È il 1993, sto per andare a Capalbio, o a Porto Venere, o per partire per non so quale delle piccole vacanze disseminate nell’ultima estate della mia vita da studentessa. Sono a Bologna, entro nella libreria sotto al portico del Pavaglione nella quale ho scoperto l’esistenza di Arbasino e scoprirò quella di Martin Amis. C’è un libro dal titolo non particolarmente attraente, metà in latino metà in inglese, sono 924 pagine e in valigia peserà, ma ho deciso che l’autrice è irresistibile. L’ho deciso due anni prima, sfogliando un numero dell’edizione italiana di Elle.
Era un periodo in cui si parlava di date rape, un concetto nuovo nella conversazione collettiva: esci con uno, e quello ti stupra. Non mi ricordo cosa ne avesse scritto Elle – che tra l’altro di solito non compravo: chissà perché quel numero sì, chissà cosa sarei oggi senza quell’acquisto occasionale – ma ricordo perfettamente, avendo poi il ritaglio adornato le pareti di casa mia per molti anni, la frase di Camille Paglia che avevano messo in grossi caratteri bianchi in un riquadro rosso: “Se andate nell’appartamento di un uomo, significa che avete intenzione di fare sesso. In caso contrario, portatevi un coltello”.
Non sapevo niente, di Camille Paglia (mica c’era Google). Non sapevo che il date rape era stato l’oggetto d’un suo articolo che aveva fatto scannare gli intellettuali americani, in quella stagione tra il 1990 e il 1991 in cui la professoressa Paglia era passata da studiosa a celebrità. Ricopio la trascrizione d’un intervistatore attonito che, nel 1995, si era annotato cosa diceva la segreteria telefonica che accoglieva aspiranti intervistatori e altri postulanti: “A causa dei suoi pressanti obblighi come docente e accademica, la professoressa Paglia non può richiamare personalmente. La stampa americana e canadese che ha richieste ufficiali deve contattare il suo editore. La stampa internazionale deve contattare il suo agente. Gli inviti a tenere conferenze e altro devono essere messi per iscritto e inviati alla professoressa. Non via fax: la professoressa non li accetta. Tutti i pacchi vengono aperti e ispezionati dallo staff. Il materiale non richiesto che viene inviato senza affrancatura per la restituzione verrà cestinato. I messaggi urgenti possono essere lasciati su questo nastro e verranno valutati dallo staff. Se non ricevete risposta, la professoressa non è interessata alla vostra proposta”. Tutto questo allora non lo so. Non so che Paglia ha avuto come mentore Harold Bloom (non so neanche che Harold Bloom è il più importante critico letterario del Novecento, figuriamoci), non so che Sexual Personae era la sua tesi di laurea che ci ha messo vent’anni o giù di lì a farsi pubblicare, non so che in un editoriale sul New York Times ha decretato che Madonna è il futuro del femminismo, e non so neanche che sto comprando il libro che mi farà prendere 28 all’esame di letteratura inglese senza leggere nessun altro testo (cioè: nessuno dei testi assegnati dalla docente), e che trent’anni dopo considererò ancora il saggio più dirompente che abbia mai letto. Soprattutto, non so che Paglia sta dibattendo col futuro: che tutti quei tic culturali che demolisce saranno il tessuto della società nel secolo successivo, e che quindi sarà perfettamente sensato che, trent’anni dopo, Sexual Personae venga ripubblicato (da Luiss University Press).
Soprattutto, non sapevo che due anni prima, nell’inverno del 1991, mentre io preparavo letteratura inglese come materia dell’esame di maturità su testi meno illuminati del suo e nessuno mi diceva che Heathcliff era un ermafrodito (come avrei compitamente ripetuto, nell’autunno 1993, durante il mio bravo esame universitario), non sapevo che allora la professoressa era stata sulla copertina del New York Magazine. Se dobbiamo essere oneste: non sapevo neanche cosa fosse il New York Magazine, o chi fosse Robert Hughes, di cui l’anno dopo Adelphi avrebbe pubblicato il fondamentale La cultura del piagnisteo, e che al New York aveva detto che la Paglia non piaceva “alle femministe bien pensant”. Non sapevo chi fosse de Sade, e se doveste mai un giorno avere vent’anni, beh, vi consiglio di scoprire l’esistenza di de Sade da un’italoamericana che racconta una sua scena di orge tra suore ambientata in un convento di Bologna paragonandola alla coreografia d’un musical anni Trenta (no, le contaminazioni culturali non le ha inventate Angelo Guglielmi).
Questa è un’intervista senza domande, e ancora per un po’ anche senza risposte. Perché mi sento di indugiare un altro po’ in quegli anni Novanta in cui Camille Paglia diceva cose che io allora non ero in grado di capire, e che oggi sono l’opposizione di cui ha bisogno il presente. All’epoca il New York riferisce che Paglia è indignata dalle femministe che le dicono che non le possono piacere i Rolling Stones perché sono sessisti, e che cosa c’entra la morale dell’artista con le opere d’arte, ed è il dibattito di adesso, e loro già ne parlavano. La giornalista commenta una biografia di Picasso allora appena scritta da Arianna Huffington (ma pensa te), in cui si dice che non è un grande artista perché umilia le donne, e la Paglia risponde: “Se Picasso avesse imbracciato un mitra e fatto fuori un gruppo di nonnine, la mia opinione sulla sua arte non ne risentirebbe”.
Più di trent’anni dopo, questa intervista si potrebbe svolgere senza intervistatrice, che non riesce praticamente mai a formulare una domanda. Ma forse anche senza intervistata, visto che già nel 1997 le pubblicazioni universitarie parlavano d’un pagliometro per valutare quanto la persona che stavi intervistando potesse essere un’incarnazione di Camille Paglia. Tra le domande per identificarla c’erano: “Parla di sé stessa? Contrappone qualcosa di giudaico-cristiano a qualcosa di pagano? Qualcosa di apollineo a qualcosa di dionisiaco? Dice che il femminismo fa schifo?”. Quello che il pagliometro non sa, però, è che, trent’anni dopo quel volume comprato sotto ai portici, quella che se le mandavi un fax lo rifiutava mi manda uno sketch di Nino Manfredi, e giorni dopo un’intervista a Pamela Anderson.
Tutto comincia da Ceccano, provincia di Frosinone, luogo di provenienza della madre e della nonna di Camille. La nonna è la radice della sua poca pazienza per il perpetuo vittimismo dei nostri tempi, ma anche quella delle sue illusioni sul carattere italiano. Ma prima, Nino Manfredi.
Ci stiamo scambiando delle mail, lei mi dice che forse so che le sue origini sono a Ceccano, io dico certo, mi sono letta venti pagine d’intervista sulle sue radici italiane, però non ho capito se parla italiano, lei dice no, i miei genitori pensavano fosse meglio parlarmi solo in inglese, ma “la parlata di Ceccano, non c’è proprio dubbio, ha ispirato il suono brusco, violento che perlopiù si trova nella mia prosa, e che molti accademici americani trovarono offensivo negli anni Novanta”. E a quel punto mi linka Nino Manfredi che, in un Canzonissima del 1958, interpreta il barista di Ceccano che cerca di concorrere al Musichiere. “Questo è l’accento assertivo, pugnace, che ha governato la mia infanzia, è il suono della cucina di mia nonna”. Ricambio con la scena di Straziami… ma di baci saziami in cui Manfredi è un barbiere di Alatri che vuole riconquistare l’ex di cui s’innamorò da povero, ora che è “ricco e spietato come il conte di Montecristo”. Potrebbe essere l’inizio di una bella amicizia.
È strano che Camille Paglia parta dalle parole, lei che ha costruito un’identità accademica sull’odio per Foucault e Derrida e Lacan, sul proclamare stupidissima l’idea che il linguaggio sia la cosa più importante, sul dire che il decostruzionismo poteva attecchire solo su degli ignoranti che non sanno cosa sia una personalità, cosa siano le arti visive, cosa sia l’immagine. Dalle parole di sua nonna, poi, con cui ha raccontato d’aver passato pomeriggi muti, in cui il codice della comunicazione non erano certo le parole ma osservarla girare il sugo, una donna forte, un’esponente del matriarcato emigrata da Ceccano agli Stati Uniti (in Sexual Personae si parla di matriarcato, “prima dell’invenzione della società dei maschi e della nascita degli oggetti”, molto più di quanto ci si soffermi sul patriarcato, che d’altra parte nel Novecento non era la paroletta-slogan preferita da Instagram).
Quando le racconto del ritaglio con la sua esortazione a portarsi un coltello agli appuntamenti con gli uomini ride molto, ma qualche giorno dopo mi dirà una cosa che mi pare perfettamente in linea con quella frase. Avevamo, al telefono, parlato di Harvey Weinstein e dell’incapacità femminile di decodificare i segnali. Mi manda un’intervista di Pamela Anderson sottolineando che dice le stesse cose che mi ha detto lei. C’è, in questo rivendicare un’analogia di pensiero con la bagnina di Baywatch, tutta Camille Paglia: la mancanza di complessi, la voglia mai doma di épater le bourgeois, il bastiancontrarismo. (Quando le chiedo cosa pensa ci dica d’un personaggio di White Lotus il fatto che gli sceneggiatori le abbiano dato da leggere Sexual Personae, in una serie in cui le letture d’ogni personaggio dicono qualcosa del suo posizionamento sociale, lei mi risponde “sarà una bastiancontraria”, e che non ha visto la serie ma qualche assistente le ha mandato una foto dello schermo. Sarà l’evoluzione dell’assistente che selezionava i fax).
Insomma mi manda quest’intervista, e quindi torniamo a parlare di Weinstein, e mi scrive questo: “La questione è l’ingenuità di quelle giovani donne riguardo alla vita. La moderna società benestante ha protetto le donne della media borghesia dalle verità spiacevoli che eruttano solo durante i disastri naturali o la guerra. Io sono stata cresciuta col codice degli immigrati della campagna italiana, un codice che diceva: la vita è pericolosa! La cosa che ripeteva costantemente mia nonna materna, ogni volta che qualcuno usciva di casa, era: stai attenta! E dal lato paterno, a Napoli non ci si poteva fidare neanche della geografia: mia nonna paterna si ricordava il fumo del Vesuvio addormentato, e non era raro che ci fosse qualche devastante terremoto. Il femminismo contemporaneo, sfortunatamente, ha sposato il paradigma vittimario, che scioccamente pensa di poter cambiare la realtà. Ma il mio modello di femminista è quello di una guerriera che vigila – Camilla, l’amazzone volsca, una figura uscita da Virgilio!”. La realtà con cui tocca fare i conti è quella che descriveva in Sexual Personae e che, se trovavamo offensiva negli anni Novanta, figurarsi adesso: il genio non sopporta costrizioni e, se non sono mai emerse delle Platone donne, è perché non c’erano; il cervello maschile è più predisposto all’ossessione e la ragione per cui non c’è mai stato un Mozart donna è la stessa per cui non c’è mai stata una Jack la Squartatrice; se avessimo lasciato i processi di civilizzazione in mano alle donne, vivremmo ancora nelle capanne.
Ho l’impressione che quello che lei equivoca per un tratto italiano sia in realtà un insieme di qualità che esistevano nei nativi della prima metà del Novecento, ormai scomparse dall’Italia americanizzata come lo è tutto l’occidente: che il suo essere spiccia, poco diplomatica, più interessata a capire le cose che a lamentarsene, che tutto questo faccia di lei una d’altri tempi, mica un’italiana. Oggi, in Italia, nessuna rivista femminile pubblicherebbe quella frase di Camille Paglia sul dovere di difendersi dai pericoli delle relazioni con gli uomini: neanche per stigmatizzarla, neanche per aprire un dibattito. L’Italia è, come tutto il resto dell’occidente, americanizzata nel ritenere certi discorsi inaccettabili, giacché certi discorsi dicono realtà che siamo determinate a fingere non esistano. Quando mi dice che si è formata su Monica Vitti e Jeanne Moreau, che il suo sguardo è stato educato dal cinema d’autore europeo, “immagino che in Italia si vedano ancora quei film”, sono costretta a svelarle che no, anche qui come ovunque si guardano solo video da due minuti su TikTok.
La sua rassegna stampa novecentesca contiene il meraviglioso aneddoto d’uno studente cafone e di lei che se ne lamenta con la preside dell’università di Bennington, dove insegnava negli anni Settanta: “Le ho detto: lo prendo a calci in culo, e lei ha detto: hai ragione, si merita dei calci in culo. Solo che, vedi, poiché è una wasp, pensava stessi usando una metafora. Poiché sono italiana, quando dico che prenderò a calci in culo qualcuno, io lo prenderò a calci in culo”. Pensa oggi. Camille Paglia, incredibilmente, è ancora una docente universitaria (alla University of the Arts di Philadelphia). Com’è possibile che gli studenti non la ritengano offensiva e pericolosa, si chiederanno i miei piccoli lettori. Me lo chiedo anch’io. C’è stato un solo episodio, nel 2019. Era in programma una lezione sull’ambiguità sessuale nell’arte occidentale, dopo la quale gli studenti volevano poter formulare le loro obiezioni, e sono stati informati che la professoressa non sarebbe rimasta per ascoltarle. Alcuni hanno protestato seduti fuori dall’aula, e a un certo punto la lezione è stata interrotta da un allarme antincendio azionato da non si sa chi. L’università l’ha difesa, il che costituisce forse il moderno Scandalo a Filadelfia (scusate, ma mi sono vergognata di fare questo gioco di parole mentre parlavo con lei e quindi ora lo servo freddo a voi). Riesco a interrompere il suo flusso di coscienza per chiedergliene conto, dice ah, sì, boh, non so come sia andata, so che è scattato l’allarme. Mi par di capire non prenda più a calci in culo gli studenti, ma anche che sia disinteressata a tutto ciò che non è discorso filosofico sulla società ma aspetti pratici, si tratti di allarmi antincendio, o della serie televisiva che usa un suo libro come oggetto di scena, o di me che le dico che l’edizione Einaudi del 1993 di Sexual Personae è a duecento euro su eBay.
Le chiedo come facesse a sapere già negli anni Settanta, quando iniziò a scrivere Sexual personae, come ci saremmo ridotti, come facesse a vedere il futuro. “Le università hanno iniziato un processo autodistruttivo negli anni Novanta, in seguito alle idee dei poststrutturalisti, la libertà d’espressione è stata davvero in pericolo, i miei scritti di allora direi fossero assai profetici. Mi pare che la mia tesi, che il sesso e l’erotismo sono transazioni tra due liberi individui, e che tutto ciò che attiene all’aspetto è rilevante rispetto a quell’incontro, non sia stata ancora accettata dalle femministe. È un discorso molto puritano dire che una donna può vestirsi come le pare, dire tutto, fare tutto, e sarà comunque protetta da una bolla magica che la difenda come fosse un essere superiore cui dio ha donato dei privilegi. E’ imbarazzante per me, come donna, che le donne siano così poco raffinate da non capire che un tacco a spillo è un messaggio: gli uomini gay capiscono che il sesso è un’urgenza animale da sempre, dai tempi degli antichi romani. I reati sessuali sono una patologia della psiche maschile, come fanno le donne a essere così ingenue riguardo agli impulsi sessuali, come fanno a dire che è la società che insegna agli uomini a stuprare, come fanno a dire che è l’oppressione del patriarcato? La società è ciò che protegge le donne dallo stupro, non ciò che lo incoraggia, sono decenni che ne scrivo, come fanno a non capirlo”. Prende un respiro, e riesco a infilare mezza obiezione, che è più o meno: guardi che gli uomini gay ormai fanno le vittime quanto le femmine, se Paolo Poli o Alberto Arbasino fossero vivi si sentirebbero accusare di omofobia interiorizzata perché osavano ridere della loro stessa busonaggine. Ricomincia a parlare prima che possa chiederle se abbia idea di chi fossero Poli e Arbasino. “Però capiscono il pericolo intrinseco di approcciare qualcuno in un vicolo buio: perché le donne moderne, sessualmente liberate, non capiscono l’elemento di pericolo? Studiare i pericoli è stato sostituito da una specie di soap opera che ripete che le donne hanno diritto di andare in giro nude e tutti devono far finta di niente. Mi cito di nuovo: certo che hai il diritto di vestirti come Madonna, ma se fai pubblicità al prodotto devi essere pronta a venderlo. Bisogna studiare la storia del sesso nei secoli, non una sua versione sterilizzata, sentimentalizzata, e separata dalla biologia. Persino in Brasile, dove mi avevano sempre capita, sono arrivate le idee poststrutturaliste, e guarda com’è finita: con Bolsonaro”.
Persino in Italia, un posto che lei aveva scritto essere la versione pagana della sopravvivenza del più forte, ora ci scandalizziamo se una giudice, dopo che una donna è stata uccisa dal suo ex, dice che è bene non andare a incontrare il proprio ex violento. “Le donne sono diventate incapaci di decodificare i segnali che un uomo irrazionale manda, in una relazione, molto prima di diventare fatale. Bisogna insegnare alle giovani donne a cavarsela, bisogna parlarne a voce alta. Qui c’è stato da poco un caso, nel remoto stato dell’Idaho, quattro giovani donne sono state brutalmente uccise, sono riusciti a trovare l’assassino, e a ricostruire che era stato un loro stalker, guardava le loro foto ipersessualizzate su Instagram, fatte prendendo a modello Kim Kardashian e illudendosi che potessero essere accolte in modo neutrale. È come nel film di Hitchcock, Psycho: il giovane uomo ossessionato dalla madre è chiaro che vede quelle foto e non risponde di sé. Ma questo le giovani donne non lo sanno, perché nessuno più studia Freud. Basterebbe anche solo studiare Amleto, per capire la relazione ambivalente dei giovani uomini con la madre, e invece perdiamo tempo a fare le vittime. Guardi il caso di Harvey Weinstein, stiamo parlando di donne che si presentano alla sua porta, lui apre in accappatoio, e loro non intuiscono il pericolo, entrano senza capire che quell’accappatoio è un segnale, che è come giocare di scherma, che bisogna muoversi in relazione alle mosse dell’altro, che quella conversazione è una transazione”. Abbiamo perso familiarità coi codici della seduzione: non capiamo il segnale dell’accappatoio perché pensiamo che il nostro tacco a spillo e la nostra scollatura non siano segnali. Paglia quest’errore non lo fa perché Harold Bloom la mandò in analisi. È una delle due cose favolose che mi racconta di lui: che lei leggeva Freud appassionandocisi moltissimo, lui le disse che non si poteva leggere Freud senza essere in analisi, e allora lei andò da un analista e gli disse sono qui solo perché mi ci ha costretto il professor Bloom ma non so cosa dirle, e quello rispose si figuri io, e non si videro mai più.
L’altra cosa riguarda la tradizione delle molestie dei venerati maestri nei confronti delle brillanti promesse. “Gli uomini di potere cercheranno sempre di farla franca, li eccita la caccia, gli piace che sia proibito, e le giovani donne devono imparare a cavarsela. Quando sono arrivata a Yale, nel 1968, non ero una studentessa di Harold Bloom, ma lui sentì di cosa volevo scrivere, di sesso, nessuno scriveva di sesso nel dipartimento di letteratura inglese, e facevo fatica a trovare un relatore. Mi convocò nel suo ufficio e mi chiese del mio progetto, che poi era Sexual Personae, e mi disse: mia cara, sono l’unico che può guidarla in questa dissertazione. E aveva ragione, e io gli devo moltissimo. Ora, Bloom era sposato, aveva due figli, ed era uno dei molti professori che si sapeva avessero relazioni con le studentesse. Un giorno lo incontro, tra i palazzi di Yale, lui era con un altro professore, un famoso poeta, scambiamo qualche parola, e quando ci congediamo lui prova ad abbracciarmi. Lui è un noto docente, io sono una studentessa che dipende dalla sua benevolenza per la tesi cui tengo, ma faccio un salto indietro così rapidamente che lui quasi casca dal marciapiede. Nella mia testa, la mia dignità di donna non permetteva che ci fosse un dubbio, un’ambiguità rispetto al mio rapporto con un uomo. È per quello che mi spazientisco quando, come nel caso di Weinstein, si mescolano le ambizioni professionali e la seduzione”. Aveva 23 anni, quando quasi fece cascare Bloom dal marciapiede. Conveniamo che il caratteraccio è utile coi Bloom ma pure con quelli qualunque. “Mi ci sono voluti molti anni per trovare un modo più gradevole di respingere le avance”.
È il 2023, nella libreria che c’è davanti alle Due Torri la nuova edizione di Sexual Personae è in vetrina di fianco all’autobiografia del principe Harry. Le mando la foto dicendole che è in coppia con Harry, un bel progresso rispetto a Meghan. Paglia ride, dice che Meghan è detestabile, e che l’affiancamento la delizia. Se dovessi scrivere un film che riassumesse l’epica di questo secolo, partirei dalla ventenne che va per comprare la lagna principesca e inciampa in Camille Paglia. Devo solo trovare, per interpretare la ragazza che salverà la sua generazione dall’analfabetismo tiktokkaro, una giovane Vitti – va bene anche una giovane Moreau – che al primo appuntamento si porti un coltello.