilettura invece che ancora incellophanati. Più ancora delle foto di quelli che, durante la pandemia, si collegavano coi programmi televisivi con la copertina del loro ultimo tomo bella frontale in modo che potessimo tutti vedere il titolo e sapere cosa chiedere in libreria, ci siamo tutti scambiati sghignazzando le foto di qualcuno che si collegava davanti a una parete di Meridiani. Tenere i Meridiani tutti insieme: ecco cosa fa di te una Kardashian media riflessiva. Una condanna dalla quale può salvarti solo un professionista il cui mansionario includa ciò che ai più fortunati di noi viene naturale: l’entropia. La dieta Dukan che affianca Balzac. L’ultimo Vespa di fianco a Manganelli. Il (finto) disinteresse per gli accostamenti che farà di te, presso i maggiormente impressionabili, una personcina non solo istruita ma addirittura colta.

Se siete ingenui crederete che quello della Birkin e quello di Proust siano universi separati, ma la pornografia degli oggetti d’epoca che fanno allo stesso tempo engagé ed elegante attraversa i settori, ed è la ragione del successo di Mad Men o della Fondazione Prada: le pettinature delle segretarie dei pubblicitari ci dicevano che eravamo gente d’un certo spessore che conosceva il passato; il juke-box nel bar di Miuccia ci rende gente abbastanza sofisticata da preferire i vinili a Spotify (ormai ci vuole veramente pochissimo, per percepirsi sofisticati). Ho un’amica nelle cui foto spunta sempre un angolo d’una qualche de Beauvoir in edizione d’epoca. Ella giudica dalle posate la gente le cui case frequenta. Tutti i tentativi di design le fanno qualificare quei conoscenti come degli arricchiti senza gusto, dei tapini che possono comprare oggetti ma non saranno mai quelli giusti, possono comprare Proust usati e fingere di averli ereditati da genitori di buone letture ma chi ci crede. Ogni volta che fa un’osservazione sulle posate di qualche finta bionda mi ricordo della me trentenne che, nella casa al mare di gente che aveva bicchieri tutti diversi tra loro, pensa: si vede che sono intellettuali.

Quand’ero piccola tutte le bambine leggevano Violetta la timida, libro che poi ci è toccato ricomprare perché ancora non sapevamo che importanza avrebbe avuto per l’arredo adulto la nostra biblioteca di formazione, e siamo state quasi tutte così sciocche da buttare i libri d’infanzia nei primi traslochi (l’editore, che ha capito perfettamente lo spirito del tempo, non ha mai cambiato copertina al libro che vogliamo ricomprare tutte quante uguale identico a quello leggendo il quale siamo cresciute). Violetta Mansueti, la protagonista, s’inibisce molto quando vede che a casa della bambina ricca ci sono le rose. A casa nostra, sospira, solo margherite, che costan poco e puzzan molto. Le margherite di casa Mansueti sono le forchette inadeguate, sono le edizioni recenti dei classici della letteratura, sono le Birkin troppo nuove. Ogni epoca ha i suoi oggetti di scena, e la povera Meg March (la noiosissima sorella maggiore di Piccole donne, altro libro con cui siamo cresciute noialtre del Novecento) tiene in mano un guanto per tutt’una festa: non può indossarlo perché ha una bruciatura, e se gli altri se ne accorgessero capirebbero che è povera. Se Meg March fosse cresciuta negli anni del grunge, o anche in quelli dell’imperfezione estetica resa rivendicazione instagrammatica, non avremmo avuto il trauma da accessorio non all’altezza, e l’autrice avrebbe dovuto complessarla in qualche altro modo.

Dunque qualche settimana fa m’ingegno a preparare lo sfondo di quest’intervista. Mi hanno montato delle mensole sopra al divano, abbastanza più su da non sbatterci la testa quando ti siedi, ma non così in alto da non rientrare nell’inquadratura, se metto due cuscini sotto alle mie grosse chiappe e alzo un po’ il computer che mi riprenderà. Preparo quindi accuratamente i libri da mettere su quegli scaffali, quelli che dallo studio vedranno, quelli che il pubblico rimirerà per verificare ch’io non sia nazista e constatando invece che ho proprio un gusto impeccabile. Uh, guarda, Arbasino e Simenon, Stendhal e la Duras, pioggia e Francia, quanto buon gusto, quanta cultura, pensavamo fosse solo una tettona e invece è proprio molto preparata, l’abbiamo sempre sottovalutata. Ho preparato tutto il set come certe attrici seminude preparano la scena da instagrammare, un letto sfatto che fa immaginare notti bollenti, e lì in mezzo buttato, dove dovrebbe a rigore esserci un preservativo usato, un Flaubert ciancicato.

E’ tutto perfetto, mi accomodo, provo l’inquadratura dalla telecamera del computer, s’intravedono le edizioni giuste ma non si vedono così tanto da farmi sembrare un’esibizionista, da far pensare ai miei interlocutori che sia proprio da finale di carriera accompagnarsi a gente di cultura, ma neanche da far ricordare i miei trascorsi da ciuccia ripetente, è un bilanciamento invidiabile, dovrei farlo di lavoro, è evidentemente il mio vero talento, arredare sfondi.

Mi tolgo gli occhiali prima del collegamento, vedo una nebulosa, ma ho provato; basta non muovere il computer, so che cosa c’è di inquadrato, posso darmi un tono, sono sicura che in studio stanno pensando la stessa cosa che mi ha detto il ciappinaro, come si chiamano a Bologna quelli che attaccano le mensole: quanti libri, li ha letti tutti? Poi il collegamento finisce, mi strucco, quasi mi dimentico, finché squilla il telefono e qualcuno mi chiede come mai quell’inquadratura triste. Ma come triste, ma cosa dici, mica c’era la parete di Meridiani, era tutto accuratissimo, forse non ci vedi bene. Vado a guardare il programma, vedi che comodità avere tutte le trasmissioni del mondo su richiesta, posso subito verificare la fotogenia dei miei Adelphi – clicco play, e mi accoglie l’immagine di me che dico cose a caso sotto un irriconoscibile oggetto bianco, del quale si vede solo la parte inferiore e non i libri accuratamente selezionati per starci sopra, un oggetto bianco che nell’inquadratura di cui ero così compiaciuta sembra, dio di tutte le generazioni di Ciccone, il cassone dell’aria condizionata.

Guia Soncini (Bologna, 1972), scrittrice. Ha pubblicato, tra gli altri, «I mariti delle altre» (Rizzoli, 2013, Premio Forte dei Marmi), «L’era della suscettibilità» (Marsilio, 2021) e «L’economia del sé» (Marsilio, 2022). Il suo ultimo libro è «Questi sono i 50» (Marsilio, 2023).