Cerca

Chi ha paura delle chat di classe?

La rivoluzione dei genitori in Virginia, esaltata dal governatore repubblicano Youngkin. Un’idea semplice: con noi o contro di noi. Nessun libro può mettere a disagio mio figlio, nessun professore può dire quel che non mi piace. Ti controllo, ti spio e ti denuncio

Benvenuti, questa è la nostra rivoluzione, la rivoluzione dei genitori, dice Cheryl, “noi non siamo guardiani suscettibili, ma siamo svegli”, e riprenderemo il potere sulle scuole, sull’istruzione dei nostri figli indottrinati dall’ideologia liberal: questo è un nostro diritto.

Tre adolescenti in casa, senza marito, Cheryl è un’attivista per caso: fa la rappresentante per un’azienda ed è sempre sotto pressione perché il suo stipendio dipende da quanto vende: l’ultimo dei suoi pensieri era organizzare proteste fuori dalla scuola pubblica frequentata dai suoi figli, nella contea di Loudoun, in Virginia. Poi è arrivata la pandemia, il rapporto tra i genitori e le scuole si è trasformato, deformato, la tentazione dei primi di interferire e di condizionare le scelte delle seconde è diventata praticamente irresistibile ed eccola qui, l’ultima rivoluzione: i genitori rivendicano i loro diritti rispetto ai professori, litigano sull’impostazione educativa delle scuole, sui libri di testo scelti, su quelli consigliati, sul revisionismo storico, sulle statue, sugli eroi celebrati per decenni, per secoli, e ora considerati impresentabili e dannosi. Si è partiti dai picchetti per far riaprire gli istituti più in fretta rispetto alla curva del Covid e si è finiti su Fox News, l’emittente più incendiaria d’America, a denunciare il lavaggio del cervello messo in atto dai democratici attraverso il loro monopolio sulla struttura educativa del paese.

La contea di Loudoun è nella parte settentrionale della Virginia, sotto il fiume Potomac, una terra marcata dalla guerra civile, con i suoi immensi granai – uno compare in tutte le cartoline: ha due piccoli mulini ad acqua ancora funzionanti – che davano da mangiare ai soldati e ai cavalli, e con la tipica evoluzione americana, in cui convivono la fiera equina e le strutture di logistica più sofisticate del mondo gestite da Amazon: agricoltura e servizi, un gran movimento di persone, chi fugge e chi resta, il provincialismo “primitivo”, come lo definì il Pulitzer Russell Baker che qui era nato. L’antenna di una trasformazione sociale e culturale che ci ostiniamo a non capire.

La rivoluzione dei genitori nasce qui: è cominciata lentamente, qualche anno fa, con proteste sporadiche e qualche colpo ben assestato contro i libri in cui si parla di sesso proposti nelle scuole secondarie. La Virginia è uno stato democratico da quando Barack Obama è stato eletto presidente: prima di allora, l’ultimo liberal ad aver conquistato i cuori è stato Lyndon Johnson. Nonostante i tanti stravolgimenti dopo la stagione obamiana, la Virginia è rimasta prevalentemente democratica, ma lo scorso novembre, alle elezioni per il governatore, è stato eletto Glenn Youngkin, un repubblicano trumpiano che è riuscito a ripulire, almeno per il tempo di una campagna elettorale, il brand di Donald Trump dagli eccessi e dalle follie, presentandosi come un conservatore non elitario, un uomo del popolo, tutto campetti sportivi e barbecue, pur essendo un manager invero facoltoso. Youngkin ha intercettato la rivoluzione dei genitori e l’ha fatta sua, ha sfidato i democratici nel campo che considerano di loro proprietà, l’istruzione e la cultura, e ha vinto. Per celebrare questo successo sconvolgente, Youngkin è andato “nel parcheggio dove tutto è iniziato”, davanti agli uffici del provveditorato scolastico della contea di Loudoun. “Ci siamo svegliati e abbiamo scoperto che i comitati scolastici erano diversi da come li immaginavamo – ha detto Youngkin – Ci siamo svegliati e abbiamo scoperto che i nostri figli avevano studiato cose che non ci piacciono. Ci siamo svegliati e la Virginia pareva la California” – il fragore degli applausi lo ha costretto a fermarsi, i cartelli “Parents for Youngkin” sventolavano trionfanti.

La parola risveglio scandisce questa guerra culturale: ci sono i woke, che sono sempre all’erta, e ci sono gli awake, che si sono svegliati – tutte belle addormentate che dopo un lungo sonno hanno creduto di essere state in qualche modo ingannate: ma chi ha dato il bacio della nuova consapevolezza? Chi li ha convinti che l’insegnamento è una proprietà? Woke e awake hanno un solo, identico approccio sui programmi scolastici: con noi o contro di noi.

Con la pandemia la scuola è arrivata nelle case delle famiglie, sui tavoli di cucina e nelle camerette, e così i genitori hanno iniziato ad ascoltare i professori durante le lezioni e a origliare dietro la porta di che cosa discutono i figli. Molti di loro hanno trovato in questa contiguità imposta lo slancio per fare ciò che meditavano da tempo: l’epoca in cui i genitori non si occupavano degli studi e dei compiti dei figli, delegando alla scuola ciò per cui la scuola è stata creata e formata, è finita da un pezzo. I genitori oggi conoscono gli orari delle lezioni, sanno a che punto è il programma e nelle chat usano il “noi” riferendosi ai voti (“abbiamo preso otto!”). La pandemia ha acceso la miccia di uno scontro che esisteva già, come sa chi di noi ha partecipato a una assemblea di classe con i professori – ma basta una chat dei genitori per rendersi conto della mania di controllo e di lamento. Il passo per applicare anche alla scuola, ai programmi di studio e ai libri di testo le convinzioni dei genitori è stato breve.

In almeno sette stati americani il Parlamento locale ha introdotto alcune misure che permettono ai genitori di sospendere le lezioni che considerano inadatte ai figli, di escludere la lettura di certi libri, e anche di portare in tribunale professori e presidi. Il deputato repubblicano della Florida, Joe Harding, ha fatto approvare all’inizio di gennaio una legge che impedisce di parlare in classe di temi legati al sesso e all’identità di genere che non siano “appropriati all’età e allo sviluppo” degli studenti. Il governatore della Florida, Ron DeSantis, considerato un leader quotato anche per le sfide nazionali (dovrebbe smettere di punzecchiarsi con Trump per essere più sicuro del proprio futuro), sostiene una legge che permette di fermare le lezioni che determinano “disagio, senso di colpa, angoscia o ogni altra forma di difficoltà psicologica” agli studenti. Il Texas e il Missouri stanno lavorando a dei “Bill of rights” per difendere i diritti dei genitori nei confronti delle istituzioni scolastiche. E poi c’è Youngkin.

Il governatore della Virginia ha aperto uno scontro esplicito con i presidi sulle mascherine: Youngkin è contrario all’obbligo della mascherina in classe e per settimane il processo è andato avanti, si fa per dire, secondo lo schema ordine esecutivo-protesta dei presidi-intervento di un tribunale, ancora e ancora. Poiché le mascherine e in genere tutto quel che ha che fare con la ricostruzione della normalità post pandemica hanno risonanza a livello nazionale (e qui da noi), il dibattito attorno a Youngkin è rimasto spesso confinato a queste tematiche. Mentre si discuteva di quanti mesi o anni gli studenti dovranno indossare la mascherina in classe, Youngkin ha introdotto delle tip line, linee telefoniche dedicate ai genitori che possono denunciare i professori che discutono durante le lezioni di testi o di temi “divisivi”. La prima volta che il governatore ha parlato di questa sua idea era in radio: “Invitiamo i genitori a mandarci le loro segnalazioni e le loro osservazioni, in modo da aiutarci a restare informati nel caso vengano negati loro i diritti che qui in Virginia sono sempre garantiti e in modo da catalogare ogni caso e ogni segnalazione. Così avremo la possibilità di sradicare questi comportamenti”. Il settimanale tedesco Spiegel, per far comprendere ai lettori come la pensa in proposito, ha fatto un paragone con la Stasi: “Vicini di casa che denunciano vicini di casa, studenti che danno informazioni sui propri compagni, studenti che danno informazioni sui propri professori, manager che controllano i propri dipendenti e capi comunisti che denunciano i membri del loro stesso partito”: sono tutti paragonabili.

Youngkin e buona parte dei conservatori sostengono che è la reazione necessaria per contrastare i danni dei liberal, che hanno sostituito lo studio della storia con il senso di colpa nazionale nei confronti della schiavitù e nei confronti dello spirito americano stesso, strutturalmente refrattario all’equità e all’inclusione. È la risposta, insomma, alla wokeness, alla sottomissione alle politiche identitarie e ai filoni storici e filosofici cui attingono.

Non è un approccio del tutto assurdo.

Il dipartimento dell’Istruzione della Virginia ha adottato nel 2015 i testi relativi alla Critical race theory, che ha quarant’anni di storia e molti intellettuali di riferimento: sostiene, semplificando, che il razzismo non riguarda un singolo individuo né un singolo gruppo ma è sistemico, cioè è insito nella costruzione istituzionale dell’America. Il pregiudizio non è personale, è endemico. Nel 2019, il dipartimento ha inviato un documento in cui abbraccia la Critical race theory e altre teorie sugli studi di genere: sul sito del ministero si può trovare la Road map to equity in cui si dice che le “conversazioni coraggiose” su “giustizia sociale, diseguaglianza sistemica e razzismo” sono “una responsabilità e un obbligo professionale” degli insegnanti. È necessario “investire con forza sulle strategie dell’equità”. Poiché nulla, nell’America di oggi, accade con moderazione o buon senso e ogni cosa si trasforma in un confine di lotta lungo il quale ogni arma è ammessa, queste conversazioni coraggiose sono diventate ideologizzate, e hanno innescato un cortocircuito tale che anche se si spiegando un teorema algebrico ci si interroga se la filosofia dietro a una formula possa essere tacciata di suprematismo bianco. Così si impara meno la matematica e più l’indignazione. Quando questa deriva incontra il genitore che si sente in diritto di dire: “Stiamo parlando di mio figlio, sono io che decido”, il risultato non può essere che un disastro. E infatti.

Negli ultimi giorni della campagna elettorale per il governatore della Virginia, Youngkin aveva pubblicato uno spot che raccontava la storia di Laura Murphy, una madre che aveva cercato di impedire che nella classe di suo figlio fosse data come lettura consigliata il romanzo del premio Pulitzer Toni Morrison, Amatissima (la storia di Sethe e della figlia Denver, che cercano di ricostruire la loro vita dopo la fuga dalla schiavitù). La signora e il marito sono degli attivisti del Partito repubblicano e il figlio in questione, che aveva avuto gli incubi dopo aver letto il libro della Morrison, era al liceo, quindi non era esattamente un bambino vittima dell’indottrinamento anti razzista, ma un ragazzo che avrebbe dovuto avere gli strumenti culturali ed emotivi per maneggiare un romanzo. Ma per questi genitori l’idea di scegliere il percorso educativo del proprio figlio è irresistibile e così, nonostante le polemiche, Youngkin ha avuto il sopravvento sui democratici. Una volta eletto ha dovuto omaggiare questi suoi elettori tanto partecipi e ha deciso di introdurre la delazione come nuovo metodo di convivenza: ha segnato come linea di confine dell’ingerenza genitoriale il disagio dei propri figli (non esattamente un teorema matematico). L’esito è evidente: il dissenso non viene incoraggiato, ma cancellato. E possiamo anche discutere su chi, tra liberal e conservatori, si sia svegliato per primo, su quale di questi due risvegli sia il più virtuoso, ma il risultato non cambia, ancor più se alle questioni razziali o di genere si somma il principio, per usare le parole dei legislatori della Florida, secondo cui “ogni forma di difficoltà psicologica” vale.

Lo scontro tra genitori e scuole non è cosa di questi giorni: siamo abituati a dare le colpe di tutto quel che accade alle derive populiste degli ultimi anni, ma la domanda su chi abbia il diritto di decidere dell’educazione dei ragazzi, se lo stato o i genitori, in America esiste almeno da cinquecento anni, da quando il Massachusetts promulgò la prima legge sull’istruzione nelle colonie. Negli anni Novanta lo scontro si è riacceso: si parlava della rivolta “populista” dei genitori verso lo stato liberal. C’era Bill Clinton alla presidenza, e i conservatori erano convinti che, assieme a Hillary che si era occupata di istruzione, volesse sradicare la famiglia dal suo ruolo di preminenza nella società americana. Ancora una volta, proprio come oggi, la lotta dei genitori andava di pari passo con altre battaglie – allora era quella contro le tasse – ma la Virginia fu un laboratorio: nel 1993 venne fondato un movimento, Of the People, che introdusse ventotto misure a difesa dei diritti dei genitori in altrettanti stati. In Michigan, la leader di Of The People era Betsy DeVos, che sarebbe diventata il ministro dell’Istruzione dell’Amministrazione Trump. Il presidente George W. Bush, successore di Clinton e portavoce del conservatorismo compassionevole, ribaltò l’approccio prevalente nel suo partito: una delle sue politiche più importanti, No Child Left Behind, prevedeva che tutte le scuole che ricevevano fondi federali dovessero scegliere e sottoporre al ministero i testi di studio adottati e una volta ricevuto il via libera, i genitori non avrebbero più avuto nessun potere al riguardo.

Era una rivoluzione, e i genitori l’avevano persa, nonostante alla Casa Bianca ci fosse un sostenitore convintissimo dei valori della famiglia. Glenn Youngkin è l’ultimo esponente di successo del Partito repubblicano americano: poiché a novembre ci sono le elezioni di metà mandato molti si chiedono se il governatore della Virginia sia il prototipo del leader conservatore post trumpiano, e se il suo modello sia replicabile. Youngkin ha alcune caratteristiche peculiari: la prima e la più evidente è la sua carriera da manager della classifica Forbes e la seconda è che i suoi figli frequentano scuole private, peraltro famose per le loro politiche, ironia assoluta, di inclusione ed equità. Youngkin però ha anche stanziato un budget per l’istruzione che supera di gran lunga le medie nazionali: l’attenzione alla questione educativa non è soltanto opportunismo politico ed elettorale, e secondo molti esperti proprio l’approccio finanziario del governatore è il meno replicabile negli altri stati.

La risposta sulla forza del modello Youngkin non è certa, ma in uno splendido reportage sul Washington Post David Montgomery è entrato in molte case degli elettori della Virginia per capire come è cambiato questo stato e che cosa significa per il resto del paese. Emerge chiaramente la stanchezza rispetto alla guerra culturale permanente, perché se è vero che il principe che dà il bacio della consapevolezza è molto diverso a seconda dell’orientamento politico, è altrettanto vero che l’impossibilità di parlarsi tra vicini o tra genitori della stessa classe è diventata troppo pesante. Quel che ci manca, dicono molti, è la capacità di ritrovarci oltre l’ideologia: i politologi parlano di centro o di liberalismo, in queste cucine che spesso profumano della zuppa di burro d’arachidi si dice solo che esiste un livello massimo di aggressività che una società può sostenere. È stato raggiunto, ma la politica rincorre i suoi estremi e non vede nient’altro, se non gruppi molto eccitati che inneggiano alla propria rivoluzione. Intorno ci sono già le macerie.

Di recente l’Atlantic, uno dei magazine più belli pubblicati in America, ha fatto un elenco dei libri che, negli anni, e per varie ragioni sia dalla parte dei woke sia dalla parte degli awake sono stati banditi. Eccone alcuni: Il buio oltre la siepe di Harper Lee perché usa termini considerati razzisti e perché Atticus Finch corrisponde al “salvatore bianco” che in realtà pensa che i bianchi siano superiori ai neri; Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, perché descrive in modo esplicito la violenza sessuale ed è contro la religione; L’occhio più azzurro di Toni Morrison, il suo romanzo d’esordio, per le scene di violenza e incesto; Maus di Art Spiegelman, che racconta tramite i topi e i gatti la violenza subita dalla sua famiglia dai nazisti durante la Shoah e il suicidio di sua madre: troppo esplicito, anche questo, troppo disturbante. Nelle liste dei libri banditi è comparso spesso anche Harry Potter, accusato di satanismo, e pure la triologia fantasy di Philip Pullman considerata anti cristiana.

Questi libri utilizzano un immaginario difficile e spesso sconvolgente per raccontare storie complicate: per questo sono il bersaglio di polemiche e di divieti. Ma questo immaginario, questo approccio, questo sconvolgimento sono l’espressione esatta di qual è l’obiettivo della letteratura. Leggiamoli, facciamoli leggere.

Paola Peduzzi (Milano, 1976), vicedirettrice del Foglio.