All’ultimo Salone del libro di Torino stavo firmando copie del mio romanzo, dopo l’incontro, quando dalla fila è toccato comparire a questa donna molto magra dai capelli non sistemati, il viso allungato e l’andatura incerta. Non si era preparata a farsi vedere e nemmeno gliene importava. Non stava celebrando niente.
Quando mi si è parata di fronte ho capito che non stavo per firmare una copia e basta, non si sarebbe messo un nome su una pagina e forse fatta una foto e forse una battuta, un ringraziamento, le posso fare una domanda ma quanto è bravo lei.
La donna singhiozzava ma non uscivano lacrime, aveva un piccolo fiato di voce, un sussurro. Mi sono alzato dalla sedia per avvicinarmi ancora e ancora. E lei nel frattempo mi ha preso la mano e mi ha detto il nome cui avrei dovuto dedicare il libro.
Ho scritto la dedica e mi sono alzato nuovamente, perché lei parlava e io non capivo.
Ha detto ancora qualcosa, le ero a pochi centimetri, ho percepito il suo alito.
– È morto.
Non ho risposto, stordito.
– Lui sì è ammazzato, lui era dentro. Sono tornato a sedermi.
Lei è andata via veloce e silenziosa, con in mano quel pezzo di carta pressata e i suoi pensieri senza posto dove riposare.
Negli ultimi mesi mia figlia mi vede spesso dormire fuori, andare in giro, tornare velocemente, chiudermi nello studio. Forse ora che sta crescendo davvero lo nota di più e si chiede come mai, e risponderle che sto lavorando non la accontenta più. Lavoro sempre, in effetti.
Vero è che quasi metà della sua vita finora si è svolta con una pandemia in corso, comprese le chiusure le isterie le storture emotive e legali, il parco no la scuola no l’Esselunga sì. Nella normalità ritrovata io sono perenne padre in giro, e quando torno arrivano le domande, e le domande sono banali oppure sorprendenti. Dove è Bologna. Come mai questa copertina è azzurra. Mi hai portato un regalino.
– Chi ci abita dentro il carcere?
Persone che hanno sbagliato. No, aspetta. Persone che hanno commesso reati. Cosa sono i reati. Persone che hanno rubato. Persone che hanno fatto del male a qualcuno. Che hanno fatto del male a loro stessi. Smettila.
Mostri a tre teste. Non sono come noi. Sono come noi. Siamo noi in un mondo possibile.
Qualcuno ha le chiavi delle porte, qualcun altro no. La differenza è tutta lì. Bravo, che concetto affascinante! Ora spiegaglielo senza diventare ridicolo.
Sono persone. Siamo noi.
Ho iniziato per caso a raccontare a mia figlia delle storielle che appartenevano ai mostri che abitano il carcere. Ho preso briciole delle centinaia di storie vere che ho ascoltato in questi anni e le ho infilate dentro una polpetta accettabile, che non risultasse amara e indigesta e troppo sofisticata. Ho provato a raccontarle uno spazio chiuso rendendolo simile a una scuola un ospedale un ufficio un condominio.
Non è così, lo imparerà. Intanto per questi sonni e questi sogni le storie di adesso andranno bene.
Mario aveva un segreto che non voleva raccontare a nessuno. Non lo raccontava ai suoi amici, ai suoi genitori, alla sua fidanzata. Così quando si è trovato a finire in carcere continuava a portarsi dietro questo segreto. Ma quando entri in carcere devi lasciare tutto quello che ti porti dal mondo di fuori, altrimenti non vale. Metti tutto dentro un sacco nero che poi ti viene restituito quando esci.
– Anche il vestito da principessa?
Uno dei compagni di cella di Mario si chiama Aziz e sta in carcere perché rubava i soldi e poi li usava per fare cose che non si devono fare.
Mario e Aziz andavano molto d’accordo, ci sono delle affinità e alchimie che semplicemente accadono. Le persone si abbandonano l’una all’altra a volte senza un motivo particolare.
– Come me e Anita?
Erano diventati amici, sì. Anche in carcere si può diventare amici.
– Giocavano insieme?
– A pallone, a carte, al gioco del silenzio.
Adesso facciamo la nanna che devo raccontare una storia per gli adulti.
Aziz da quando aveva tredici anni lavorava insieme con il padre, che se lo portava lungo il Mediterraneo per aiutarlo nei suoi affari. Aziz ha passato l’adolescenza in Grecia, Turchia, Albania, Francia. Poi è finito a Torino e lì l’hanno arrestato.
In vent’anni di vita aveva già avuto così tante esperienze che il mondo non aveva più segreti, a suo parere. Quello che doveva succedere gli era successo. Il resto erano le vite degli altri. Tutto il suo sguardo e il suo atteggiamento sottolineava continuamente questo scarto tra i pochi anni e le tante vicissitudini. Anche se queste vicissitudini si somigliavano tutte, come copioni ripetuti per tirare avanti. Ma l’attore deve campare, e a lui questi copioni facevano sopravvivere e le vite degli altri erano inaccessibili o le si poteva spiare soltanto attraverso il telefonino.
Quindi deridere o maledire. Come facciamo tutti.
A quindici anni lavorava per la mafia albanese, perché nel frattempo il padre aveva subìto uno stop nel grande giro dell’oca della criminalità, e in quel momento Aziz era in Albania e quelli con cui lavoravano lui e il padre gli hanno detto rimani qui, ci servi e sei bravo. Se qualcuno ti dice che sei bravo è più facile che accetti la sua proposta. Inoltre Aziz non sapeva nemmeno più dove fosse finito suo padre, e tornare in Egitto dalla sua famiglia chissà quanto sarebbe stato impossibile.
Tornare indietro è un lusso, per la maggior parte delle persone.
– Da quel momento mi sono sentito solo e se ti senti solo devi imparare ad arrangiarti.
Il carcere non era quindi altro che un’interruzione, e la sua rigida consapevolezza di avere un destino segnato e lurido sbatteva contro quelle che erano indubbiamente grandi capacità. Dolce, curioso, intelligente. Ho sempre avuto l’impressione che sapesse bene la parte di mondo giusta e quella sbagliata, le cose male e quelle bene. Ma l’Aziz che riusciva a osservare tutto questo con lucidità era anche lo stesso che guardava la sua figura da fuori, con la stessa determinata forza. E di questa figura non aveva una buona opinione. Non si è mai detto innocente e non ha mai fatto la vittima della propria biografia. È così, e basta. Lo diceva fumando e guardando un punto sul muro che non ero io. Una posa di pesante consapevolezza che conteneva lo smarrimento di una creatura offesa. Probabilmente mi avrebbe ucciso a morsi, o seguito in una strada buia per salvarmi la vita. È lo stesso.
Una sera ho cantato a mia figlia una canzone che aveva come protagonista Aziz, un ragazzo che vagava nel mondo alla ricerca della sua gatta perduta. Mentre procedevo nell’improvvisazione mi rendevo conto che finivo sempre per portare il protagonista a finire da solo e malinconicamente, senza successo alcuno. Scogliere, porti, stazioni, panchine. Afferravo a piene mani nello stereotipo.
Aziz mi aveva insegnato il copione e io ne ero preda. La canzoncina così finiva con la gatta che compariva in maniera del tutto inaspettata e senza coerenza alcuna. Era la parte peggiore del copione, ma mia figlia poi dormiva placata e mi potevo vergognare solo con me stesso.
Un giorno sono tornato a parlare con i ragazzi dentro, e mentre chiacchieravo intorno a dei libri, a me stesso, al mondo possibile, mi è venuta fuori la sempre efficace e utile e invincibile citazione di Gramsci: pessimismo della ragione, ottimismo della volontà.
Finito l’incontro, fuori tutti, Aziz mi ha chiesto di scrivergli quella frase su una striscia di carta.
Le strisce di carta sono quelle su cui di solito i ragazzi si preparano le domande per gli autori che vanno in visita.
Sul retro di una di quelle ci ho scritto, a penna, concentrandomi per avere una calligrafia leggibile, la frase. Aziz mi ha detto che se la sarebbe attaccata nella cella, io ho sorriso, l’ho seguito andare via e raggiungere gli altri. Mi sono seduto a guardare la stanza adesso vuota, senza le loro vite e le loro storie e la mia voce.
– Come mai Mario non racconta il proprio segreto al suo migliore amico?
Mario un giorno mi ha detto che anche lui scrive.
Gli ho detto di farmene sentire una e lui si è guardato intorno, ha pesato quelli che stavano ascoltando la conversazione e valutato che poteva andare, non c’erano quelli che avrebbero potuto dargli fastidio o prenderlo in giro.
Nelle prime tre strofe ho sentito puttana, soldi, sparare.
Gli ho detto di provare a scrivere di altro che non sia il suo mondo, mi ha detto che è l’unico che conosce e tutte le parole sono lì dentro, non ne trova altre.
– Portamele tu, le altre.
Dopo tanti mesi ho ricevuto un messaggio sul telefono e sono tornato da Mario e Aziz e gli altri ragazzi, ma c’erano soltanto i ragazzi e Aziz. Mario non c’era più.
Pochi giorni prima, mentre erano tutti dentro la stanza di ricreazione a vedere un film, ha chiesto di uscire, è andato nella sua cella, si è messo un sacchetto di plastica in testa e ha iniziato a stringere forte forte forte fino a che la voglia di morire ha vinto quella di vivere. Sarebbe dovuto uscire dopo un mese.
Aziz ha ripetuto anche a me quello che lo divora da quel giorno e che ripete continuamente.
– Non ce la faccio più.
Così gli aveva confessato la sera prima il suo amico.
Aziz non aveva avvisato nessuno, paura di sbagliare di tradire di mostrare la fragilità dell’amico.
– Tu cosa gli hai risposto?
– Di tenere duro.
– Tutto qua?
Sono andato a fumare una sigaretta con Aziz dentro la sua cella. La striscia bianca con la frase di Gramsci stava lì appesa allo stesso modo in cui l’avevo vista un’altra volta. Sempre sul punto di cadere, tra la foto di una modella e una di Mbappé.
Mi sono seduto su un letto, anche se non avrei potuto. Quella stanza mi è sembrata ancora più piccola e le mie parole tutte sbagliate.
Siamo rimasti in silenzio fino a che le sigarette ci hanno scaldato le dita, e i nostri pensieri non avevano più voglia di restare insieme.
– Se avessi avvisato la dottoressa sarebbe cambiato qualcosa?
– Tutto qua?
Quella sera ero nervoso e ho bevuto più del dovuto, non ho letto nessuna fiaba o inventato storielle per mia figlia. Sono rimasto nel mio studio a indugiare sul nulla e litigare con me stesso. La sconfitta è un film noioso e io ci ero dentro come una stupida comparsa senza qualità.
Le gatte mi guardavano perplesse, ognuna nella propria indolenza.
Il mio studio tappezzato di libri, di locandine di film intelligenti, di suggestioni spiritose, mi sembrava l’unico metro quadro consentito. Avevo paura a uscire, il mondo di fuori un terreno insidioso e cattivo. Mi sono addormentato sulla sedia. Non volevo essere in nessun altro posto. Non c’è nulla di più rassicurante che scomparire.
– Papà, ma quale era il segreto di Mario?
– A forza di non dirlo se lo è dimenticato e adesso nessuno lo conosce.
– Nemmeno tu?
– No.
– Peccato.