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Cerco una strada per aggirare il male

Cara Toni, rubo continuamente le vite degli altri e la mia. Ma non ho nessun rimorso, per me conta solo la temperatura della pagina e la pressione della voce

Cara Toni

sono in difficoltà. La tua lettera mi turba perché è calda e feroce. Mi riporta ancora una volta a ciò che penso della tua scrittura: qualcosa di assolutamente naturale, in un perenne stato di grazia.

Non so se te l’ho mai detto a voce, ma la scrittura per me è una grande fatica. Quindi sento di accogliere molto in profondità la tua paura. Chi ama la letteratura in fondo non può che avvicinarsi alla scrittura che con un grande timore. Penso a tutti i grandi libri che ho letto, gli scrittori che ho amato, certe frasi che tornano nei pensieri ricorrenti, e poi di tutte le opere lette ci rimangono, attorno e dentro di noi, quelli che Robert Walser chiamava gli spiriti. Forse per questo approccio al mondo mantengo una grande reverenza verso i maestri.

Scrivere un libro è estenuante. Diffido da lettore quando sento qualcuno che dice di essersi divertito a scrivere. Ecco sì, ti sei divertito, ma forse noi lettori ci siamo divertiti meno. Penso. Anche se poi non credo che la letteratura sia una fuga dalla realtà, una strada dello svago, come ormai pensano quasi tutti.

Ma credo sia un arricchimento della realtà, il più stupefacente strumento per potenziare la vita. Quando scrivo non penso a nulla di teorico, ma lotto tutto il tempo con qualcosa di diverso dalla paura, e io la sento somigliare più a una specie di negligenza, una pigrizia atavica, un abbandonarmi al dolore dell’atto mancato. Eppure immaginare mi piace tantissimo, ecco, quello proprio lo faccio tutti i giorni. Sto sempre nei miei cieli e nei miei pozzi fantasiosi, quando la vita reale chiama per fare una fila dentro un ufficio, rispondere a una mail, prendere un treno o accompagnare un tuo caro in ospedale, succede che quell’immaginazione non si ferma, si perturba, le trame si intrecciano ulteriormente fino a volte diventare una visione o un miraggio.

Poi compare il grande tranello della memoria selettiva, le trame svaniscono. Non ho più le parole, anzi, non ho più la forza di continuare.

Nelle prime righe della tua lettera, parlando della tua scrittura, hai messo assieme la parola Ambizione e la parola Scomparire. Solo una vera scrittrice sa tenere assieme i mondi che sembrano agli antipodi. Aveva ragione quel demone di Alberto Moravia quando diceva che la scrittura è un atto di stregoneria personale. Ogni giorno scriveva una parola alle sei del mattino e poi da lì srotolava le trame. Cominciare da Ambizione e finire a Scomparire mi sembra uno di questi atti di stregoneria.

A questa trama che hai dipanato ci ho pensato nei giorni in cui scrivevo e cancellavo questa risposta. Poi mi sono detto detto che non bisogna pensarci troppo. C’è un dolore di mezzo. Il rischio ovviamente è quello di lasciarsi distruggere. Ma come tutti i dolori, i lutti, le separazioni va elaborato. Ed elaborare significa digerire le cose. Con la digestione si trattengono le sostanze vitali e e si eliminano gli scarti. Il primo libro per molti scrittori non è il primo libro, infatti mi verrebbe di chiederti se tu intendi per primo libro quello che un autore pubblica o quello che un autore ha scritto per primo. Ci sono tanti autori che hanno esordito con il loro secondo manoscritto e poi hanno pubblicato il primo. Certo la storia editoriale di uno scrittore inizia col primo romanzo edito mentre la sua storia letteraria può essere altra cosa. Antonio Franchini vent’anni fa scrisse un piccolo saggio sui lettori di manoscritti, ed essendo lui un editore, ma anche uno scrittore sublime, scrisse che la storia della letteratura si fa dopo l’intervento degli editor. Questo dunque apre il seguente scenario: l’esordio letterario coincide con l’esordio editoriale, ossia nel momento in cui un estraneo alla tua cerchia familiare e amicale ti legge. A proposito di ciò, e con migliori parole delle mie scrive Franchini: “La letteratura assai di rado è fatta con la attiva, presente consapevolezza, ma quasi sempre si fa a partire dalle scelte che facciamo – o filtriamo – noi (funzionari editoriali nda). La nostra responsabilità sarebbe spaventosa, ma noi non la sentiamo. In parte perché siamo persone realmente umili in parte perché ci torna utile far credere di esserlo più di quanto lo siamo”.

Certi editor in fondo sono come degli psicologi a cui abbiamo lasciato i nostri sogni e la nostra immaginazione e ci aiutano a organizzarla e farla combaciare il più possibile con la nostra identità. Ma forse divago anche io, perché il tema dell’esordio a me è molto caro. Se c’è una cosa che amo, è vivere con gli esordienti i mesi che precedono l’uscita del loro primo romanzo. L’unica cosa che mi manca del mio vecchio lavoro, anche se oggi, di nascosto ancora un po’ lo faccio come quei fumatori che hanno smesso di fumare, ma non disprezzano ancora il tabacco e si concedono una sigaretta rubata al pacchetto di un amico dopo una buona cena oppure un piccolo pianto.

Ci sta sempre fumare una sigaretta dopo che si è pianto, anche se non si fuma.

Cara Toni, alla fine della tua lettera mi è salita una frenesia venata anche da una piccola melanconia. Ci somigliamo un sacco, e non solo per quel mare su cui abbiamo passato le albe ad aspettare il sole spuntare, a scacciare il buio untuoso delle notti insonni (l’Adriatico è proprio una forma mentis maledizione). Ci somigliamo perché abbiamo ballato un sacco nella vita e come insegnano gli antichi, si balla per scacciare gli spiriti maligni e ingraziarsi quelli buoni, anche se quella linea sottile tra il male e il bene, è sempre labile.

Insomma citando quel passaggio di Calvino, hai toccato il punto. In fondo la scrittura a certi livelli diventa una forma di distruzione, ma dopo la distruzione non può che esserci un nuovo mondo, e per farlo si rinuncia a qualcosa. Non tutti lo sanno fare. E farlo non paga quasi mai. Quanti ci hanno provato e sono rimasti con un pugno di fogli scritti che non diventano mai una storia. Ricordo quella mattina di fine marzo quando ti scrissi quel messaggio. Era il 2010, vivevo al di sopra delle mie possibilità.

Sono periodi che capitano a certe personalità disturbate, e quando capitano sopravvivi cercando gli attimi di purezza per dimenticare il filo sul quale corri. Se caschi è un casino. E anche se la letteratura per me non aveva un grammo di innocenza in quella fase della mia vita, rimanevo attaccato a un’idea che avevo imparato dai vecchi maestri che avevo incontrato nei miei primi anni di lavoro editoriale. Ferruccio Parazzoli è uno scrittore che ha conosciuto moltissimi grandi del Novecento e lavorava come consulente in Mondadori. Nel suo Inventare il mondo scrive una cosa che amava ripetere anche a voce. “La domanda da porsi è: questo romanzo è vivo o è morto?” E infatti scrive più avanti in quel libro – che per me è una bussola nel bosco aggrovigliato della scrittura – che “i libri sono dei corpi vivi. Hanno una loro temperatura che è stata trasmessa dall’autore.” E con la temperatura, la pressione visto che l’autore può trasmetterla “anche alla pagina”.

Capire se un romanzo è vivo o morto, se ha una temperatura e una pressione (alta o bassa che sia), o non ne ha proprio, è spesso compito delle sensibilità di chi legge.

Devozione mi fece l’effetto di aver trovato quel romanzo di cui parlava Parazzoli, un libro con la temperatura giusta, con la pressione dell’autrice, e dove le cose che sembravano fuori dalle regole della scrittura perfetta che si cercava in quegli anni, erano invece la causa principale della sua potenza.

Brutalizzando l’insegnamento di Parazzoli in una massima si potrebbe dire che la regola è che non ci sono regole. Conta la temperatura della pagina e la pressione della voce che la racconta.

Arrivo così a ciò che tu chiami crudeltà e cinismo e che può essere più definibile come destrezza. E la destrezza nel dizionario viene descritta come sveltezza, agilità, un movimento leggero, quasi impercettibile nel quale si compie un’azione.

L’azione della scrittura può essere questa destrezza. Chi scrive i libri, chi lavora coi libri non è migliore delle altre persone. Questo sicuramente collide con quanto dici. È un elemento non scontato. Chi scrive è circonfuso da un’aura magistrale e spesso qualche scrittore (tantissimi) hanno l’aria di crederci davvero di essere delle persone migliori. Ma lo scrittore è una persona molte volte peggiore del proprio lettore. Forse è proprio questa la caratteristica di un grande scrittore. Uno scrittore di mestiere ruba, ruba la vita degli altri, i tic, i difetti fisici, l’aneddoto, il modo di dire, le storie, i personaggi. Rubare, rubare continuamente, ma poi viene il difficile, e il difficile consiste nel saper ridonare quella destrezza, anche violenta, con grazia. Un gesto così complesso che viene a pochi e poche volte nella vita.

Quindi ti rispondo alla domanda che poni sull’ambizione. No. Non sento ambizione e rimorso, ma cerco una strada per aggirare il male che pesa, diversivi ai mostri che mi inseguono. A proposito di questo, un pericolo è la vita privata, parli dei figli. Ho scritto Spatriati per elaborare anche l’idea di fare una famiglia fuori dalle convezioni delle famiglie, quella storia assomiglia a tutti gli anni in cui ho provato a liberarmi dalla pressione sociale di fare famiglia, eppure dentro di noi esiste una specie di vocazione ai figli, una voce con la quale si dialoga, e alla fine quello che succede non cambia nulla delle nostre anime. Nessuna anima è migliore o peggiore perché non ha dato una nuova vita, sembra una cosa scontata, ma a volte meglio sottolinearlo visto i tempi che viviamo. Non mi sento di condividere quello che mi riguarda sul tema, è troppo grande quello che ho vissuto che ancora non riesco a raccontarlo. Certo quando vedo un film come Cold War, e chi lo ha visto può capire di che si tratta – l’amore al tempo delle frontiere – io piango e non finisco di piangere neanche con una sigaretta, neanche con il miracolo di una promessa attesa che si avvera.

Sono tentato di aggirare la tua domanda usando ancora una volta le parole di Moravia quando in un’intervista su Gli indifferenti, dice che la famiglia è un ambiente normale e lui come tutti gli artisti invece è un uomo anormale. Sul concetto di questa anormalità ha poi scritto anche il romanzo Il conformista. Però poi alla fine dell’intervista dice questa idea sulla normalità della famiglia ce l’aveva da giovane. Da vecchio pensava quasi il contrario, la famiglia è un peso, “perché gli amici, le mogli, le amanti le scegli, i parenti no”.

Ho aggirato. Sono finito nell’aneddotica. L’aneddotica ti illude di risolvere un nodo, evocando vicende di uomini autorevoli, anche se poi queste vicende sono minime, ma acquistano una specie di valore essenziale per noi. In realtà non sono d’accordo con Moravia, ma mi rifugio quando mi trovo davanti una strada. Ad esempio sto eludendo la lotta con la vecchiaia, il tema della nostra maturità, la vecchiaia dei nostri genitori, che è difficilissimo da elaborare quando sei sulla frontiera, quando ancora non sai se la tua vita d’ora in avanti sarà espansione o ritirata. Così trovo conforto ancora una volta negli scrittori, ancora una volta dentro le pagine di un testo mi imbatto nelle parole giuste per venirne a capo. Come sempre è successo nella mia vita.

Il filosofo Ralph Waldo Emerson oltre un secolo e mezzo fa scrisse che riuscire nella vita è sapere che un essere respira meglio perché siamo passati in questo mondo. Chi scrive si illude che le sue parole cambieranno la vita a qualcuno, ma alla fine quel che conta è una questione vitale, e torna ancora il corpo. Riuscire è far respirare meglio una persona. Respirare, non è una parola casuale, c’è la radice di spirito. E lo spirito è un vento che arriva da altrove. Non so se per farlo ci vuole destrezza o se questo è il senso dell’arte, il senso di chi scrive, di chi vive in genere, anche se non ha figli o non ha più nessuno da amare. Ma è certo un obiettivo apparentemente così facile da raggiungere, far respirare meglio qualcuno, l’unica ambizione che mi è rimasta, ma che a volte, invece, mi sembra impossibile.

Mario Desiati (Martina Franca, 1977), è scrittore e poeta, vive a Roma. I suoi ultimi romanzi sono “Candore” (2016) e “Spatriati” (2021), entrambi pubblicati con Einaudi.