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Caccia alle streghe in tempo di pace

Non c’è mai stato un momento migliore per essere nero in America o per essere europeo, ma le olimpiadi della depressione ci fanno litigare sul colore della pelle nelle emoji. Conversazione con Thomas Chatterton Williams, raro intellettuale non isolazionista
di Guia Soncini
illustrazioni di Makkox

“Barack Obama era già qualcosa, non era bianco, era di razza mista, ma bisogna essere onesti: non era culturalmente nero, lo è diventato sposandosi, non era stato cresciuto da neri, non è come se avessimo eletto Jay Z”. Thomas Chatterton Williams ha scritto un memoir sull’identità nera e su come si è messo a ripensarla quando sua moglie ha partorito una bambina persino più bianca e bionda di lei. Quando gli dico che secondo me Obama era innanzitutto un figo, e quando sei un figo tutto il resto passa in secondo piano, mi dice che no, le reazioni alla sua elezione erano davvero razziste e hanno condotto a Trump – però. “I suoi antenati sono africani, sì, ma non discende da quella che è l’esperienza fondamentale dei neri americani: la schiavitù. Suo padre è arrivato volontariamente, per andare ad Harvard: non è la stessa cosa. Poi la tradizione nera americana è quella di accettare generosamente chiunque voglia dirsi nero, che sia Kamala Harris o Meghan Markle. Il punto è che la razza è un’invenzione: non si può dire che io abbia qualcosa in comune con un uomo cresciuto in Nigeria. E questo tra l’altro è il punto in cui la wokeness sconfina nel razzismo: quando sostiene che esiste un’essenza della razza, che siccome Kamala Harris ha origini giamaicane allora è nera. Riproducono lo stesso argomento dialettico dei razzisti, è un ragionamento molto contorto”.

Non so come siamo finiti alla razza, partendo da “Bologna è quella dove si mangia bene, no?”. Thomas Chatterton Williams è americano, vive a Parigi, è molto stupito quando gli spiego che i portici bolognesi sono patrimonio dell’Unesco, giura di sapere pochissime parole d’italiano – insegnategli dal proprietario piemontese d’una épicerie nel nono arrondissement – eppure parla dell’Italia come un italiano. Che è la ragione per cui l’avevo scelto per parlare di certe egemonie culturali americane. No, non perché instagramma foto di Siena e, quando lo chiamo su Skype, mi racconta di certe vacanze in Calabria e dice che in Toscana ci sono troppi inglesi e americani: perché mi pare, in questo secolo ottuso, uno dei pochissimi intellettuali americani non isolazionisti.

Quando gli racconto d’una scrittrice statunitense cui avevo detto che un certo libro mi ricordava Carrère, s’illumina – “Il mio preferito!” – ma non si stupisce troppo quando preciso che alla signora, dotata di uso di mondo ma pur sempre residente negli Stati Uniti della Mancanza di Curiosità, il nome di Emmanuel Carrère non diceva nulla. “Non traduciamo nulla, ho guardato le statistiche, sono imbarazzanti, meno di noi traduce solo l’Arabia Saudita. In Francia traducono tutto. Un po’ è che l’America è grande e succedono un sacco di cose e già è difficile star dietro a tutte quelle che succedono lì, un po’ è che New York è come Parigi: non gliene importa niente di quel che succede altrove”.

Williams dice “noi” quando parla dell’America, anche se mi parla da un appartamento di Parigi; sua moglie è francese, i suoi figli sono nati lì: è un americano a Parigi. Ci si è trasferito da dieci anni, ma dice di sentirsi ancora straniero, “la mia conoscenza della lingua è limitata nelle piccole cose, quando parlo con gli insegnanti dei miei figli, però è anche liberatorio non capire proprio tutto, a New York colgo ogni dettaglio delle conversazioni di chi mi viaggia accanto in metrò, non posso mai isolarmi, è opprimente; qui invece non capisco neanche tutte le parole che usa l’idraulico: sono un immigrato. Sono fortunato perché posso viaggiare tra i posti e le identità. Non ho capito quant’erano distanti fino alla pandemia, in un certo senso non mi ero mai reso conto che ci fosse un oceano tra me e il posto da cui vengo”.

Il suo memoir sull’identità razziale comincia con la descrizione del tragitto tra casa e l’ospedale, e  la frase con cui fa capire ai lettori (americani) dove si trova è “le insegne al neon dei café uscite dalle pagine di Festa mobile”. Festa mobile è il libro postumo in cui Ernest Hemingway raccontava la Parigi degli anni Venti (anche questa è la Parigi degli anni Venti: il neon è immutabile nei secoli, come i monumenti).

C’è una tradizione di intellettuali americani che fuggono a Parigi dall’ottusità americana, che trovano un nuovo modo di guardare le cose da vicino mettendo distanze tra sé e quelle cose: da Norman Mailer a Thomas Chatterton Williams, da Ernest Hemingway a James Baldwin.

La tradizione c’è, e i francesi sono molto incoraggianti e felici di avere qui qualche intellettuale americano: è meglio che stare in un posto in cui sono indifferenti alla tua presenza. Ma in realtà credo che non sia tanto Parigi, quanto il fatto che essere in America è come stare a mollo nell’acqua tiepida, se sei lì ti abitui, e invece tornarci ogni tanto è come rivedere un genitore dopo un bel po’ e accorgersi di quant’è invecchiato, non l’avresti notato se fossi stato con lui ogni giorno. Noti i difetti ma anche le cose da apprezzare, che magari daresti per scontate. Mi sembra per esempio che l’America sia ancora un posto dinamico, in cui emergono opportunità impensabili in Europa. E stando qui so che l’Europa non è quella socialdemocrazia che pensano gli americani, in cui la sanità è scadente perché è pagata dallo stato e gli stipendi sono bassi e si vive da schifo.

Parlando coi giornalisti americani che vivono negli Stati Uniti si nota, verso gli americani che vivono qui, una certa condiscendenza del tipo: poveri, vivono nel Medioevo, lì in tv dite le parolacce e vi tingete la faccia di nero senza che nessuno lo consideri grave.

Per quel che so dell’Italia mi pare che, nel bene e nel male, non corra il rischio d’un eccesso di wokeness. [ride molto] Mi scuso per aver detto “nel male”, però…

Ma sa che però meno siamo suscettibili come tradizione culturale e più ci atteggiamo a esserlo nella speranza di emulare voi americani.

Anche i francesi fanno un po’ così.

Di quella che lui chiama wokeness e io suscettibilità, TCW è uno dei più intelligenti avversari. Fu lui a organizzare la lettera aperta in cui, nel 2020, intellettuali non esattamente sospettabili di trumpismo come Martin Amis e J.K. Rowling, Salman Rushdie e Gloria Steinem, Anne Applebaum e Wynton Marsalis, Margaret Atwood e Malcolm Gladwell, dissero a una sinistra che non aveva nessuna voglia di ascoltarli che il problema non era solo Trump. Che “il conformismo ideologico sta prevalendo sul dibattito aperto e la tolleranza delle divergenze”; che “il libero scambio di informazioni e idee, linfa vitale d’una società liberale, viene stritolato ogni giorno di più”; che, mentre da quegli altri ce lo aspettiamo, è dalla nostra parte che si sta diffondendo la tendenza a censurare, “l’intolleranza di punti di vista opposti, la moda del pubblico svergognamento e dell’ostracismo, e la tendenza ad appiattire questioni complesse con accecanti certezze morali”.

Le reazioni furono esilaranti. Ci fu anche chi si chiese cosa importasse della cancel culture a questi firmatari affermati che certo non avevano e non avrebbero mai rischiato nulla, privilegiati rispetto a noialtri deboli che dovremmo sopportare l’utilizzo di parole che non ci piacciono. Che cosa sono gli ayatollah che mettono una taglia sulla tua testa, caro Salman, rispetto al trauma di venire chiamati coi pronomi o le desinenze sbagliate rispetto all’identità di genere che mi sono scelta, e al mio diritto di vedere comminato il massimo della pena a chi sbagli nel declinare un participio a me associato. Mi piacerebbe riferirvi cosa dica Chatterton di questo delirio, ma purtroppo a questo punto ci sono dieci minuti impubblicabili di conversazione. Costituirebbero, i dieci minuti, un eccellente cortometraggio comico dal titolo “Avete mai provato a spiegare a un americano cosa sia la schwa e i goffi tentativi d’introdurla in una lingua i cui parlanti non riescono a imparare quando si usi ‘gli’ e quando ‘le’, e non ti danno del lei perché non sanno coniugare la terza persona”. TCW dice che non è “un brillantissimo studente di lingue straniere, ma se tornassi indietro vorrei imparare l’italiano”; dice che capisci quant’è musicale l’italiano viaggiando, mica crescendo come lui in New Jersey e sentendolo parlare da gente che sbaglia a pronunciare “prosciutto”, “non suonava come una lingua che ti veniva voglia di parlare, e poi quegli italiani del New Jersey erano piuttosto razzisti, ma poi ho scoperto che non c’è lingua più elegante, anche se non è molto pratica: nella maggior parte dei posti del mondo non ti serve a niente”.

Nello schermo di Skype, TCW ha un cappellino verde dell’università dell’Oregon, e dietro di lui ci sono infissi e pareti che urlano: borghesia parigina. E’ lo stesso effetto che fa la foto di copertina del suo memoir, in cui si vedono meglio lui e la primogenita, meno la moglie e il bambino piccolo, e per il resto solo cenni di benessere: l’angolo d’un tavolo, l’angolo d’un divano, e un angolo di carta da parati. Il libro s’intitola Self-Portrait in Black and White – Family, Fatherhood, and Rethinking Race. In tutto questo parlare di sesso e di etnia, c’è un grande rimosso nel discorso pubblico plasmato dagli intellettuali americani, e io non so come dirglielo, quindi glielo dico dritto.

Se guardo quella copertina, non penso se siete bianchi o siete neri: penso che siete ricchi.

[ride] Ma magari.

No, ma davvero: perché la discussione attuale sull’identità tiene conto di tutto tranne che di quel che conta, cioè la classe sociale?

Gli americani non hanno mai avuto un pensiero raffinato quanto quello degli europei, su questo tema. Un po’ è perché abbiamo questa meravigliosa mitologia dei fondatori, ha presente?, quella della terra delle opportunità e delle libertà. Quando in realtà siamo una società basata sul fatto che alcuni sono liberi, alcuni sono proprietari terrieri, la maggioranza dei bianchi è povera, e poi c’è un’intera classe di persone che sono state schiave. Ma l’idea di America è basata sul fatto che abbiamo tutti le stesse possibilità. Se io fossi cresciuto in un posto in cui fossi stato consapevole della mia posizione sociale, non avrei combinato una frazione di quel che ho fatto, non sarei diventato uno scrittore. Qualche volta bisogna essere un po’ mitomani per diventare migliori. Le persone troppo consapevoli dei propri limiti sognano meno, e ci provano meno.

Mi sta dicendo che la struttura sociale vale meno della psicologia?

La struttura esiste, certo che esiste. Non tutti sono capaci di illudersi e di convincersi che possono farcela, e parlo anche di traguardi minori. Ma alcuni ce la fanno, ed è perché la psicologia conta. C’è un abisso tra quel che prova a fare un imprenditore francese equipaggiato d’una qualche consapevolezza dell’ambiente in cui si muove, e quel che prova a fare un americano. Non c’è proprio paragone. E sì, c’entra la struttura sociale, ma c’entra anche la capacità di convincersi che tutto è possibile. Ma, tornando alla sua domanda, sì, agli americani manca la consapevolezza raffinata della struttura sociale, e quel che dice Adolph Reed, ed è in minoranza in questa convinzione, è che la razza e il genere e l’identità sono modi di coprire le enormi differenze non solo tra i gruppi ma all’interno degli stessi gruppi: l’uno per cento dei neri controlla, rispetto agli altri, lo stesso volume di ricchezza dell’un per cento dei bianchi rispetto agli altri bianchi.

Il primo atto ufficiale di Joe Biden è stato permettere alle persone trans di frequentare gli spogliatoi delle palestre che più sentivano affini: è un tema che davvero importa a una qualunque maggioranza d’un qualunque elettorato?

Ci sono guerre culturali che è un lusso potersi permettere. Chi deve preoccuparsi di guadagnare abbastanza col suo lavoro nei magazzini di Amazon per mantenersi è difficile abbia tempo d’occuparsi degli spogliatoi. Credo fosse più che altro un modo di segnalare all’elettorato che non ti opporrai ai cambiamenti sociali. D’altra parte anche molte scelte di Trump servivano a segnalare ai suoi elettori che nulla sarebbe cambiato.

C’è una scuola di pensiero che dice che i ragazzi tengono tanto a questi temi perché non hanno un futuro economico.

Non credo sia vero. C’è moltissima gente che economicamente sta bene. Ma c’è un contagio delle idee che avviene tramite i social network ai quali tutti siamo connessi, sarebbe interessante capire che cosa importa ai giovani, in cosa credono, come percepiscono il mondo in assenza dell’iPhone o di Twitter. E’ un contagio ideologico. Certo, non avranno il boom economico che c’era nel dopoguerra, ma non vedo un futuro così cupo.

C’è una retorica del non-siamo-maistati-così-male, mi pare. In Self-Portrait in Black and White racconta che alla nonna di sua moglie i nazisti sequestrarono la casa per farne un quartier generale. In Italia c’è una gran discussione sulla necessità di pagare lo psicologo ai giovani traumatizzati dalla pandemia. Una mia amica novantatreenne mi ha detto che loro, che avevano fatto la guerra, non avevano avuto bisogno dell’assistenza psicologica. Credo che se lo dicesse in pubblico la lincerebbero.

Mio padre è del 1937, noi ce li sogniamo i traumi emotivi – e non solo – che hanno avuto loro. In Texas i neri venivano linciati: è difficile spiegargli che oggi consideriamo triggering che una emoji abbia il colore sbagliato, e chiamiamo quello razzismo. Siamo così liberi dalle vere questioni gravi che siamo liberi di crucciarci per i nostri microproblemi. Non c’è mai stato un momento migliore per essere nero in America. Non c’è mai stato un momento migliore per essere europeo: sì, nel dopoguerra c’era l’entusiasmo della ricostruzione, ma teniamo anche presente che c’era stato l’Olocausto, eh. La sua amica novantatreenne si ricorderà un mondo decimato dalla Spagnola: non è neppure la prima generazione ad affrontare una pandemia, questa. È che non ci si ricorda di niente. Si dà per scontato che si possa viaggiare, o che si possa avere tutto il mondo sul proprio schermo. Credo che ogni generazione debba imparare le proprie lezioni daccapo. In America i ragazzi mancano di consapevolezza storica. Alexis de Tocqueville diceva, cito a memoria, che le persone sopportano oppressioni terribili, e poi appena lo stivale che gli schiacciava il collo viene sollevato, la loro reazione è violentissima: dopo, quando tornano a respirare, non prima. Facciamo fatica a parlare di quanti progressi abbia fatto la società, di quanto non sia razzista, adesso.

Finirà? Saremo morti di vecchiaia per quando questi tic passeranno?

Di sicuro non finirà domani. Basta vedere quanti anni ci vollero, a Parigi e a New York, perché gli ambienti culturali la smettessero di parlare dello stalinismo come un modello cui tendere. Poi la reazione di solito eccede dal lato opposto. E’ per quello che la wokeness esagera, perché è ipercorrettiva. Ma credo che si riequilibrerà. Voglio crederci, ma non ci sono garanzie. Oppure potrebbe esserci, non so, una guerra tra Cina e America, e allora dovremmo rivedere le nostre priorità e non potremmo più occuparci del colore della pelle delle emoji: sono conversazioni da tempo di pace, queste.

La vittimizzazione è il privilegio di periodi in cui non siamo seriamente vittime di nulla.

Persino Trump aveva una piattaforma elettorale vittimistica: gli immigrati vi rubano il lavoro, siete vittime dei confini aperti. Nelle università ci sono maschi bianchi che tentano di passare per queer dicendosi ‘poliamorosi’, ora vai a letto con tante donne e hai un’identità da vittima marginalizzata che in certi ambienti ti fornirà un prestigio sociale. Ho visto definire ‘appropriazione culturale’, non so neanche se scherzassero o no, il disegnarsi delle finte lentiggini sulle guance. E’ come se si tenessero costantemente delle olimpiadi della depressione, e il trofeo va a chi è più vittima.

Avendo quella sicurezza di sé che viene solo dalla combinazione di curiosità intellettuale e benessere economico, TCW si permette anche di, educatamente, simulare inferiorità. A un certo punto si svolge tra noi un dialogo surreale, a proposito di Nothing was the same, il suo libro in uscita l’anno prossimo, che racconta come il 2020 fu l’anno che cambiò tutto. Lui chiede quanti libri io abbia scritto; io dico che sta per uscire il settimo e sto scrivendo l’ottavo; lui dice “wow, per me otto libri sono un sogno, puoi essere molto soddisfatta, io con tre non ancora”; io gli faccio notare che dei miei non importa niente a nessuno e che il prossimo suo ancora non l’ha consegnato e già lo stanno traducendo in mezzo mondo, e che comunque Margaret Mitchell scrisse solo Via col vento (avrei potuto trovare un esempio più sensato, ma stavo improvvisando); lui ammette che sì, “puoi scriverne anche solo uno, purché sia clamoroso”. E finalmente arriviamo alla vera ragione per cui volevo parlargli: la sua ossessione per la forma fisica in generale, e in particolare per i burpees, quelle flessioni col saltello. Dice che bisogna farne cento al giorno, ogni giorno. Gli s’illumina lo sguardo a rievocare quand’ha capito che non voleva essere un intellettuale che sorseggiava vino davanti al computer ma uno con gli addominali a tartaruga. Della pandemia senza palestra, quand’ha capito che i cento burpees poteva farli a casa e bastavano. Gli dico ma quindi il titolo Nothing was the same parla di questo. “Se non riesco a far quadrare l’incrocio tra la morte di George Floyd e l’estate della pandemia, magari scrivo un libro di consigli ginnici”. Ride. Ma è serissimo.

Thomas Chatterton Williams (Newark, 1981), è uno scrittore e critico culturale americano. Ha scritto “Losing My Cool” (Penguin, 2010) e “Self-Portrait in Black and White” (W. W. Norton & Company, 2019). Il suo prossimo libro, “Nothing Was the Same”, sarà pubblicato da Knopf. Vive a Parigi.

Guia Soncini (Bologna, 1972), scrittrice. Ha pubblicato, tra gli altri, «I mariti delle altre» (Rizzoli, 2013, Premio Forte dei Marmi), «L’era della suscettibilità» (Marsilio, 2021) e «L’economia del sé» (Marsilio, 2022). Il suo ultimo libro è «Questi sono i 50» (Marsilio, 2023).