Cerca

C’erano le stelle, volevamo solo che finisse

Nel 2013 Kibret è arrivata a Lampedusa ed è stata messa in un sacco nero. Oggi vive in Svezia, ha tre figli e il terrore dell’acqua, anche del bagnetto. Dieci anni dopo il più grande naufragio nel Mediterraneo, i volti di chi non ce l’ha fatta e le nuove vite dei sopravvissuti

Vilken tid är middagen? Jalla, Jalla! Voci scintillanti di bambini arrivano attraverso la linea di Whatsapp e pronunciano parole che non comprendo. Non li vedo, ma li sento: ridere, litigare, chiamare la madre, insistere e ripetere soprattutto queste parole che sono per loro evidentemente importanti. Ne capisco solo l’intonazione, intuisco che è una domanda, ma anche un po’ uno scherzo. Kibret Berthe non dà loro retta perché sta parlando con me. Assieme a noi c’è anche sua sorella Ammy, che traduce. Intanto i bambini fanno i bambini, cioè noncuranti insistono. Sono tre maschi, hanno 8, 6 e 4 anni, Kibret si scusa e mormora loro qualcosa in una lingua che non è la mia, né la sua, non è l’italiano, non è l’arabo, né il tigrino. Non è neppure la lingua franca grazie alla quale ci parliamo, l’inglese. È un’altra lingua, che se non avessi paura di essere inutilmente enfatica direi che è la lingua del loro futuro: lo svedese. Vilken tid är middagen? Chissà che significa, mi chiedo. Capisco solo Jalla Jalla, l’incitazione araba a sbrigarsi, e che questa frase scatena fra loro una forte complicità, ridono, fanno la cantilena. È il loro lessico familiare e include anche parole italiane fra le quali ci sono Lampedusa e Bartolo.

Dieci anni fa Kibret è arrivata a Lampedusa e appena è arrivata è morta.

Era il 3 ottobre 2013 quando c’è stato il più grande naufragio nel Mediterraneo. In Italia non avevamo mai visto tanti morti tutti assieme. E anche quando qualche sfortunato veniva pescato dal mare l’orrore era ancora orrore, non era diventato abitudine. Nel 2013 eravamo ancora speranzosi e desiderosi di fare qualcosa verso chi scappava dall’Africa, per fame o paura delle bombe, eravamo ancora pieni di vergogna e angoscia di fronte alle foto dei bambini, tanto simili ai nostri, riversi sulla spiaggia, non eravamo assuefatti, non cambiavamo canale, ci pensavamo innocenti.

«C’erano le stelle – ricorda Kibret – stavamo da giorni in mare, eravamo sfiniti dal viaggio, impauriti, non vedevamo l’ora che finisse». La barca su cui si trovava era sovraffollata, molte donne e bambini erano sottocoperta, gli uomini di sopra, gli uni a fianco agli altri, senza parlare, trattenendo il respiro.

«Eravamo partiti il primo di ottobre da Misurata, in Libia. Avevamo pagato molto per la traversata, tutto quello che avevamo. Speravamo di arrivare presto, ma poi quando già si intravedeva la costa, la barca si è fermata, non andava più. Le persone intorno a me hanno iniziato ad agitarsi. Ricordo le urla, gli occhi degli altri che mi guardavano, ci abbracciavamo, le fiamme. E poi niente, il buio, si è spento tutto. Ho saputo poi che mi hanno raccolto dal mare, fredda, non avevo più il battito, mi hanno messo dentro un sacco chiuso, quello dove mettono i cadaveri». Nella videochiamata osservo Kibret mentre parla: ha i capelli lunghi, castani, leggermente screziati di rosso, forse si è fatta l’henné, sorride mentre si sforza di ricordare.

Quando è morta la prima volta, Kibret aveva 24 anni, veniva dall’Eritrea, non era sposata e non aveva figli. Oggi ha 34 anni, vive in Svezia, è sposata con un coetaneo eritreo, ha questi tre figli che parlano e ridono e litigano in sottofondo. Il 3 ottobre 2013 Kibret stava su un’imbarcazione libica di 66 piedi, 20 metri, salpata dal porto di Misurata due giorni prima con a bordo centinaia di migranti di origine eritrea ed etiope. La barca era quasi arrivata e improvvisamente si trovò in difficoltà. Si trovava a mezzo miglio dal porto di Lampedusa, a un passo dalla salvezza. Un buon nuotatore non avrebbe faticato a raggiungere la riva. Di qua, sull’isola, la gente dormiva. Non era ancora spuntata l’alba e Lampedusa stava immersa in una tranquillità non vacanziera, ovattata, fiduciosa. Ignorava quello che stava per accadere. Pietro Bartolo, l’europarlamentare che oggi lavora a Bruxelles, era ancora soltanto un medico sconosciuto di un’isola del Mediterraneo. Vito Fiorino, il pescatore che salverà moltissimi migranti, era fra i pochi svegli perché era uscito con la sua barca in cerca di qualche cernia e qualche triglia.

Di là, in acqua, il motore dell’imbarcazione si blocca, la barca dondola, a bordo donne, uomini e bambini sono impauriti e stanchi. Talvolta un piccolo gesto basta a rovinare tutto, un’iniziativa banale fatta con le migliori intenzioni può determinare il confine tra commedia e tragedia. E anche in questo caso è andata così: per attirare l’attenzione l’assistente del capitano dà fuoco a uno straccio e lo agita perché si alzi il fumo e chi passa possa vedere la barca in difficoltà, ma questo spaventa una parte dei passeggeri che si agitano, si spostano tutti su un lato dell’imbarcazione che è già sovraccarica di persone, la barca si rovescia, gira tre volte su se stessa e poi cola a picco. Sono le 6.40. Kibret e tutti gli altri finiscono in acqua.

Alcuni muoiono subito, altri riescono a stare a galla, alcuni sanno nuotare, molti no. Kibret muore per la prima volta, il suo corpo è in acqua, inerme, senza battito. Alle 7 alcune barche e pescherecci in zona notano i naufraghi e lanciano l’allarme. La Guardia costiera arriverà quasi un’ora dopo il naufragio, saranno i pescatori a gestire i primi soccorsi, a caricare la maggior parte dei superstiti a bordo. «Urlavano dal mare, mi sembravano gabbiani, invece erano uomini – racconta uno dei pescatori, Vito Fiorino – Li tiravamo su con le scalette e con le cime, ma erano scivolosi, perché erano coperti di nafta, non riuscivano a sollevarsi sulla barca, afferravamo le braccia, ma scivolavano. Erano stremati, nudi. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo, ne abbiamo tirati su tanti, alcuni vivi, ma anche dei corpi senza vita. Ci siamo messi a piangere». Falegname e pescatore, pugliese di origine e cresciuto a Milano, Vito Fiorino assieme a un amico ha salvato 47 persone. Anche Costantino Baratta è un pescatore e come molti era per caso in alto mare quella mattina presto con la sua barca: «Alcuni tossivano l’acqua mista a carburante che avevano bevuto, altri sembravano morti ma li abbiamo presi lo stesso sperando di poterli salvare».

Secondo i superstiti, in particolare secondo Mussiie Ghebberhiert, alla partenza a bordo c’erano 545 persone. Subito dopo il naufragio vengono ripescati in mare 194 cadaveri, altri 108 corpi vengono recuperati nei giorni seguenti quando finalmente è stato possibile accedere alla parte interna dello scafo della barca poggiata in fondo al mare, a circa 47 metri sotto la superficie dell’acqua. Le ricerche continuano e i giorni seguenti si fanno altre tragiche scoperte. Alla fine saranno 368 i morti accertati (362 eritrei, 6 etiopi) ai quali vanno aggiunti circa 20 dispersi, i cui corpi non sono mai stati trovati. Nel naufragio, il più grave per numero di vittime nel Mediterraneo, sono morte tante donne e tanti bambini anche perché molti erano al riparo sottocoperta e sono rimasti intrappolati.

Alla fine i sopravvissuti sono 155, anche se in realtà sono molti di più perché ci sono i figli di Kibret e di quelli come lei scampati al naufragio e un giorno ci saranno dei nipoti, tutta gente che altrimenti non sarebbe neppure nata.

Fra i superstiti c’è Solomon Asefa, che era partito con due amici di 22 e 23 anni: «Mi sono salvato solo io. Torno ogni anno a Lampedusa a portare dei fiori a chi non ce l’ha fatta. Devo la mia vita a Vito Fiorino, che è per me come un padre. Mi ha issato sulla sua barca, non avevo nulla, neppure i vestiti, gli ho chiesto dei pantaloni. Ora vivo in Svezia, mi sono sposato, ho un bambino,

faccio il camionista». Si è salvata anche Fanus che nel 2013 aveva 16 anni, è l’unica che ha denunciato lo scafista, lo ha riconosciuto. È rimasta per questo tre mesi dentro l’hotspot. Non sapeva nuotare, non sa come ce l’ha fatta. Ora anche lei vive in Svezia. Come Kibret che all’inizio era conteggiata tra i morti, ma poi è tornata fra i vivi.

«Stavo al molo – racconta Pietro Bartolo da Bruxelles – assistevo chi arrivava. C’erano tante vittime. Non potrò mai dimenticare quelle ore, avevo visto molti naufraghi, ma un dramma così grande era la prima volta. A un certo punto apro questo sacco dove c’è il corpo di questa donna. Dovevo soltanto constatarne il decesso, ho sentito il polso e non c’era battito, ma mi sono detto aspetta un attimo, ho atteso tenendole sempre il polso e poi ho sentito qualcosa, molto flebile. L’abbiamo tirata fuori dal sacco, è stata una corsa contro il tempo: l’ambulatorio, il primo soccorso, il trasporto in elicottero fino al reparto di rianimazione più vicino». Quando Kibret è stata raccolta, quando l’avevano creduta morta, indossava un reggiseno con dei numeri di telefono scritti sopra, probabilmente familiari rimasti in Eritrea o parenti da contattare una volta arrivata in Europa. Uno di questi numeri apparteneva alla sorella di Kibret, Ammy, che da Stoccolma mi spiega che quel viaggio Kibret non riesce a dimenticarlo. Certo ora ha una casa, un lavoro part time come assistente per anziani, dei figli, ma «il trauma non riesce a superarlo». Le chiedo di spiegarmi meglio. «L’acqua le fa paura, non solo il mare, anche quando fa il bagnetto ai suoi bambini è terrorizzata che affoghino». Le chiedo se Kibret parla mai di quelle ore, la notte in cui è morta e poi è rinata. «Se ne parla? – dice Ammy con un sorriso amaro – Tutti i giorni, ne parla tutti i giorni. Per questo ti dico che ha bisogno di aiuto».

Anche Pietro Bartolo pensa spesso a quei giorni. Il dolore di aver dovuto constatare la morte di tanti si affianca alla gioia di averne salvata almeno una. Gli chiedo se ha mai pensato che potevano essercene altri di vivi tra i morti e magari nessuno se n’è accorto.

«Certo, ci penso spesso, mi tormenta questo dubbio. Abbiamo ispezionato tutti i corpi nei sacchi, lo abbiamo fatto con attenzione, so che non è possibile, ma ci penso. Soprattutto mi torna nei sogni l’immagine di un bambino che ho scosso e tentato di rianimare nella speranza che fosse vivo. Non lo era. Ma torna a trovarmi di notte qualche volta, mi rimprovera per non averlo salvato e questo senso di colpa mi accompagnerà sempre. Anche ora che parlo il suo volto ce l’ho davanti agli occhi».

Pochi giorni dopo la tragedia il 18 ottobre l’Italia avvia l’operazione Mare Nostrum. Vengono impiegati tra i 700 e i 1.000 militari, elicotteri, droni, navi, pattugliatori, fregate pattugliano il mare, uno sforzo enorme. Un anno dopo quell’esperienza finisce, l’innocenza è perduta perché l’innocenza ha un costo e l’Italia dopo aver fatto due conti si è accorta che non era sostenibile. Le operazioni europee che hanno preso il posto di Mare Nostrum, Triton prima e Frontex poi, non hanno mai avuto come missione quella del salvataggio di esseri umani. Dieci anni dopo l’Italia è ancora sprofondata nel passato, è in stato di emergenza per l’immigrazione, gli sbarchi continuano, i naufragi pure. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni dal 2014 a oggi sono morti nel Mediterraneo oltre 26 mila migranti.

«Lampedusa! Italia! Bartolo!», ripetono i bambini al telefono e poi: Vilken tid är middagen? Chiedo loro che cosa vuol dire. Kibret ride, scrolla la testa, mi spiega che i bambini chiedono quando si cena. Un giorno questi tre bambini vivranno in città diverse, alcuni magari in altri paesi, forse non si sentiranno spesso, ma quando si incontreranno basterà, fra loro, una parola, una frase, una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della loro infanzia per riconoscersi. Diranno Vilken tid är middagen? O forse Lampedusa! O Bartolo! E, come scriveva Natalia Ginzburg, con quelle poche parole ritroveranno a un tratto i loro antichi rapporti, e «la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole». Frasi che non esisterebbero se qualcuno non avesse ripescato Kibret dal mare, se non avesse aperto quel sacco, se non l’avesse riportata fra i vivi.

Valentina Furlanetto (Montebelluna, 1972), giornalista di Radio 24 il Sole 24 Ore dal 2002, cura e conduce la trasmissione “I figli di Enea, storie di italiani di origine straniera”. Il suo ultimo libro è “Noi schiavisti” (Laterza, 2021).