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Autore e presentatore: dramma della povertà

Nessuno compra i libri alle presentazioni. Nessuno paga i presentatori. Nessuno legge i libri che presenta. Nessuno smette di presentarli. Soncini, Aspesi, Ceccarelli e tutti gli anonimi egotici asini poetici cialtroni che si infilano una camicia pulita per parlare del libro di un altro. Gratis
di Guia Soncini
illustrazioni di Makkox

In principio fu Sandro Veronesi. Quand’ero giovane e impressionabile, Sandro Veronesi disse una frase che forse non ha mai detto, forse gliel’ho proiettata addosso io, forse è un falso ricordo di  quelli che alcuni pagano anni di psicanalisi per costruirsi. E io invece ho fatto tutto da sola, ripetendo la frase chissà se sua tante di quelle volte a editori rassegnati, uffici stampa smaniosi, festival senza  budget, tante di quelle volte che ormai per me è vera. La frase diceva che, quando presenti il tuo libro, alla fine della presentazione  nessuno in platea compra mai il tuo libro: a volte comprano quello del tizio che te l’ha presentato.

Il che, vi dirò, mi pare un giusto risarcimento, in un’economia culturale in cui perlopiù presentare un libro altrui è una cosa che non viene considerata degna di cachet, al massimo d’un prosecco sgassato in un bicchiere di plastica. Appena sarò imperatrice, sarà mia cura imporre l’obbligo di retribuzione per coloro cui tocca trovare qualcosa da dire sui libri degli altri (un  lavoro  ben più usurante del portare la pizza), assieme all’obbligo di retribuzione per tutto il tempo perduto in riunioni per progetti che poi non si realizzano mai.

Insomma: la frase di Veronesi (che forse Veronesi non ha mai non solo detto ma neppure pensato) è stata la mia scusa per non presentare quasi mai i miei libri. Il primo, mai. Il secondo, “solo se me lo presenta la Aspesi”. Era esattamente dieci anni fa: ella acconsentì; ma, prima di procedere con la struggente storia della mia presentazione della prima edizione de “I Mariti delle altre”, urge tardiva avvertenza.

Queste pagine contengono molti episodi autobiografici. Come al solito, direte voi. Però da essi, a parte quello di Natalia Aspesi e un paio d’altri, sono stati espunti tutti i nomi. Per quanto inadeguati, asini, esibizionisti, incompetenti, fuori luogo, incapaci di trovarsi il culo con le mani siano stati coloro che ho visto nella vita presentare libri miei o altrui, essi si prestano tuttavia gratuitamente a una cosa che io non farei neanche retribuita: leggere un libro che magari non hanno voglia di leggere, mettersi una camicia pulita, presentarsi nel tal luogo alla tale ora e simulare entusiasmo per un prodotto dal quale non hanno nulla da guadagnare. Sì, la prima cosa – leggere il libro – spesso non la fanno, ma non per questo si meritano di venire sputtanati. L’anonimato mi pare il minimo, per chi non ha la mia scortesia di rispondere “io gratis non ti rispondo neppure al telefono” al tapino ufficio stampa che chiede “scusa, presenteresti il libro x, l’autore ci tiene tanto”.

Dunque è l’inverno 2013, siamo alla Feltrinelli di piazza Piemonte, a Milano,  e  io non so come funzionano le presentazioni (a quelle altrui cerco di andare il meno possibile). Sono convinta – ho già quarant’anni: come faccio a essere così ingenua? Mistero – che esse servano a vendere i libri. Sì, lo so che a quel punto sono vent’anni che cito Veronesi, ma penso che comunque il tentativo sia quello, sebbene fallimentare. Non so che alle presentazioni, se le fai nella tua città, vengono tutti i tuoi amici, così la presentazione non è deserta e tu non ti senti uno sfigato. Quindi, la presentazione è finita, Natalia se n’è andata, io sono seduta senza occhiali al tavolino delle firme, e strizzando la miopia riconosco all’ultimo istante gente che conosco, e la scanso invitandola a far posto ai lettori. Essi – gli amici – non mi dicono: guarda che i lettori non sono pervenuti. E presto restiamo, sul palco col tavolino per le firme, io in mezzo, i miei amici raggruppati a sinistra ad aspettare che io capisca il dato di realtà e mi rassegni a firmare le loro copie, e una signora sulla destra. La signora è una lettrice, la signora mi darà soddisfazione. Le vado incontro pronta a farle una dedica spiritosissima. La signora mi dice: quand’è che fa un altro libro, ché l’argomento di questo non mi appassiona? Quasi svengo, ma la signora non è mica Mohammed Alì che, di fronte a Foreman che vacilla, evita d’infierire con un ulteriore colpo. Mi porge il libro che ha in mano e mi dice: pensavo di comprare questo, che ne pensa? Il libro s’intitola Io vi maledico, in quel momento è in cima alle classifiche di vendita: lui non ha bisogno della copia della signora, io sì, io sì, io sì. Ma l’ha scritto una mia amica, e quindi non posso dire sia maledetta l’autrice che mi toglie un euro di royalties, e soprattutto sia maledetta tu, stronza d’una lettrice. Sorrido, vado verso i miei amici, ordino una bottiglia di vino (siano benedette le librerie con un bar).

La signora non interessata all’adulterio (chissà a cos’era interessata: al calcio? All’astrofisica? Alla ricetta della carbonara?) m’è tornata in mente all’inizio di dicembre, quando per mezza giornata tutto ciò di cui ha parlato Twitter è stata Chelsea Banning. Bibliotecaria, e fresca autrice del classico libro che non leggo neanche pagata, da lei descritto come “un incrocio tra mago Merlino e Il trono di spade”, la signora era tutta contenta perché ben trentasette persone, sulla pagina Facebook della presentazione del suo libro in un paesino dell’Ohio, avevano cliccato su “ci sarò”. Facebook è di uso collettivo da quindici anni, e ancora non abbiamo imparato che “amico” non vuol dire che mi puoi chiedere un prestito, “mi piace” non vuol dire che non trovi cessi i figli altrui ritratti nella foto che  hai  mipiaciato, e “ci  sarò” somiglia a quel passaggio della canzone di Jovanotti e delle conversazioni di noi tutti: “Mi ha fatto piacere vederti, oh, tu come stai, non facciamo passare degli anni ora” – per poi tornare serenamente a ignorarsi fino al prossimo decennio. Ancora – curva d’apprendimento piattissima – facciamo i post indignati perché al compleanno del mio bambino non c’era nessuno e avevano cliccato ci sarò, brutti bugiardi. Le donne  o fanno figli o fanno libri, diceva quella parigina, e Banning  era  molto  turbata  quando al compleanno del suo pupo (cioè, scusate, mi sono persa nella metafora: alla presentazione del suo libro) c’erano solo due persone. Ha fatto il suo bravo tweet dolente, e a quel punto è successa una cosa che attiene alla natura umana.

Ciò che forse non tutti sanno è che gli scrittori fanno schifo. Esattamente come le altre categorie di esseri umani. Meschini, invidiosi, avidi, rancorosi: tali e quali agli idraulici, ai chirurghi, ai vigili urbani. E, come a tutti gli esseri umani, ci piace tantissimo fare bella figura con poco sforzo. Quale migliore occasione dell’autrice irrilevante d’un libro probabilmente brutto  per  atteggiarsi in un gesto solo a generosi e modesti? Se sei Margaret Atwood – autrice d’indiscutibile successo nonché plausibile Nobel nei prossimi anni – puoi fare la figura della reginetta dell’empatia (una parola che piace moltissimo a quelli che meno capiscono le parole, cioè i lettori) con una riga e mezza di risposta al tweet in cui la Banning si dice delusa e imbarazzata. “Benvenuta nel club. Una volta a un mio firmacopie non c’era nessuno, tranne un ragazzo che voleva comprare del nastro adesivo e pensava io fossi la commessa”.

In principio fu Piero Angela. Tra gli aneddoti raccontati quand’è morto, c’era quello d’una presentazione alla quale non c’era nessuno, ma lui – eroico, santo, umile – volle farla lo stesso, e la voce si sparse nel quartiere, e alla fine la libreria era piena. Non so cosa fosse più improbabile, in questo nanetto: la presentazione deserta d’un personaggio televisivo? La notizia di Piero Angela che sta parlando a una platea deserta che come una freccia dall’arco scocca e vola veloce di bocca in bocca? Fatto sta che, al tweet della Banning, parte analoga gara d’aneddoti, questa volta da parte di autori viventi, ma per cui l’insuccesso è un così lontano ricordo da poterne parlare sorridendo. Che fatica vuoi che facciano a rassicurare l’autrice per cui l’insuccesso è di sicuro il presente e probabilmente il futuro?

Stephen King scrive: “Al primo firmacopie delle Notti di Salem, c’era un solo cliente. Un bambino grasso che mi disse: ehi, amico, mica sai dove trovo i libri nazisti”. La Banning, porella, invece di rispondergli che Le notti di Salem era quasi cinquant’anni fa e nel frattempo King deve probabilmente far cacciare dalle guardie del corpo la folla che assedia le presentazioni, ritiene di rassicurarlo dicendogli che suo marito è tanto fan. La gara tra gente che mette in pausa la visita ai depositi di dobloni – ottenuti vendendo milioni di libri e cedendo i diritti a cinema e tv – per giocare alla sfigata prosegue con Neil Gaiman: “Terry Pratchett e io abbiamo fatto un firmacopie al quale non è venuto proprio nessuno, quindi da te due in più”; David Nicholls: “Una volta i commessi della libreria hanno finto d’essere lettori per non farmi sentire troppo solo”; Gary Shteyngart: “A una delle mie prime presentazioni, a Lexington, c’erano duecento sedie pronte, e un cartellone gigante col mio nome sopra. Non è venuto nessuno! Zero! Ci sono voluti due commessi per tirare giù la gigantesca scritta Gary Shteyngart, e poi mi hanno chiesto se volevo portarmela a casa. Non volevo”.

A quel punto mi sono messa a pensare a me (anche questo inusuale): avevo mai fatto una presentazione deserta, dopo aver mollato sul severo sandroveronesismo della prima e più lucida parte della mia  vita  e aver ceduto a presentare ogni tanto qualcosa? Mi è tornata in mente una presentazione della nuova edizione de “I Mariti delle altre”, uscita la scorsa estate. Non solo c’erano più zanzare che cristiani, ma alla fine  ho pure scoperto che quelli che erano seduti in platea erano perlopiù dell’agenzia che aveva organizzato la rassegna (David Nicholls, ti sento fratello). L’unico vero lettore era uno che alla fine si era avvicinato portando con sé la prima edizione da farmi firmare (e il cellulare su cui voleva farmi vedere non so più quale mia frase che usava per rimorchiare su Tinder: la gente, alle presentazioni e altrove, è interessata innanzitutto a sé). Quindi all’unico lettore non avevo venduto una nuova copia: una serata utilissima. Tuttavia, perfino da quell’ora dal disastroso bilancio era chiaro che il tema su cui si accaniva Twitter era fuori fuoco, probabilmente per la natura differente delle presentazioni americane, luoghi dove l’autore legge un brano del libro, e l’editore non deve convocare uno, due, quattro tapini che lo lusinghino dicendo meraviglie della sua  opera (mi lascia sempre stupita che ci sia gente il cui ego è a così basso mantenimento da accontentarsi che qualcuno d’un po’ più famoso che – in cambio del solito prosecco sgassato e del sentirsi benevolo come si sentono King e la Atwood con un tweet – dica “L’ho letto, è bello, accattatevill’”; mi stupisce, ma l’ego piccino è l’unica spiegazione all’esistenza di autori italiani che fanno centinaia di presentazioni l’anno, andando su treni di terza classe – il cui biglietto costa comunque più delle royalties che incasseranno – in luoghi remoti in cui una signora dirà loro: il suo libro non m’interessa, me ne consiglia uno altrui?).

In Italia, il dramma non è il pubblico assente: è il presentatore presente. Una figura che si è pur sempre (diversamente da quel che accadrebbe se invece di venirci a presentare il libro ci facesse un tweet caritatevole) fatta la messinpiega, ha pagato il lavasecco, il taxi: devi pure ringraziare.

C’è quella che passa i primi dieci minuti a spiegare in dettaglio la ragione per cui non ha letto il libro e poi, non avendo niente da chiederti sul libro che ha dettagliamente non letto, ti chiede della città, della tua vita sentimentale, della rava e della fava (copie vendute: zero).

C’è quello che ti declama un pezzo del libro che sta presentando e conclude con: Aldo Cazzullo ha scritto questo del tuo libro, sei d’accordo? E a te tocca spiegargli che veramente quello è un tuo paragrafo che Cazzullo ha citato nella sua recensione; si capiva che era una recensione dalle virgolette, ma non lo puoi precisare perché gli staresti dando del cretino, e non si dà del cretino a uno che s’è pagato il taxi e il lavasecco, e in cambio ne ha avuto il solito prosecco sgasato. (Copie vendute: zero, ma quella volta era colpa dell’editore che aveva trascurato di mandare le copie al festival, il che solleva un’altra questione. Se l’autore dalle presentazioni non guadagna niente – a parte le lusinghe per chi ha l’ego piccolo – e l’editore neanche, tutto questo ambaradan cosa lo si mette su a fare? Oltre che per far avere ai festival finanziamenti pubblici, intendo. Non fatemi diventare populista, non fatemi mettere a fare i conti di quante tasse potrei risparmiare non finanziando festival che dovrebbero farmi vendere libri che non mi fanno vendere).

C’è quello che legge la dissertazione che si è preparato, e si offende se provi a interloquire, e allora tu e la tapina un po’ meno egotica che partecipa anch’ella alla presentazione lo lasciate finire, prima di trasformare l’orazione in dialogo, e a  quel  punto lui annuncia che dei temi di cui state conversando (cioè: quelli del libro) non gliene frega niente e scende dal palco. (Copie vendute: qualcuna, tutte a gente che, mentre porgeva il tomo da autografare, si scusava a nome dell’egotico intellettuale locale. Copie vendute qualcuna, e tutte rimpiante: la libraia che organizzava il tutto era così cialtrona che un po’ mi dispiace averle fatto guadagnare qualche spiccio).

C’è quello che dice subito che lui il libro che siamo lì a presentare non l’ha letto perché non lo capiva, e procede a parlar d’altro per un’ora (ciao Makkox, ti spiace essere uno dei pochi nomi che faccio?); c’è quello che legge premesse di dieci minuti alle domande, premesse dettagliate acciocché si capisca che lui sì che l’ha letto, il libro; c’è quello che per giorni ti ha mandato messaggi “che libro bellissimo, sono stato sveglio tutta notte per non smettere di leggerlo”, e capisci che non l’ha neanche aperto quando ti fa la prima domanda, “come mai questo  sottotitolo”, e ne hai conferma quando trasecola al tuo raccontare una cosa che sta scritta a  pagina due; c’è quello che apre il libro in un punto a caso, legge la prima frase che trova e dice che quella è indubbiamente la più significativa per capire i temi dell’opera (di solito è una frase tipo “Egli chiuse la finestra perché faceva freddo”); c’è quello che somiglia all’egotico mio, ma è un egotico altrui. Mi è capitato una delle uniche due  volte  in  cui ho presentato libri altrui, entrambi di amici. Quella volta eravamo in due (le case editrici hanno questa bislacca convinzione che sia bene affollare il tavolo dei presentatori), e l’altro presentatore era uno scrittore che si prendeva molto sul serio. Ci chiese all’inizio se per favore potevamo prima – io e l’autore del tomo – dire tutte le nostre cazzate e poi lasciargli fare l’intervento che si era preparato. E così andò: tirò fuori un foglio dalla tasca interna della giacca, e si mise a recitare un interminabile articolo di Pasolini. (L’addetta stampa che aveva avuto la bella idea d’invitarlo a essere secondo presentatore ebbe modo di pentirsi alla successiva cena – che lusso, invece del prosecco sgassato – che il declamatore di Pasolini passò a tentare di convincerla a una qualche forma di copula).

L’estate scorsa ho presentato assieme a Filippo Ceccarelli i nostri  due  saggi.  Alla fine io protestavo: avevo firmato due libri, e uno dei due lettori se l’era portato da casa, e m’era toccato parlare tre minuti con una che il libro non lo comprava ma voleva sapere da me se si perdeva qualcosa a non stare sui social (sì, signora: non può gongolare per la cellulite di sua cognata nelle foto del mare). Il Cecca, che a fine presentazione era stato un’ora a fare dediche ma è un gentiluomo, giurava che erano due anche i suoi, ma che lui fa molta conversazione per far durare più a lungo le dediche e sembrare meno sfigato. Ho pensato a Tom Wolfe, che dieci anni fa, in una libreria di New York, faceva ghirigori così elaborati che la libraia ci aveva vietato di chiedere qualcosa in più della firma. E io avevo ubbidito. Poi però quello aveva fatto le dediche a tutti i miei amici, e io quasi mi mettevo a piangere. Era dovuta andare da lui un’amica a dire scusi, mister Wolfe, può aggiungere sopra la firma il nome della mia amica timida. Amica che, come tutti quelli lì presenti, per entrare aveva dovuto esibire lo scontrino. Il che mi fa venire in mente che l’unica volta che ho firmato un numero di copie da autrice di ricette della nonna o di commissari di provincia era a un festival al quale la gente aveva già pagato il biglietto per ascoltarmi, e ora si comprava pure un saggio, anzi due, alcuni (non ci credevo neanch’io) tutti e tre quelli che aveva portato la libraia senza pos. Ho firmato decine di copie seduta di fianco alla libraia che accumulava banconote nella sua cassettina; alla fine volevo proporle di spartirci il nero. Forse l’economia culturale funziona solo per moltiplicazione dei tariffari. Forse dalla Banning, e da Veronesi, e da Angela, e dal giovane King, e da me nelle sere che non erano quella, forse di solito la gente non ci viene per la stessa ragione per cui io non presento i libri degli altri: perché non costa abbastanza.

Guia Soncini (Bologna, 1972), scrittrice. Ha pubblicato, tra gli altri, «I mariti delle altre» (Rizzoli, 2013, Premio Forte dei Marmi), «L’era della suscettibilità» (Marsilio, 2021) e «L’economia del sé» (Marsilio, 2022). Il suo ultimo libro è «Questi sono i 50» (Marsilio, 2023).