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Cara mammina, per sempre tuo psycosissimo

Dai ripostigli della commedia spuntano madri dispotiche e figli nevrotici: Robertino, il tenero Leo di Carlo Verdone, ma soprattutto Didino di Alla mia cara mamma: è lui il nostro Norman Bates, ovvero il maschio inetto. Luciano Salce da qui all’eternità

Ma dico io, con tutte le mamme dispotiche, i figli maschi nevrotici e i grovigli edipici che abbiamo dalle nostre parti, specie da Napoli in giù, possibile che nessuno abbia avuto la pensata di girare uno Psycho all’italiana? Ne hanno fatti fin troppi in America, tra Brian De Palma, il sottobosco adolescenziale degli slasher, i cult eccentrici come Bad Ronald o The Baby. Anche la Spagna non si è fatta mancar nulla, e ha da offrire loschi tesori come La residencia o Mil gritos tiene la noche. E l’Italia? Non c’era terreno antropologico più propizio del nostro, in teoria, per innestare la pianta crudele di Alfred Hitchcock. Bastava una qualunque matrona meridionale munita di matterello al posto della signora Bates, un primogenito allampanato e sfaticato in canottiera nel ruolo di Norman, e la sceneggiatura si sarebbe scritta da sé. E allora, come mai non esiste uno Psycho italiano? Certo che esiste, vi risponderanno i cinefili più secchioni: si chiama Psycosissimo, ed è un film di Steno con Tognazzi e Vianello uscito nel 1961, un anno dopo l’originale. E sia. Ma Psycosissimo, a rigore, non è neppure una parodia. Se togliamo i titoli di testa stilizzati alla maniera di Saul Bass, qualche scena di voyeurismo alla finestra e la pensione El Buen Retiro facente funzioni Bates Motel, nel film di Steno resta ben poco di hitchcockiano. Tutt’al più, un’atmosfera da commedia nera e un umorismo sardonico: due cose che Steno padroneggiava senza bisogno di fare il giro largo dall’America. Qualche cinefilo ancora più puntiglioso vi citerà Il rosso segno della follia di Mario Bava, Spasmo di Umberto Lenzi, Gran bollito di Mauro Bolognini e forse Non si sevizia un Paperino di Lucio Fulci, in cui Marc Porel sembrava fare il verso ai tic e ai balbettamenti di Anthony Perkins. Ma io propongo di abbandonare del tutto il cinema dell’orrore per frugare in un ripostiglio meno ovvio, o forse nel più ovvio di tutti, la cantina dove abbiamo stipato per decenni il meglio di cui eravamo capaci – salvo poi dimenticarcene e lasciare che prendesse polvere: la commedia.

Se per fare uno Psycho servono prima di tutto una signora Bates imperiosa e un figlio psicologicamente assoggettato, è inevitabile pensare a certe coppie comiche di “mammina e mammone”, per citare il titolo di un episodio dei Nuovi mostri. Per esempio, il Robertino di Ricomincio da tre di Massimo Troisi, che vive nella casa-museo della signora Ida, protetto dalle tentazioni dei capelloni, della minigonna e un poco anche del grammofono. Oppure il tenero Leo di Un sacco bello di Carlo Verdone, che adibisce la sua casa non già a motel ma a ostello ferragostano per una disinibita avventuriera spagnola, oppresso da una madre che si manifesta solo come voce disincarnata in linea da Ladispoli (noi spettatori non la vediamo mai, salvo immaginarla, per allucinazione retrospettiva, con le fattezze di Lella Fabrizi). Cosa di più hitchcockiano della scena in cui Leo è allo zoo con la tentatrice straniera, e gli animali scatenano all’unisono i loro versi assordanti, a simboleggiare il suo desiderio imprudentemente liberato? Queste coppie perturbanti di mammina e mammone hanno propaggini fino ai nostri anni – un esempio è l’usuraio Geremia con la mamma immobilizzata a letto, nell’Amico di famiglia di Paolo Sorrentino – ma soprattutto sono al centro di tre film stranamente consonanti che il caso ha voluto uscissero tutti nello stesso anno, il 1974. Per amare Ofelia di Flavio Mogherini, con Renato Pozzetto, Di mamma non ce n’è una sola di Alfredo Giannetti, e soprattutto Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno di Luciano Salce, con Paolo Villaggio. Tutti e tre hanno per protagonista un figlio benestante se non aristocratico, timido e dai modi effeminati, che vive isolato dal mondo. Ostaggio psicologico di una madre che ostacola le sue relazioni con altre donne, è dirottato verso forme di erotismo surrogato, dal voyeurismo al feticismo alle bambole gonfiabili. Mancano solo gli uccelli impagliati. La salvezza catastrofica, o la catastrofe salvifica, arriva in tutti e tre i film per mezzo di una donna di estrazione sociale inferiore, una popolana, la quale cerca, per usare un magnifico conio di Gadda, di “dekierkegaardizzare” il delicato rampollo. Eccoli, i nostri Psycho all’italiana!

Alla mia cara mamma, tuttavia, merita più degli altri il lauro hitchcockiano. Quando approdò nelle sale, il film di Salce fu recensito – e per lo più malamente liquidato – come una satira di cattivo gusto dello stereotipo nazionale del “mammone”. Ma a ripensarci, era la cornice sbagliata. Il conte Fernandino detto Didino, incarnato da un Villaggio mai più così espressionista, non era uno dei tanti mammoni comuni, tutto sommato socialmente integrati, come era stato il Sordi del Medico della mutua o come sono, ai nostri giorni, certi personaggi di Checco Zalone. Quelli erano e sono paraculi ben pasciuti. Didino, al contrario, è il nostro Norman Bates. Se cambiamo cornice, possiamo considerare il cocco di mamma come una variante iperbolica ed estrema di una categoria più vasta, quella dell’“inetto”. Categoria di origine letteraria – dallo Zeno di Svevo al Vitangelo Moscarda di Pirandello – che la studiosa americana Jacqueline Reich, autrice nel 2004 di Beyond the Latin Lover, ha pensato bene di adattare anche al cinema.

L’inetto, che si affaccia sulla scena nel cinema postfascista e si accampa comodamente nella commedia degli anni Sessanta, è la nemesi beffarda del latin lover, perché custodisce il segreto inconfessabile della sua inadeguatezza: l’uno è codardo dove l’altro è baldanzoso, impotente dove l’altro vanta l’instancabilità del grande amatore, inconcludente e passivo dove l’altro è intraprendente e sfacciato. L’affollarsi di inetti nel cinema italiano è un prolungato effetto collaterale del miracolo economico – la società dei capelloni, della minigonna e del grammofono. E il 1974, l’anno dei nostri Psycho, non è un capitolo qualunque in questa vicenda: è l’anno in cui la legge sul divorzio, introdotta solo quattro anni prima, è sottoposta a referendum (la vittoria del no, amava dire Mario Monicelli, si dovette anche alla commedia all’italiana). Nell’onda lunga della contestazione, del femminismo, della liberazione sessuale e della modernizzazione, quello del maschio mediterraneo stava diventando un ideale irraggiungibile, un miraggio retrospettivo se non proprio reazionario. Gli inetti cinematografici non segnalavano tanto una nevrosi individuale, quanto un’impossibilità storica. Erano preda di un double bind, un doppio vincolo: non potevano più recitare con successo il copione del maschio tradizionale, e al tempo stesso erano stigmatizzati per questo fallimento. Interi filoni del nostro cinema esplorati ed esauriti in quegli anni – dai centoni medievaleggianti del decamerotico ai film su un meridione incestuoso popolato di zie e cugine promiscue – ribattevano il tasto di questa doppia ingiunzione paradossale: maschio devi essere; maschio non puoi più essere.

Ebbene, nel trittico di commedie nere sui mammoni, e specie nel film di Salce, a lanciare quei comandi contraddittori non è la società, la televisione o la pubblicità: è la Mamma, trasfigurata in istanza onniveggente e onnipotente – un po’ come la yiddische mame proiettata in cielo di Edipo relitto, l’episodio di Woody Allen in New York Stories. E questo psicodramma non si svolge all’aria aperta, ma tra le mura di una casa antica, opprimente e claustrofobica come quella della signora Bates. Certo, il modello esplicito di Salce non era Hitchcock. L’idea era quella di importare in Italia una vena di umorismo nero che veniva dalla Spagna, quella di Luis García Berlanga (che aveva diretto Nino Manfredi nella Ballata del boia) e dello sceneggiatore Rafael Azcona, autori del racconto a cui è ispirato il film. Eppure, io dico che dovremmo annoverare il film di Salce nella posterità italiana di Psycho. Una posterità un po’ bastarda, certo, ma ben riconoscibile. Non foss’altro per questioni di geografia e di scenografia. Al pari di Norman Bates – gestore di un motel tagliato fuori dalle strade principali, che vive in un eremo anacronistico in cui la vita moderna, se arriva, arriva per caso, come l’auto di Marion perduta nella pioggia – il conte Didino, nel film di Salce, è segregato in una villa di campagna dall’arredo antiquato e dallo sviluppo architettonico verticale e vertiginoso, magnificato dalla regia di Salce. La madre di Didino, la contessa Mafalda (una Lila Kedrova che sembra prefigurare la Shelley Winters di Gran bollito, inizialmente scritturata per la parte) gli appare perfino dall’alto di una finestra, proprio come la sagoma della signora Bates. A differenza del Renato Pozzetto di Per amare Ofelia, che era un ricco borghese settentrionale, Didino è il rampollo di un’aristocrazia decadente di proprietari terrieri. Del resto, Salce non era estraneo all’uso dei titoli nobiliari nella sua satira dell’Italia contemporanea, come testimoniano le contessine e le baronesse del suo Fantozzi. Gli aristocratici di Salce incarnano, nel loro rapporto immutabile con la plebe, una versione caricaturale dei rapporti di potere, spogliata di tutti gli orpelli e le ipocrisie democratiche. Negli stessi anni, per ricreare un teatro psicopolitico ridotto all’osso della dialettica servo-padrone, il cinema più serioso della lignée Pasolini-Cavani sceglieva, come un po’ in tutta Europa del resto, l’immaginario nazista; e Didino, che nel suo studiolo di fotoamatore esibisce un poster del Führer e che si fa perfino dei baffetti hitleriani con dei peli pubici, sembra ammiccare sarcasticamente alle mode della Hitler-Wave.

Intorno a Didino, che a trentadue anni non ha mai toccato una donna e ancora veste i calzoni corti e le maglie da marinaretto, si stringe il cappio del doppio vincolo. La contessa Mafalda gli agita davanti il fantasma del padre ipermascolino, al quale ha allestito un altarino domestico (“Era alto, aitante, virile!”), ma con l’altra mano gli sbarra la strada della virilità, perseguitando le belle intruse per le quali teme di essere abbandonata. Didino riesce ad avere relazioni solo con feticci, immagini pornografiche, simulacri, fotografie, mai con una donna intera. Colleziona bambole gonfiabili (ne fa perfino venire una nera da Casablanca) ma ne è frustrato. La Marion del nostro Norman – la donna che minaccia di recidere il nodo incestuoso – è Angela, una giovanissima Eleonora Giorgi, la domestica zoppa (vedi tu quante belle variazioni su Edipo!), che per sedurre il giovane conte dovrà camuffarsi da bambola gonfiabile. Hitchcock, c’è da scommetterci, ne sarebbe stato deliziato.

Stretto fra l’ordine di essere uomo e il divieto di diventarlo, Didino inscena la sua situazione paradossale per mezzo di travestimenti che hanno tutti i tratti del sintomo nevrotico, del compromesso tra spinte contraddittorie. Indossa i vestiti del padre morto, ma per inscenarne una parodia ostile; compone dei fotomontaggi incollando il proprio volto sui corpi di donne nude, ma il risultato è mostruoso. Cerca una via d’uscita da questa tagliola possedendo Angela ai piedi del letto della contessa, che dorme con i cetrioli sulla faccia, ma è come se si aspettasse dalla madre il permesso di ucciderla simbolicamente. Per poco non ci riesce. L’ultimo atto di questo romanzo di formazione erotica mancata è il malinconico bagnetto d’addio con cui la contessa Mafalda – che lo ha illuso di aver accettato la sua relazione amorosa – congeda il figlio prima dello svezzamento definitivo. Solo che la cara mamma annega Didino nella vasca, lasciando Angela ad aspettarlo nel giardino per una fuga d’amore che non avverrà mai. Le arriveranno le bolle di sapone che soffiano dalla finestra della scena del delitto. Insomma, non c’è la scena della doccia, in compenso c’è la scena della vasca, come nei Diabolici di Clouzot.

Perché cercare il nostro Psycho tra i film dell’orrore? Nascosto in una commedia nera di allegorica e astratta crudeltà, Alla mia cara mamma disegnava il ritratto deforme di un sommovimento epocale: il tracollo del maschio italiano fra la tirannia castrante della mamma, il fantasma irraggiungibile del padre e le sirene elusive della società della cuccagna. Come abbiamo fatto a dimenticare un film del genere? Io dico che dovremmo tutti rivedere il film del caro Salce nell’anno del suo centenario.

Guido Vitiello (Napoli, 1975), scrittore, ricercatore e docente universitario. Insegna Cinema alla Sapienza di Roma. I suoi ultimi libri sono «Una visita al Bates Motel» (Adelphi, 2019) e «Il lettore sul lettino» (Einaudi, 2021).