Una limousine mi sta aspettando davanti all’agenzia. Dal retro dell’abitacolo climatizzato, il broker, rannicchiato come un grosso gatto sui sedili in pelle, mi tende una mano ferma e affabile. Ha fiutato l’affare dell’anno, il cliente giusto: «Vorrei comprare un loft a SoHo. Non importa quanto costa. Mi mostri ciò che c’è di meglio nel quartiere», gli ho chiesto al telefono tre giorni prima.
Iniziamo il nostro giro, fatto di piccoli spostamenti assurdi – incastonato tra Houston a nord, Canal Street a sud, Broadway e West Broadway, il quartiere, classificato come monumento storico, venticinque isolati, è minuscolo. Le prime case non sono un granché. Ma la quarta, mamma mia: ho trovato il loft dei miei sogni. Situato all’angolo dell’ultimo piano di un edificio del 1872 rivestito di pannelli in ghisa prefabbricati, è immenso, luminoso e arioso, truly extraordinary, dice il broker, indicando le colonne scanalate, le diciassette «finestre enormi» e la vista da togliere il fiato sulle torri dell’acqua e i cornicioni ornati delle facciate circostanti: la vecchia New York. Siamo d’accordo: l’arredamento, sovraccaricato di quadri orrendi, cuscini e plaid a tinte pastello, è indegno del luogo; deve essere minimalista, come quello di un piano dell’immobile di Donald Judd, a Spring Street, a due passi da lì, impreziosito da un tubo fluorescente di Dan Flavin per esempio, o da un parallelepipedo in acciaio di Judd, morto nel 1994, e la cui Fondazione ha mantenuto intatti gli appartamenti e l’atelier. «E’ così che si gode al meglio dello spirito del loft e di SoHo», dice il broker. Mi bevo le sue parole e intravedo la prima festa, la stupefazione degli amici, della famiglia, sorseggiando con gli ex della Factory di Andy Warhol, la modella Helena Christensen, Kylian Mbappé, il gallerista Vito Schnabel e Angela Merkel. Abbiamo ovviamente parlato anche di soldi: il gioiello vale un po’ (pochino) meno di 9 milioni di dollari, ai quali vanno aggiunti quasi 7 mila dollari di spese condominiali. «Questo bene eccezionale non resterà a lungo sul mercato, dunque, senza volerle mettere pressione, le consiglio di formulare un’offerta se le interessa». Sono sul punto di cedere – e dunque di apporre la firma sulla nota spese più esorbitante della storia della stampa mondiale – quando il mio telefono vibra e interrompe il mio sogno a occhi aperti.
L’acquisto del loft è un’eccellente introduzione alla mia storia di SoHo. È iniziata per caso, nel novembre dello scorso anno, in occasione di un vernissage in una galleria di Tribeca, dall’altro lato di Canal Street, alcuni isolati più a sud. Lì ho conosciuto il pittore neoespressionista David Salle attraverso un amico californiano in comune. Quando l’artista mi ha detto che aveva vissuto a SoHo alla fine degli anni Settanta, l’ho riempito di domande, ignaro, curioso, pensando, ma senza dirglielo, per fortuna, a Basquiat, Warhol e allo Studio 54, ad altre icone e ad altri cliché della New York sgangherata, sfolgorante e dissoluta dell’epoca – l’ultima epoca d’oro di libertà e di creatività che l’occidente continua a celebrare e da cui sembra non essersi mai ripreso.
Il giorno dopo, mi è capitata tra le mani una guida di SoHo risalente al 1979 in un negozio di libri usati nell’East Village. Pagando 100 dollari, ho letto nell’introduzione che SoHo era diventata la «capitale del mondo dell’arte newyorchese e dell’avanguardia», the place to be. Era difficilmente concepibile quando vi ho passato l’estate del 2011. Alcuni amici avevano prestato alla mia compagna dell’epoca un loft a Wooster Street, ma non era consigliato vivere in quello che trent’anni prima era il «quartiere più eccitante di New York». Deserto mattina e sera, quando i negozi erano chiusi, infestato di turisti e fanatici dello shopping nei fine settimana, non aveva alcun charme. Vivere a SoHo era come teletrasportarsi nelle prime quaranta pagine di Vogue, un universo freddo e asettico, saturo di insegne globalizzate. Solo i gruppi più potenti potevano permettersi un ufficio, perché gli affitti erano proibitivi; era più facile acquistare una valigia Vuitton che un chilo di mele. Cos’era successo al SoHo che lo scrittore Adam Gopnik paragonava alla Firenze del Rinascimento e alla Parigi dell’inizio del Ventesimo secolo? Com’era emerso l’effimero epicentro mondiale dell’arte contemporanea? E’ questa la storia che racconterò, in veste di archeologo, con la vecchia guida in mano.
«I miei amici hanno pensato che fossi pazza», racconta Paula Cooper. Colta e graziosa, l’anziana signora è una pioniera. Una visionaria: ha aperto la prima galleria del quartiere a Prince Street, nel 1968. «Ho preso in affitto due loft per 300 dollari al mese, un pezzo di pane paragonato ai prezzi proposti nell’Upper East Side e sulla 57esima», dove si concentrava il mondo dell’arte newyorchese.
«Avevo bisogno di spazio, non solo per mostrare le opere sempre più grandi che venivano create dai giovani artisti, ma anche per organizzare happening, concerti e letture di poesie in piena guerra del Vietnam, alla quale ero veramente contraria. SoHo, che non era ancora chiamato così, era il luogo in cui potevano svolgersi tali performance». Ci voleva la sfrontatezza della gioventù per lanciarsi in un’avventura così. O semplicemente del brio: il distretto ospitava ancora depositi, fabbriche (di cioccolato, di giocattoli, di finestre…), stamperie e miseri atelier di moda, più o meno clandestini, e già alcuni artisti. Il collettivo Fluxus, al quale apparteneva Yoko Ono, occupava un edificio a Greene Street; Chuck Close, che poco dopo diventerà il padre dell’iperrealismo, abitava di fronte alla galleria di Paula Cooper. «Per il resto era una zona malfamata. Nel tardo pomeriggio, chiudeva tutto, comprese le luncheonette che sfamavano gli operai, e le strade immerse nella penombra si svuotavano», ricorda Paula Cooper. I tassisti dovevano essere guidati durante la notte, non lasciavano mai dei clienti da queste parti: i borghesi della città alta superavano raramente la frontiera della 14esima e negli anni Sessanta non si frequentava Downtown se non c’era nulla di preciso da fare.
«Ritorniamo alla New York post guerra civile per capire com’è emersa SoHo», suggerisce James Sanders, architetto, cineasta e appassionato di urbanismo, nel suo ufficio-appartamento a Tribeca. Alla fine del Diciannovesimo secolo, la città vive un boom industriale senza precedenti e il suo porto «fenomenale», situato nel punto di confluenza delle rotte mercantili dell’Atlantico, del fiume Hudson e della regione dei grandi laghi, il cuore dell’America del nord, è diventato il centro dell’economia del mondo. «La parte sud di Manhattan era il luogo naturale per accogliere grossisti, arsenali e manifatture dove lavorava la manodopera di recente immigrazione insediata nei dintorni – a Chinatown, Little Italy e Lower East Side, dove si ammassavano gli ebrei dell’Europa orientale. Ciò ha portato alla costruzione di centinaia di immobili dello stesso tipo, rivestiti di pannelli in ghisa modulari, edifici che oggi rendono famoso SoHo. In ogni piano si trovavano uno o più loft, che in origine erano depositi o magazzini. La zona entra in declino dopo la Seconda guerra mondiale. Vengono costruite nuove strutture portuarie nel New Jersey, fabbriche e hangar di maggiori dimensioni a Brooklyn e nel Queens, mentre si sviluppano i trasporti aerei e autostradali.
«Le strette strade di ciottoli del quartiere non erano più appropriate al carico dei camion. I trasportatori perdevano un sacco di tempo salendo ai piani superiori». Abbandonate dai mercanti e dai manifatturieri, vengono affittate o occupate dai primi artisti, come Barnett Newman, in cerca di spazio e di luminosità. «Gli espressionisti astratti dipingevano su formati sempre più grandi. Idem per gli scultori. Non volevano più una stanzetta nel Greenwich Village, ma le grandi superfici che offriva il territorio», dice James Sanders.
«All’epoca non aveva un nome, i suoi nuovi residenti dicevano vagamente che abitavano a downtown, i pompieri lo chiamavano ‘gli undici acri dell’inferno’ a causa dei frequenti incendi che vi scoppiavano, altri lo ribattezzarono The Valley, alludendo all’altezza modesta degli edifici rispetto ai grattaceli dei dintorni», scrive Annie Cohen-Solal nella sua biografia del gallerista Leo Castelli. Nel 1959, la commissione di pianificazione della città di New York decide che la “Valley” deve essere rasa al suolo, così come una parte del Village, di Little Italy e di Chinatown, a beneficio della Lomex, la Lower Manhattan Expressway, un’autostrada che attraverserà la parte sud della città. Una strana coalizione – formata da attivisti, artisti, boss italiani e cinesi – moltiplica i ricorsi. Il sindaco di New York, John Lindsay, seppellisce il progetto dieci anni dopo. A causa della sua sorte in sospeso, il quartiere non si è sviluppato, ma qui si sono stabiliti un centinaio di artisti.
Judith Murray e Bob Yasuda, in coppia da sessant’anni, acquistarono un loft a West Broadway nel 1973 per 15 mila dollari – sormontato da un tetto-terrazza, oggi dovrebbe valere tra i 6 e gli 8 milioni. I due pittori ci vivono ancora. «Volevamo comprare perché eravamo stati cacciati dall’appartamento precedente». Ma la proprietà li proteggeva soltanto in parte: gli artisti non dovevano abitare nel loro loft, solo lavorarci.
«La zonizzazione a New York è molto rigida, mi aveva spiegato James Sanders. Le zone M indicano quelle manifatturiere, le C quelle commerciali e le R quelle residenziali, le uniche dove le persone sono autorizzate a vivere. Fino alla fine degli anni Sessanta, la ‘Valley’ era un distretto M1, un settore di industrie leggere. È in seguito passata a M1#A o #B: gli artisti potevano lavorarci a condizione di dimostrarlo, e di stabilirsi ai piani superiori degli edifici per non cacciare le ultime aziende che occupavano il piano terra». Judith e Bob si ricordano di aver presentato alcuni esempi del loro lavoro e un cv a un comitato della città per ottenere lo statuto di Artist in Residence, la cui sigla Air doveva essere apposta sul loro immobile – in caso di incendio, i pompieri sapevano che i piani erano occupati. Ma vivere nel loro loft era fuori discussione, ufficialmente. «Abbiamo messo il letto e il frigo di notte per non destare sospetti. Oscuravamo le finestre, e se qualcuno suonava alla porta non rispondevamo, per paura di trovarci di fronte a un ispettore». Jacob El Hanani gettava la sua spazzatura a Chinatown e dormiva su un futon. «Rischiavo di essere cacciato da un giorno all’altro. Il caos che regnava all’epoca è inimmaginabile. Ho dato una bustarella a un tipo che non era nemmeno il proprietario per stabilirmi qui», un loft a Broadway il cui affitto costava 150 dollari nel 1974 e che l’artista franco-marocchinoisraeliano occupa ancora – nel frattempo ha avuto la splendida idea di acquistarlo. «Non c’era corrente durante i weekend e nemmeno la sera, poiché le fabbriche chiudevano. Così, per anni, ho corrotto il portinaio con delle bottiglie di vodka affinché mi allacciasse all’elettricità che alimentava i lampioni di Broadway».
I primi tempi sono eroici per questi giovani artisti. I loft versano in uno stato pietoso, a immagine di New York, a rischio bancarotta e con un’insicurezza crescente. I topi, gli scarafaggi e i tossicodipendenti pullulano.
«Le finestre erano nere dalla sporcizia e i pavimenti sporchi di pittura. L’ascensore non funzionava», raccontano Judith e Bob. Non c’erano né cucina né bagno. «Bisognava reinventare quegli spazi che non erano mai stati adibiti ad abitazione. Ci aiutavamo a vicenda per i lavori. Un gruppo di artistiidraulici circolava di loft in loft». Fra loro, c’era anche colui che poco dopo diventerà il celebre compositore Philip Glass, «che non era molto bravo», sorride Judith. Quando il gas, l’elettricità e la rubinetteria sono messi a norma, gli occupanti possono aspirare al graal: il certificato di occupazione emesso dalla città di New York che li autorizza a vivere a casa loro.
Si è formato un quartiere di artisti, come a Montmartre, Montparnasse e più tardi a Berlino-Mitte, dopo la caduta del Muro. Il costo della vita è basso, gli artisti possono dedicarsi alle loro opere, lavorano moltissimo, l’emulazione è forte, stimolante. Il minimalismo e l’arte concettuale, in tutte le loro forme, conoscono il loro momento di gloria. Hanno preso il sopravvento sull’espressionismo astratto di Pollock e Rothko, e sulla pop art di Lichtenstein e Warhol. Donald Judd, Carl Andre, Frank Stella, Dan Flavin e molti altri vivono a pochi metri di distanza gli uni dagli altri. Le loro opere sovradimensionate, geometriche e sobrie (se non austere) portano l’impronta dell’architettura postindustriale spoglia del loro atelier. Si incontrano, nel corso dei famosi loft-party che contribuiranno a forgiare la leggenda del quartiere – le serate a casa di Bob Rauschenberg, che viveva a Lafayette Street, un po’ più a nord, erano molto frequentate, mi dicono – mangiano assieme o bevono un drink da Fanelli,
«il cuore del distretto», e al Broome Street bar, due istituzioni che sono miracolosamente sopravvissute agli stravolgimenti degli ultimi decenni. Pranzano da Food, una cooperativa creata dall’artista concettuale Gordon Matta-Clark, «il ristorante più popolare e forse il più amichevole di SoHo», indica la mia guida, assistono a concerti di musica contemporanea e a performance al Kitchen, a Broome Street. Patty Smith è spesso nei paraggi. Recita delle poesie.
Lo scorso autunno, sono andato a vedere una retrospettiva che il Guggenheim consacrava al pittore Alex Katz. Un dipinto ha attirato la mia attenzione: Mr. And Mrs. R. Padgett, Mr. And Mrs. D. Gallup. Rappresenta due giovani coppie capellute mentre bevono, chiacchierano e fumano attorno a una tavola bassa. Colorato, cool e allegro, rifletteva per me ciò che dovevano essere le serate degli artisti newyorchesi negli anni Settanta – l’opera è del 1971. I Katz vivevano a SoHo, informazione di cui non ero a conoscenza quando ho visitato la mostra. Così, mi sono messo in testa di incontrare il celebre pittore, oggi 96enne.
Tanto vale scriverlo subito: ho fallito. Katz si era già ritirato nel Maine quando sono arrivato a New York l’11 giugno. Ho strappato un’intervista telefonica venerdì 23 alle 15. Nessuno risponde a quell’ora al numero che il suo ufficio mi ha comunicato. Ero dispiaciuto: mi ero rintanato nella Scandinavia House, uno dei rari luoghi della megalopoli dove si riesce a sentire il proprio interlocutore senza indossare un apparecchio acustico. Ho aspettato, richiamato invano, e ho ripreso la mia strada. Alle 16.45, suo nipote Oliver mi fa sapere che possiamo fare l’intervista «ora». Mi rifugio in un caffè, che non è altro che lo storico Broome Street bar. All’interno, la musica strilla, e nel dehors dove mi siedo il rumore è altrettanto assordante: i newyorchesi corrono nel weekend attraverso l’Holland tunnel, è l’ora di punta. Della nostra conversazione mutilata ho registrato poche cose, purtroppo: Alex Katz ha acquistato un loft all’angolo di Prince e di West Broadway per 9.500 dollari nel 1968, lo ha ristrutturato da cima a fondo per sei mesi, adorava bere whisky e fumare sigarette con sua moglie e i suoi amici come sul dipinto ammirato al Guggenheim, e mangiava regolarmente in una tavola calda italiana di nome Luizi a Prince street. Vive ancora a SoHo.
Luizi è stato rilevato nel 1975 da Serge e Guy Raoul, due fratelli originari di Altkirch, paese dell’Alsazia. Al suo posto, ma senza modificare l’arredamento – un lungo bar all’americana, alcune tavole, e boiserie scure – hanno fondato Raoul’s, il primo bistrot francese di SoHo. «Il ristorante ha preso il volo grazie alla bistecca al pepe, rapidamente un punto di riferimento a New York – sono d’accordo, è deliziosa. Andy Warhol, Judy Christie, Leo Castelli e i suoi artisti venivano a cenare regolarmente», racconta Guy, il più giovane. The Valley è divenuta SoHo, quartiere d’artisti South of Houston (a sud di Houston street), dove la scena hip della New York elettrica della fine degli anni Settanta si mostrava regolarmente. The place to be, diceva la guida. «The place to be», ripete Jeffrey Deitch, gallerista, curatore d’arte ed ex direttore del museo d’arte contemporanea di Los Angeles. Subito dopo essersi diplomato nel 1974, il giovane uomo si precipita a SoHo. E ottiene il primo lavoro alla galleria John Weber. «Artisti, curatori, collezionisti, critici, americani ed europei, tutto il mondo dell’arte contemporanea che contava era ormai lì. Ci si incrociava ai vernissage, nei bistrot e per strada. C’era energia, una straordinaria concentrazione di talenti e di intelligenze. Formavamo una comunità, era favoloso». In pochi anni, vengono aperte decine di gallerie nel quartiere, che dal 25 settembre 1971 possiede la sua cattedrale, un immobile che fu il deposito di una compagnia di produzione di carta, situata al 420 di West Broadway. Quel giorno vengono inaugurate quattro gallerie, Castelli, Sonnabend, Weber, Emmerich. «Fu il primo grande magazzino del mondo dell’arte… e improvvisamente SoHo è diventato il centro del mondo, il posto in cui vivevamo: tutto il mondo dell’arte si è trasferito lì», ha dichiarato il pittore Billy Sullivan a Annie Cohen-Solal.
L’arrivo a downtown di Leo Castelli rappresenta un evento, il segnale inequivocabile. Il mercante d’arte triestino, sbarcato a New York all’inizio della guerra, è stato il grande promotore dell’espressionismo astratto e della pop art. La sua galleria uptown, a Lexington Avenue, era un punto di riferimento.
«Aveva introdotto le correnti dell’arte americana nella storia dell’arte in generale e ottenuto per l’artista del suo paese una nuova credibilità negli Stati Uniti e nel mondo», scrive la sua biografa. «L’apertura della sua galleria e quella, al piano superiore, di Ileana Sonnabend, la sua ex moglie, straordinaria scopritrice di talenti, ha definitivamente lanciato SoHo. A sessant’anni passati, Castelli era una figura rispettata, paterna e sempre elegante. Era il boss del quartiere», secondo la gallerista Angela Westwater, che lo incrociava quotidianamente al 420 di West Broadway quando lavorava da John Weber all’inizio della sua carriera.
I sabato di vernissage a SoHo attirano le folle. Riuniscono il quartiere, e presto riuniranno il mondo della cultura, i ragazzi alla moda, i giovani curiosi, i collezionisti e i benestanti dell’Upper East Side. «Era come un immenso block party. C’era tantissima gente per le strade», ricorda James Sanders, che all’epoca aveva una ventina d’anni. Woody Allen e i suoi attori camminano a SoHo in una scena di Manhattan. «Il sabato mattina a Soho era una delle cose più belle, emozionanti e ottimistiche dei rituali newyorchesi degli anni Ottanta», scrive Adam Gopnik.
Andy Warhol e i suoi accoliti non appartengono a quell’universo: «Passavamo ai vernissage – Castelli era il gallerista di Warhol, dopo tutto – ma non stavamo all’infinito. Gli artisti di SoHo erano degli intellettuali, delle persone serie, non li incrociavamo allo Studio 54! Ai loro occhi, Andy era un personaggio frivolo alla moda, circondato da persone ricchissime. Gli artisti diventeranno hip soltanto nel decennio successivo con Schnabel, Haring, Basquiat e Koons – le cui opere (e i formati) saranno più accessibili al grande pubblico rispetto a quelle dei minimalisti. È in quel momento che si mescoleranno i mondi dell’arte, della moda, della musica e dei soldi, e che SoHo, nella sua forma originaria, si disintegrerà poco a poco», mi spiega Bob Colacello, scrittore, fotografo (si potevano ammirare i suoi scatti glamour e maliziosi alla galleria Ropac a Parigi a inizio anno) ed ex direttore della rivista Interview di Andy Warhol.
Le autrici della vecchia guida lo avevano intuito. Ho ritrovato una di loro, Barbara Jakobson: «Messo da parte il lato pratico, volevamo lasciare una traccia di un luogo unico nella storia dell’arte americana che stava per cambiare. Mi ricordo molto bene di un pranzo con un promotore immobiliare in quel periodo. Ascoltandolo, avevo le vertigini: compreranno tutto, mio Dio, è la fine, mi sono detta». Quali sono i segni precursori? L’apertura della brasserie chic Odeon, dall’altro lato di Canal Street, della boutique Agnès B, dei primi hotel; la chiusura di un negozio di giardinaggio; la comparsa delle decorazioni di Natale; il successo planetario di Una donna tutta sola di Paul Mazursky, girato nel quartiere: ogni interlocutore ha la sua piccola idea. SoHo non è più un segreto per nessuno, SoHo è vittima del suo successo. L’economia del quartiere cambia: «Con gli artisti sono arrivati i collezionisti, poi i ristoranti e in seguito altri ristoranti, i negozi di vestiti, e più tardi i grandi marchi di lusso, che hanno attirato un numero sempre crescente di turisti. Entravano nelle gallerie con il loro passeggino come al supermercato. Alcuni sono andati ai piani superiori, altri hanno traslocato, poiché i proprietari preferiscono affittare i luoghi più costosi a dei commercianti», testimonia Jacob El Hanani. Alcuni artisti migrano verso Tribeca, il Lower East Side, Brooklyn; non c’è più bisogno di dipingere o di scolpire per insediarsi a SoHo: editori, banchieri, star dello show-biz, e Rupert Murdoch, il magnate della stampa conservatrice, si regalano un loft con cucina aperta, un must, un’arte di vivere inedita resa popolare dai media. Jan Hashey, un’artista, ex studentessa di Katz a Yale, diventata agente immobiliare alla fine degli anni Ottanta, si ricorda di aver venduto il primo loft a un milione di dollari poco tempo dopo.
«La gentrificazione avanza, la popolazione originaria viene sostituita da un’altra, più abbiente. Sotto Reagan, la deregulation dei mercati finanziari e il taglio delle tasse liberano enormi quantità di denaro. Piuttosto che prendersi un appartamento di modeste dimensioni nell’Upper East Side come i loro genitori, gli yuppies si stabiliscono a downtown nelle grandi superfici e acquistano opere d’arte, il nuovo cool», mi spiega Thomas Dyja, autore di storia contemporanea di New York. Greed! Avidità, cupidigia!, proclama Michael Douglas in Wall Street. La città di New York, indebitata fino al collo, lascia fare. L’aumento esponenziale dei prezzi degli immobili le garantisce introiti significativi.
Jay McInerney parla di una «nuova epoca placcata oro». L’antieroe di Le mille luci di New York, il suo primo romanzo nel 1984, sniffa strisce di cocaina nei bagni dell’Odeon: si chiude un’epoca.
È Paula Cooper, ancora lei, a dare il colpo di grazia al “vecchio” SoHo. Trasloca la sua galleria a Chelsea nel 1996. I suoi colleghi la seguono, salvo rare eccezioni, come Jeffrey Deitch, la cui galleria non si è mai spostata.
«Oh my god!», hanno esclamato i protagonisti più anziani di questa storia sfogliando la vecchia guida. Hanno ritrovato il loro ritratto, scattato da Robert Mapplethorpe, o i ritratti di amici e colleghi scomparsi. Sono emozionati, nostalgici ma lucidi. SoHo era una cometa, una squadra troppo bella per durare in una città tanto scrutata come New York. Hanno partecipato a un’avventura straordinaria, che ha ridato vita al sud di Manhattan, consacrato definitivamente New York come capitale dell’arte contemporanea, e irradiato il mondo intero: SoHo ha trasformato il modo di vivere e di concepire la città. Piuttosto che distruggere i vecchi quartieri, li si protegge, offrendo loro una seconda vita, anche a costo di fossilizzare questi quartieri; e nella megalopoli post gender e post sessuata, il più grande coffee-shop del mondo da quando il consumo di cannabis vi è autorizzato, le cose non finiscono mai di cambiare. In seguito all’epidemia di Covid, gli affitti sono (un po’) calati e decine di gallerie, «le più dinamiche», dice Jeffrey Deitch, ne hanno approfittato per stabilirsi a Tribeca. A due passi da SoHo, downtown è nuovamente al centro dell’arte newyorchese, anche se i giovani artisti non possono viverci.
Bob Colacello mi invita a una festa a casa di Vito Schnabel pochi giorni prima della mia partenza. Il gallerista organizza la serata che avevo immaginato per l’inaugurazione del mio loft da 9 milioni di dollari. Kylian Mbappé e Angela Merkel sono assenti, ma ci sono artisti, miliardari, donne e uomini splendidi e il nipotino di Isaac Bashevis Singer in camera, le cui pareti di legno sono tappezzate di opere del padre Julian e di Andy Warhol – fra gli altri. Ritrovo Bob a fine serata. Assomiglia a una festa della grande epoca di SoHo? No, è molto Factory, mi risponde. Ma che importa, c’è Helena Christensen.
Questo articolo è stato pubblicato lo scorso agosto sulla rivista francese Paris Match ed è stato tradotto da Mauro Zanon.