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Arte, stronzismi e soldi. L’intervista cinica

Cristina Fogazzi non è mai stata a New York ma vende milioni di creme, allestisce l’albero di Natale in Duomo e ha appena pubblicato il suo Grand Tour. “Che cos’è la bellezza? Guia, è la nostra amicizia”. Da Pittarello a Kiefer, due ego molto ben idratati con la perversione del fax
di Guia Soncini
illustrazioni di Makkox

Alla Biennale non c’è niente di instagrammabile”. Questa intervista – che non è un’intervista, ma poi ci arriviamo – comincia molto prima di decidere di farla, prima che Cristina Fogazzi finisca di scrivere il suo libro, prima ch’io immagini di dover chiacchierare per ore dell’argomento che meno m’interessa al mondo: l’arte contemporanea. Comincia all’inizio di settembre al Moco, un museo di Amsterdam dove i turisti si filano solo le opere instagrammabili. Lo specchio a forma di copertina di Time sulla persona dell’anno, la stanza a caleidoscopio, i pallini (“certo, Hirst”, commenta Cristina quando glielo riferisco, con la sicumera con cui diagnostica la cellulite sui culi delle sue follower). Nel giardino c’è persino un letto con dei fenicotteri (Paolo Sorrentino si sarà dato all’arte contemporanea?) con tanto di cartello che invita a stendersi e fotografarsi. Poiché Cristina e io abbiamo in comune il voler ognuna parlare solo di sé, la chiamo per dirle che avevo ragione, in quel libro sul nostro specchiarci nella fotocamera del telefono: anche i musei servono ormai solo a questo. (Lo sa: era stata lei a suggerirmi la fioritura delle lenticchie di Norcia come turismo instagrammabile, e ora ci sarà almeno una lettrice in Italia che acquista il suo libro e aveva acquistato anche il mio, e pensa sia lei ad aver copiato me, e invece). Anzi: questa intervista – che non è un’intervista e neppure dovrebbe esistere: anche a questo poi arriviamo – comincia un’ora prima, mentre andando al museo vedo in una vetrina l’unica cosa che m’interessi dell’arte contemporanea: una scritta al neon. Le comprerei tutte, ma poi non lo faccio: dalle scuole medie in cui venivi irriso se qualcuno pensava che le tue Timberland fossero un’imitazione, m’è rimasto un complesso che m’impedisce di mettermi in casa qualunque scritta al neon non sia stata concepita da Tracey Emin, terrorizzata dell’effetto “ah, non potevi permetterti l’originale”. Quella in questa vetrina dice: l’arte contemporanea è affare di artisti che non sanno disegnare e compratori che amano farsi truffare. E’ lì che penso a Cristina, una delle pochissime arricchite ch’io conosca, e l’unica che i soldi li investa in roba tipo una nuvola dentro una teca, opera di tal Leandro Erlich – che ho dovuto controllare come si scrivesse, come accadrà molte volte nel corso di questa non-intervista, durante la quale Cristina mi spiegherà chi è Olafur Eliasson e io le spiegherò chi è Camille Paglia (ognuna ascolta solo sé stessa, nessuna delle due riterrà le informazioni fornite dall’altra: siamo così, riteniamo solo i liquidi).

Cristina Fogazzi, nota a quelle che le mandano le foto del culo a scopo di diagnosi della cellulite come L’estetista cinica, è una mia amica, il che non è la premessa per una vera intervista. È anche una che, quando le ricordo che l’unica altra amica che ho intervistato per la Review è Natalia Aspesi, dice “Il punto più alto della mia carriera: possiamo scriverlo?”, e un po’ scherza ma molto no. Soprattutto, è un’ex ragazza di Noboli, frazione di Sarezzo, Val Trompia, “brutta che fa male agli occhi”. Non è mai stata a New York giacché ha fatto i soldi nel momento sbagliato: da giovane era squattrinata e con gli attacchi di panico; quando finalmente poteva viaggiare, prima c’è stata la pandemia, e ora un aereo privato può distruggerti la reputazione social. Le piace raccontare che non molti anni fa dormiva sul divano del suo centro estetico perché non poteva permettersi un affitto milanese (spero che non sia vero: sarebbe una formidabile commedia all’italiana, l’imprenditrice che s’inventa una giovinezza squattrinata per accattivarsi le simpatie del pubblico); adesso ha l’azienda che sponsorizza l’albero di Natale in Duomo, massimo traguardo per una che venga dalla provincia lombarda (ma forse pure per una cresciuta dentro la cerchia dei bastioni): è l’unica ch’io conosca che ha preso i social e, invece di usarli per metterci a parte delle proprie dolenze, li ha usati per costruirsi un ascensore sociale. Dopo qualche anno in cui ha venduto decine di milioni di creme ogni anno, ha deciso che le sue divertite dolenze poteva metterle in un libro, e in questo libro fare anche una visita guidata ai luoghi d’arte italiani.

Il mio Grand Tour Storie di luoghi, di arte e di ansia (Rizzoli) contiene luoghi e opere più o meno instagrammabili, ma soprattutto contiene molta vita di Cristina, del che mi stizzisco assai. Sul mio computer c’è un file di appunti di conversazioni con lei, si chiama “Cristo si è fermato a Noboli”. La sua biografia dovevo scriverla io. Oltretutto mi ha sempre mentito: nei miei appunti c’è scritto che voleva essere Adriano Olivetti, invece nel Grand Tour c’è scritto che voleva essere Peggy Guggenheim.

“Potendo scegliere, se mi dici: domattina schiocchi le dita, Peggy Guggenheim. Una Peggy Guggenheim prestata al lavoro. Peggy Guggenheim era nata nel privilegio, Adriano Olivetti s’era fatto un bucio di culo: vuoi mettere? Sai quando ti dicono quella roba che il dolore è utile? Dovendo scegliere, preferisco fare un esperimento per vedere se col privilegio divento cretina. Brutto, il privilegio, ma ci vivrei”. I soldi sono il tema preferito di Cristina, e anche il mio. Divergiamo sul secondo tema preferito: il suo sono gli ex fidanzati, non necessariamente suoi. Nel libro c’è anche la vita sentimentale dei suoi genitori, il padre che lascia la madre per una bionda, le telefonate anonime “puttana”. Però leggendo non capisco se fossero fatte dalla madre o dalla piccola emissaria Cristina. In genere dalla madre, che però una volta – con prevedibile deriva della trama in ricatto emotivo – delegò la piccina. “Mio padre per la prima volta in quell’occasione mi diede un ceffone. La Sip non aveva una gran qualità audio, ma la voce di una dodicenne si riconosceva. Era un uomo dilaniato tra tre donne, delle quali io ero quella che rompeva meno i coglioni. Li definirei gli anni di piombo della mia vita”. I genitori sono ancora vivi. Il padre le commenta tutte le storie di Instagram. La madre vive vicino a Cristina, con le badanti pagate da Cristina, e una passione senile per Uno, nessuno e centomila. “Mia mamma, che ha la quinta elementare, intorno ai 75 anni decide di leggere. Ha la quinta elementare e fin lì leggeva le novelle di Confidenze e Intimità. Le porto Calvino, e poi le porto Pirandello. E lei si innamora di Pirandello. A un certo punto, 75 anni e un leggero accenno di demenza senile, leggeva un libro ogni tre giorni. Massimo le ha portato Wilbur Smith: piaciuto no. L’amica geniale, così per un mese e mezzo ce la teniamo buona: piaciuto no. Mi era diventata sommelier di letteratura. Poi la demenza senile è andata avanti, e adesso le propiniamo delle schifezze invereconde”. Massimo è il marito, il gancio di Cristina alla normalità, quello che fa un lavoro qualunque, non ha folle di follower, non ti costringe a fermarti cinquanta volte tra la non intervista e il ristorante perché sconosciute si avvicinano squittendo: “Sono una fagiana, possiamo farci una foto?” (“fagiane” è il nome che Cristina ha dato alla propria clientela; le sventurate se ne sono lietamente appropriate).

“Almeno allora ancora dipingevano, non facevano le installazioni che ci capiti dentro e non capisci niente”. Quando le dico che, se un Mondrian sta appeso storto per venticinque anni senza che nessuno se ne accorga, allora ho ragione io quando dico che l’arte contemporanea è una truffa, Cristina non fa un plissé: “Ma il punto suo mica era fare una cosa che stesse dritta”. Poi procede a spiegarmi il quadrato nero di Malevicˇ, la stanza con dentro la nebbia o la fontana che si accende e si spegne di Eliasson (“un po’ borderline con l’Egitto di Gardaland”), e Dubuffet, “quello dell’art brut, fa questi quadri che sembrano degli scarabocchi che si disegnano mentre stai al telefono. Aveva fatto la scuola d’arte, e quando saltano fuori dei quadri con dei suoi velieri dipinti perfettamente chiede di non dirlo: non è scrivere in un italiano perfetto che fa di te un grande scrittore”. Però è saper fare con l’italiano cose inimmaginabili che fa di te Gadda o Arbasino: se guardo Il ratto di Proserpina, so che Bernini sapeva fare delle cose col marmo che altri no; se guardo lo squalo, so che Damien Hirst sa dare a uno staff molto efficiente ordini su come impagliare uno squalo. “Adesso se programmi una macchina a controllo numerico Il ratto di Proserpina te lo fa uguale: per rappresentare questi tempi sghembi qual è lo strumento? Se l’arte è un po’ la voce del tempo, che senso avrebbe adesso una natura morta di Caravaggio? E che senso avrebbe un ritratto perfetto: c’è la fotografia”. Quindi devo trovare bello il ritratto bruttissimo di Michelle Obama che tutti dicono capolavoro. Ma con che criteri? “Questo è un altro tema ancora, ‘tutti dicono capolavoro’. Chi decide che un cesso ribaltato è un’opera d’arte e il tuo quadro no? Il sistema dell’arte, mancando un criterio oggettivo: che Michelangelo fosse più bravo degli altri era oggettivo, in questi tempi maldestri serve il sistema dell’arte che dica che quello è l’Egitto di Gardaland e quell’altro è ‘genio!’”. Quindi è come nella moda, se questi pantaloni sono davvero sporchi o à la page lo determina il fatto che li abbia fatti sfilare o meno Balenciaga. “E infatti adesso LVMH ha comprato le gallerie Gagosian. Per fortuna il sistema dell’arte è talmente stronzo che ritiene persino me una dissidente apocrifa, e nell’ultima Biennale non c’è niente di instagrammabile: perché col contemporaneo metti du’ led, uno specchio e du’ scritte, e hai fatto l’opera instagrammabile. Per fortuna c’è ancora un collo di bottiglia. Altrimenti, come i pezzi musicali che sono sempre più brevi e hanno il ritornello tiktokabile, anche l’arte rischia di scivolare da quella parte. Ringraziamo i quattro matusa maschilisti del sistema dell’arte che ancora vigilano”. Ma non abbastanza da pretendere che gli artisti sappiano disegnare. “Però io alla Cappella Sistina riconosco una perizia tecnica ma non mi fa venire da piangere; il Kiefer che c’è a palazzo Ducale sì: è di una potenza, mi fa venire un’angoscia postatomica”. Sei proprio un cheap date. Oddio, i lettori capiranno cheap date, e LVMH, e Gagosian? “Sì: sei sulla Review del Foglio, mica sul Paninaro. E’ o non è la cosa più stronza che c’è in Italia in questo momento?”. Spero proprio di sì. “Ci scrivi tu, già questo dà un notevole livello di stronzismo”.

“I piccioni che cagano sui monumenti: sono essi attivisti?”. Siamo inevitabilmente finite a parlare delle giovani dementi che lanciano zuppa sui quadri nei musei, ostentando preoccupazione per l’ambiente e ottenendone un ritorno d’immagine quasi pari a quello di Chiara Ferragni quando s’instagramma di fronte a un Botticelli. Cristina dice che le sfugge il senso (“C’è il cambiamento climatico? Andiamo a versare una vellutata di zucca su Van Gogh! Alle armi!”), e che “Banksy, che disegna su un palazzo distrutto in Ucraina e ora tutti lo vedranno, invece di vedere Zelensky in maglietta, o che compra una nave per salvare i profughi, non sarà forse un filino più attivista di loro?”; ma prende in considerazione il ritorno pubblicitario: “Al Pepoli di Trapani un lancio di zuppa farebbe bene” (il Pepoli è uno dei musei poco noti che racconta nel libro: apprezzo la bravura nel tirare in ballo il tomo, sembra Bruno Vespa quando va ospite nei talk-show e ogni due frasi dice “come scrivo nel mio libro”). Poi ipotizza che non lancino zuppe sui Van Gogh perché quello dipingeva la natura, ma perché statisticamente è facile che a cinquecento metri da noi in questo momento ci sia un suo quadro in mostra: “Gli impressionisti sono la cotoletta dell’arte”. Visto che siamo qui, affacciamoci sul tema influencer-nei-musei: non sono certo il male come sostengono i moralisti che han chiuso i bar, ma servono a qualcosa? “Se la gente paga il biglietto degli Uffizi, biglietto col quale il museo si sostenta, e poi va dentro e non capisce niente, per me va bene uguale”. Quindi c’interessano i bilanci dei musei, non che la plebe s’acculturi. “Entrare a instagrammarti agli Uffizi secondo me ti fa meglio che farlo in un bar di moda, ma sì: i musei hanno bisogno di entrate per sostentarsi. Marrakech è diventata Marrakech da quando gli influencer vanno a farsi le foto a casa di Yves SaintLaurent. E da quando Ryan Air ha il volo da Bergamo: Instagram e Ryan Air sono quel che serve per rendere popolare un posto. Se la Ferragni va a farsi le foto coi bronzi di Riace, ben venga. Vedere il bello fa bene. La val Trompia, dove son cresciuta io, è brutta che fa male agli occhi. Adesso nessuno resta in un posto tutta la vita, ma mia nonna materna è morta senza aver mai visto il mare, e senza aver mai visto Roma. Vedere la luce di Roma fa bene. Poi una ci vive e si rompe i coglioni per il traffico, ma pensa uno che cresce a Noboli. Pensa non aver mai visto il mare”. Finiamo a parlare del padre che le leggeva le storie della mitologia greca, e Cristina fa una cosa che non avevo mai visto succedere davvero in una conversazione, ma che succede moltissimo nelle interviste scritte male: si fa la domanda da sola. “Mio padre era un grande lettore? No, ma era velleitario, e voleva una figlia borghese. C’è tutta una mitologia secondo cui mia nonna paterna non voleva che lui stesse con mia madre perché lui aveva il diploma di ragioneria e lei aveva solo la quinta elementare. E l’amante era maestra, e bionda”. Gliela dico, questa cosa delle interviste brutte, e mi dice che a lei chiedono sempre “che cos’è la bellezza?”. E tu cosa rispondi? “Ma che ne so, chiedetelo a un filosofo. Tu lo sai che cos’è la bellezza?”. Simmetria e proporzioni. “Ma non puoi dirlo, sei matta? Poi stai dicendo che è bella solo chi è proporzionata. Devi dire una stronzata. Se me lo chiedessi tu, direi: Guia, la bellezza è la nostra amicizia”. Stiamo bevendo uno spritz. Sputo il sorso. (Il mix di sentimentalismo e allegria è la materia fondativa della repubblica fogazziana: per truffare la malinconia, come quelli di Banana Republic cui piangendo veniva da ridere).

“Chi ti viene in mente, di artiste? Tamara de Lempicka, che però te la ricordi per com’era vestita, Frida Kahlo perché era matta, Artemisia Gentileschi per lo stupro. Leonora Carrington? Non finisci le dita di una mano”. Non si diventa il marchio di cosmesi più amato dall’Instagram senza fare furbe concessioni allo spirito del tempo, e nell’autobiografia sentimentalartistica della Fogazzi la pagina che mi fa più alzare gli occhi al cielo è quella in cui dice che l’arte ha messo da parte le donne. Le racconto la tesi di Camille Paglia secondo cui il genio ha a che vedere con la capacità di ossessionarsi, che nel cervello femminile è meno presente. Dice Paglia che la ragione per cui non c’è mai stata una Mozart è la stessa per cui non c’è mai stata una Jack la Squartatrice. “Mi piace questa interpretazione e, se non ci fossero i quadri, io direi: non li hanno fatti perché hanno fatto i figli. I figli sono un tema. Perché le donne è una vita che cucinano e i più grandi chef sono uomini? Perché quella dei ristoranti è una vita di merda e finisci all’una di notte. Perché non ci sono tanti chirurghi donna? Ma a Venezia c’è questa mostra delle surrealiste, e io mi sono sentita un’ignorante di merda. I quadri ci sono e sono di gran livello, e io non li conoscevo perché non stanno nei libri di storia dell’arte che ho studiato”. Sta per lanciarsi in una dissertazione su Remedios Varo (è una surrealista spagnola, non un prodotto per le smagliature), ma io devio su un’altra questione di spirito del tempo. La tirata sul maschilismo del mondo dell’arte sta nel capitolo sul Giardino dei tarocchi di Capalbio, che l’anno scorso fu oggetto di uno di quei deliri che per quarantott’ore catalizzano l’attenzione dell’Instagram. Una influencer in sedia a rotelle invitò al boicottaggio perché l’opera non era accessibile. Al Moco di Amsterdam non c’è l’ascensore: i disabili non possono instagrammarsi nella stanza a righe al secondo piano, e allora – per non sembrare insensibile – il museo li fa entrare gratis al piano terra. Il tema, nel 2022, è sentito; negli anni Ottanta, quando Niki de Saint Phalle costruì la sua opera, molto meno.

“Di lei mi fa impazzire che ha speso un sacco di soldi per costruire questa cosa pazza, tipo quattro miliardi di lire, e poi ha lasciato scritto che nessuno poteva mettere una piastrellina diversa da quelle scelte da lei: voi non toccate un cazzo, che è una roba che le donne non dicono quasi mai”. Mentre dice “voi non toccate un cazzo”, Cristina allunga un braccio con fare autoritario e gesticola con quelle terrificanti unghie rosa a punta. Lo farà ogni volta in cui, nei prossimi minuti, dirà “voi non toccate un cazzo”, una frase che non esiste separatamente dal gesto. Dico che certo, Niki de Saint Phalle non era di quelle che vanno a lamentarsi nei gruppi Facebook perché il marito ha spostato i mestoli da un cassetto all’altro della cucina senza avvisare. “Tra l’altro il marito era Tinguely, quello dei cucchiai allungati. Ma insomma, se io fossi Niki de Saint Phalle e tu mi costruisci le passerelle per i disabili, magari brutte, io vengo a perseguitarti di notte. Certo che è giusto che adesso sia un tema sensibile ed è un peccato che a quei tempi non lo fosse, ma purtroppo ha anche detto: voi non toccate un cazzo”. Questo gesto ti piace molto. “Io me la vedo, lei, col capello riccio e col ditino: voi non toccate un cazzo. Pensa costruire una specie di luna park di ceramica a Capalbio, quando Capalbio era in mezzo al nulla, e dentro ci ha pure abitato, se ci entri c’è la presa della Sip dove attaccava il telefono: lì percepisci l’ossessione che dicevi tu prima”.

A questo punto Cristina dice per la ventisettesima volta (ventisei delle quali ho omesso nella trascrizione) “controintervista”, e si mette a raccontare di quando mi leggeva (è il suo modo di dirmi che preferiva quando scrivevo sentimentalismi allegri da trentenne disperata). “Tu eri a New York, tu intervistavi gente fighissima, tu parlavi di Prada e io compravo Pittarello: avevo una cartelletta coi ritagli. Eri quello che io avrei voluto essere”. Sì, ma era perché i giornali avevano soldi: adesso, come dice la Aspesi, a New York ti ci mandano a piedi. “Non c’era Google. Non potevo sapere che faccia avevi. Questa cosa non succede più. C’era a volte il ritrattino di fianco al nome ma da quelle foto lì non si capiva mai niente”. Una volta a Venezia, col fuso essendo appunto appena tornata da New York, e un’infiammazione a un dente, mi scattarono una foto per la rubrica di un settimanale. Sembravo una rana. Quando uscì mi scrisse il fidanzatino delle medie. “Per dirti madonna che crollo che hai avuto?”. Peggio: per dirmi “ho letto un tuo articolo con una foto proprio simpatica”, gettandomi nella disperazione che può attanagliare una trentenne per la quale il messaggio d’un ex diventa il fulcro di mesi di lagne. Al cui proposito: nel tuo libro dici che non torneresti mai ai sedici anni – ma pure i trenta, amica mia. “Fra sedici e trenta, trenta. Ma tra adesso e trenta, non torno ai trenta manco morta. Però io sono un caso un po’ particolare: la mia vita è talmente cambiata negli ultimi cinque anni”. Sei una di quelle che l’hanno sempre saputo, che sarebbero arrivate? “Ma sei matta? Non diciamo cazzate. Però una volta una che mi leggeva la mano m’ha detto che dopo i quaranta sarebbe stato più facile. Ma non lo sapeva neanche lei: ha detto una cosa a caso e le è andata a culo. Controintervista: noi siamo la prova che non è vero che non bisogna mai conoscere i propri idoli, io avevo i tuoi ritagli e non mi hai deluso”. Ti ho mai raccontato di quella volta che telefonai ad Arbasino e lui mi pescinfacciò e io ero così trentenne scema che gli mandai un fax risentito? “Tu a quel tempo eri me”. Ora vivo nel terrore che qualcuno lo trovi nei suoi archivi. “Io avrei fatto uguale. Quante volte mi hai detto spegni il telefono e non rispondere alla polemica, stai ferma e non fare un cazzo? Io sono la te dei trent’anni: io faxo ancora”.

Guia Soncini (Bologna, 1972), scrittrice. Ha pubblicato, tra gli altri, «I mariti delle altre» (Rizzoli, 2013, Premio Forte dei Marmi), «L’era della suscettibilità» (Marsilio, 2021) e «L’economia del sé» (Marsilio, 2022). Il suo ultimo libro è «Questi sono i 50» (Marsilio, 2023).