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Attenti al marcio, allo spreco e al tanga

Sveglia alle cinque: lavare, sbucciare, spremere i pomodori. Riempi le bottiglie di sugo. Bugie su assorbenti e verginità, desiderio di spiaggia, paura della carestia. Tutta la famiglia a far provviste per l’inverno, specialmente le figlie femmine: l’orto vuole l’uomo morto. E la donna?

Quel proverbio non l’ho mai sopportato. L’orto vuole l’uomo morto. Ma perché, la donna no? E la ragazza? Mi sentivo proprio morire quando, nelle sere d’agosto, i miei genitori dicevano: domani facciamo le bottiglie. Avevo appuntamento con alcune compagne di scuola, il giorno dopo. Saremmo andate al mare con l’autobus che passava lungo la riviera e si fermava ogni due o tre stabilimenti. Noi eravamo dirette alla spiaggia libera, invece, con un asciugamano nella borsa e poco più. Prendevamo il sole selvagge. Ed ecco che il giorno prima l’orto decideva di scaricare una tanga. Io volevo indossare il tanga sotto i vestiti e mi ritrovavo alle prese con la sua versione rurale, di genere femminile. S’intende per tanga, s. f. nel dialetto delle mie parti, una gran quantità di pomodori – tipo un quintale – che maturano insieme e vanno urgentemente trasformati in salsa. Tutta la famiglia era convocata, mobilitate specialmente le figlie femmine che dovevano non solo aiutare ma anche imparare quell’antica arte e tramandarla alle generazioni future.

Mia madre infatti mi guardava dritta e: capito? Domani facciamo le bottiglie.

A diciassette anni ero una femminista inconsapevole. Lottavo contro un patriarcato ancestrale, roccioso, impenetrabile. Dovevo conquistarmi ogni piccola cosa, persino uscire con le amiche (con un ragazzo sempre di nascosto). Per prendermi le minime libertà, raccontavo una quantità di bugie a mio padre, solo qualcuna in meno a mia madre. Lei era nella più scomoda delle posizioni, tra lui e me.

Ci provavo, le dicevo che ero indisposta. La donna mestruata era impura e certi lavori non poteva farli, era l’unica scappatoia possibile. Le bottiglie sarebbero scoppiate bollendo a bagnomaria, oppure la passata si sarebbe silenziosamente guastata nei mesi successivi e solo al momento di aprirle il tappo sarebbe saltato come quello dello spumante. Mi giocavo tutte le carte, se mi conveniva fingevo di credere alle peggiori superstizioni.

Se sei indisposta per le bottiglie, sei indisposta pure per la spiaggia, ribatteva mia madre. Mica era facile fregarla. Le bastava annusare l’aria della stanza per scoprire se le mestruazioni, per quanto irregolari, mi fossero arrivate proprio in quel momento. Nel caso, non mi avrebbe certo mandata al mare con gli assorbenti. Ignorava che già usavo i tamponi mini e avevo perso la verginità.

Insomma, m’incastravano. Sveglia alle cinque, lavare i pomodori e metterli sottosopra su una lunga tavola. Procedere a spellare, tagliarli in due metà e spremere l’acqua in eccesso e i semi. Attenti se c’è del marcio, attenti allo scarto, non sprecate la polpa, non sprecate la grazia di Dio.

A quel punto si svegliavano pure le mosche e cominciavano ad assalirci. Anche per le mie amiche arrivava il momento di alzarsi. Mentre nell’apposita cucinetta al piano terra imboccavamo con i pelati la macchinetta che li passava – la stessa che in inverno aveva ridotto il maiale in carne trita per le salsicce, loro si ritrovavano sul viale, alla fermata dell’autobus. Io ero già stanca. Se in quel momento padre o madre mi avessero detto: basta così, vai a divertirti, adesso, be’, me ne sarei tornata in camera e avrei ripreso sonno. Ma non me lo dicevano.

Si cominciava a imbottigliare discutendo quanto si dovessero riempire i vuoti a perdere delle birre. Fino al collo, certo, ma fino al collo dove? Pretendevano una precisione millimetrica, non bisognava superare una tacca immaginaria evidente solo ai loro occhi, ma neanche starci al di sotto, era spazio sprecato. Allora era tutto un: troppo, troppo poco, metti un po’ di più, levaci una goccia. A tappare no, di solito toccava a uno zio, che era un lavoro meccanico, pertanto da maschi. Era abbastanza fallico, in effetti, l’attrezzo che applicava i tappi a corona con una serie di clac.

Quante ne abbiamo fatte, chiedeva qualcuno alla fine. Ottantacinque, per esempio. Scattavano i confronti con gli anni precedenti – l’ultima volta erano sempre di più, c’è la mala stagione, viene la carestia. Sono cresciuta con l’angoscia di quelle carestie sempre annunciate e mai viste. Eravamo poveri, ma avevamo da mangiare.

Confronti anche con i vicini che millantavano centinaia di bottiglie, ma stai a vedere che erano quelle da un quarto. E poi loro non li spremevano bene i pomodori e quindi non valeva, se le bottigliette contenevano più acqua che polpa.

Dopo mezzo secolo è cambiato tutto e niente. Mia madre non partecipa più, la sua badante sì. Per imperscrutabili e mai spiegati motivi continuiamo ad alzarci alle cinque, quando arriva una tanga. Con mio padre sto sempre in lite per l’orto. Lo fa esagerato per i pochi che siamo. Mio figlio preferisce mangiare bianco, io e il mio compagno troviamo comodi e gustosi i pomodorini.

Per gli anziani le bottiglie non bastano mai, ci dev’essere un ampio margine di sicurezza. La carestia è sempre alle porte, anzi di più, dicono, con questo clima impazzito. La siccità crepa la terra, i rovesci sono rari e violenti.

Delle altre conserve poco importa, marmellate e sottaceti si devono fare, ma non ti saziano. La pastasciutta sì, riempie lo stomaco e dà gioia. Può arrivare il più freddo degli inverni, ma se hai legna, farina e bottiglie non hai nulla da temere. Dalle mie parti gli spaghetti dei vecchi nuotano in sughi densi, rappresi. Cercano ancora un antidoto all’incertezza del futuro che di anno in anno si accorcia.

Sono cresciuta con lo spettro della fame in inverno, la stessa degli animali. Allora bisognava mettere il cibo da parte, sotto sale, sottolio, seccato, nei barattoli, nello strutto, nelle bottiglie. Imparare dagli scoiattoli e dalle formiche. E adesso? C’è abbondanza, almeno di cibo, ma io, erede di un mondo che nel corso della mia vita ho visto scomparire, non ho del tutto dimenticato certe paure. Dopo tanto tempo la guerra è così vicina. Guerra uguale fame. Aumentiamo le scorte, accumuliamo. Non si sa mai che ritornino anche qui i giorni bui.

Vado controvoglia la mattina alle cinque. Alla mia età non posso neanche prendere il ciclo a pretesto. A quell’ora mi sveglio, sì, ma per scrivere. Se dico di no mi divora la colpa, è tradimento alle persone e alla terra di cui sono figlia. Se dico di sì è tempo perso, sottratto a ciò che voglio. Si genera una tensione fra me e mio padre, che a volte gli prorompe dalla bocca in forma di bestemmie. Mio padre è ossessionato dal sugo, io dalle parole. Non è detto chi abbia ragione.

Ora che non c’è mia madre, lui mi controlla con occhiate frequenti. Non si fida, teme che abbia altro per la testa, ed è vero. Non ammette suggerimenti, variazioni, proposte, si fa come dice lui e basta. Nella cucinetta al piano terra ciò che ho costruito fuori conta poco. Sono ancora quella che non arriva alla tacca invisibile sul vetro, o la supera di un po’.

È autoritario, non lo sopporto. Di queste bottiglie aprirò per me una minima parte. Non mangio ragù e anche il sugo finto a casa mia lo cuciniamo solo a volte. I pomodorini richiedono poco tempo e possiamo sbizzarrirci con la varietà dei colori e del gusto. Se mi sottopongo al rito delle conserve è per un tributo all’origine che ho sia subìto che rinnegato, in proporzioni che mi è difficile quantificare. Tutto ciò che è fatto in casa è buono: per me è solo un luogo comune. Mangio le pesche sciroppate che mi regalano solo se mi fido di chi ha sterilizzato i vasetti. Resto in questa posizione ambigua, tra legame con il passato e libertà di spendere il tempo in un modo più giusto per me. La cucina mi piace, ma solo quando ho voglia di usare le mani e la testa in quel modo. Altrimenti compro la pizza da asporto, il sushi, ora disponibile anche in paese. Deliveroo non arriva fin qui, ma non ne ho bisogno. Chiamo il ristorante di fiducia e passo a ritirare il piatto pronto, è vicino e non c’è traffico. Se le mie amiche mi propongono una giornata al mare, indosso un costume che non è più il tanga e le raggiungo allo stesso punto d’incontro, al viale. Tanto la conserva per l’inverno ormai basta e avanza. Quelle centinaia di bottiglie sono piene di pomodoro fino alla tacca sul collo, poi un po’ d’aria e le mie contraddizioni.

Donatella Di Pietrantonio (Arsita, 1962), scrittrice e dentista pediatrica. I suoi ultimi romanzi sono “L’arminuta” (Einaudi, 2017, Premio Campiello), da cui è tratto il film di Giuseppe Bonito (2021) e “Borgo Sud” (2020), finalista al Premio Strega 2021. Nel 2022 Einaudi ha pubblicato una nuova edizione del suo primo romanzo, “Mia madre è un fiume”.