A un certo punto di questo sterminato settembre, ho avuto l’impressione che quelle tre righe di Roth che tutti ma proprio tutti hanno citato quand’è morto, quelle tre righe che ti facevano chiedere il pover’uomo cos’avesse scritto decine di libri a fare se tutto quel che riuscivamo a ricordare di lui erano tre righe, e pure tre righe un po’ bacioperuginistiche, pronte per una citazione su Instagram, fatte apposta per farci annuire dicendo “ah, avrei potuto scriverle io”, ecco, a un certo punto ho avuto l’impressione che quelle tre righe, quelle in cui diceva che vivere è capire male la gente, che quelle tre righe lì fossero una recensione della campagna elettorale in corso.
È un’impressione che ho avuto quando la mia ossessione in corso, TikTok, è diventata il luogo in cui i candidati andavano a raccattare elettori, e nel farlo dimostravano d’aver capito male gli elettori, d’aver capito male TikTok, forse d’aver capito male pure Roth, ammesso che fossero al corrente della sua esistenza (il candidato su TikTok è un candidato che se gli chiedi il libro preferito ti dice una lettura obbligatoria della lista dei libri per le vacanze che gli diedero in seconda media).
I candidati si aprivano un canale, e premettevano che non avrebbero fatto balletti, e tu pensavi: e perché dovresti? Sei forse rimasto a due anni fa, quando i cinquantenni si aprivano un TikTok per imparare i balletti dei figli dodicenni? Lo sai quante ere geologiche sono, in misurazione social di tempo, due anni? Non farò tutorial di bellezza, premettevano, e tu ti chiedevi per cosa l’avessero presa, quella piattaforma: se i tuoi consulenti ti dicono che devi esserci, a te non viene la curiosità d’andare a guardare come sia fatta?
Evidentemente no, sennò sapresti che TikTok è un social di gente che parla. È la balconata di Santoro (parlandone da viva), è lo Iacovoni tra il pubblico del teatro Parioli (sempre parlandone da vivo), è il proletariato intervistato da Gregoretti o da Pasolini (parlandone da sopravvissuti). Certo, il proletariato lì non ha i lineamenti di allora, quelli dei generici che ballavano a Castiglioncello nel Sorpasso, quelle facce che da sole ti facevano il film, perché i brutti sono scomparsi ed esiste una diffusa carinitudine: persino i poveri hanno facce da Uomini e donne (per il primo che dice “certo, è la grande omologazione pasoliniana” chiedo il 41 bis).
È il posto dove nessuno spera di farsi notare se si mette in un angolo in controluce: lo sanno tutti che ti si nota solo se la spari grossa. È ora di finirla con le quarantacinquenni che si sentono teenager, a me le vecchie non piacciono, sentenzia l’autocertificato playboy, e la scritta in sovrimpressione ribadisce il concetto, solo che l’autocertificato scrive “tin hegger”. La mia amica è stata trasferita “dal nord Italia a Jesolo”, lamenta una bionda certa della nostra solidarietà. Senza la polemica quella pizza non la mangiava neanche tuo figlio Falco e il suo amico Povero gabbiano, dice a Briatore uno che non so chi sia ma per il quale rido dieci minuti vergognandomi moltissimo.
TikTok è tante cose ma, principalmente, è il luogo del grande ma-vi-rendete-conto. È il luogo in cui è più evidente la combinazione di limiti che caratterizza il presente. Il fatto che i trent’anni di oggi siano come i quindici del Novecento, e che i trentenni trasecolino senza nessuna timidezza per cose che a loro sembrano inedite e pazzeschissime e risultano normali a chiunque sia da più di tre quarti d’ora su questo pianeta; e il fatto che ci riteniamo misura del mondo: prima che accadesse a me, non era mai successo a nessuno che dal rubinetto rosso l’acqua uscisse già calda.
Di recente Twitter ha chiuso per incitamento all’odio o un’altra di quelle invenzioni del pensiero prescrittivo un account americano piuttosto famoso, chiamato Libs of TikTok. Diversamente da quelli delle altre piattaforme, i video di TikTok si possono scaricare e ripostare altrove, e quell’account ripostava docenti affranti perché non possono parlare delle loro vite sessuali agli allievi ottenni, nere che accusano Drew Barrymore d’appropriazione culturale perché ride sotto la pioggia (un format nero: quante cose imparo su TikTok), cliniche che offrono cambi di sesso agli ottenni. Tutto lì, filmato e pronto da scaricare e diffondere. C’era una volta la diffamazione punita per legge, poi abbiamo iniziato a smaniare per rovinarci la reputazione da soli.
Ma vi rendete conto, raga, guardate quanta carta, sbotta la trentenne evidentemente al suo primo trasloco mostrando i bicchieri incartati uno per uno da traslocatori che evidentemente sanno fare il loro mestiere (saranno più vecchi o saranno stati costretti a imparare a lavorare invece di farsi i filmini?). Ma vi rendete conto che i bagni qui non hanno le finestre, chissà che gli costa fare le finestre nei bagni, spiega la vita agli americani l’italiana trasferitasi lì, intelligentissima e certa che il bagno cieco sia tale per distrazione, non certo perché nessuna sua parete dà sull’esterno: se solo un candidato facesse un tutorial su TikTok, la poverina imparerebbe una cosa nuova.
Gli italiani all’estero sono la cosa più stupendissima di TikTok, l’algoritmo sa che li amo e mi fa vedere ormai solo quelli (l’algoritmo di TikTok è il primo algoritmo non stolido ch’io incroci in quindici anni di vagabondaggio sui social: sarà perché è cinese e non californiano). Il format di Instagram era insopportabile: italiano e straniera, o viceversa. Account di coppia in cui lui, che sia l’inglese che non riesce a pronunciare le parole italiane, o l’italiano indignato perché il suocero americano mette il parmigiano sugli spaghetti alle vongole, sembrava comunque un deficiente. Se guardi gli account delle coppie di diversa nazionalità su Instagram, ti sale la certezza che i maschi siano inferiori come neanche guardando i fumetti sulla Settimana Enigmistica.
Gli italiani di TikTok non sono in coppia. Al massimo la loro metà è argomento di monologhi, o figurina renitente sullo sfondo delle inquadrature, come nel caso della mia preferita, una romana sposata con un militare, che dagli Stati Uniti è determinata a spacciarci per invidiabile la sua mesta vita, e ogni tanto a bordo inquadratura si vede questo povero cristo che gioca ai videogiochi, con l’espressione vivace d’una tinca.
Gli italiani all’estero di TikTok ci spiegano il paese in cui stanno, perpetuando l’equivoco che da decenni era relegato sui giornali e ora è di massa: che basti vivere in un posto per capirlo. Vi fareste spiegare l’Italia dalla vostra insegnante di yoga, o dal tassista che inveisce contro le multinazionali, o dal candidato che è convinto che su TikTok ci siano i balletti? No, sebbene vivano qui. E invece il tizio coi capelli tinti che ci spiega New York essendocisi trasferito lo stiamo a sentire, mentre c’illumina con indicazioni quali: qui si mangiano i bagel. I bagel, ma vi rendete conto: mica come nei brunch milanesi. Come diceva Eleonora Giorgi in Borotalco: ma se te lo dice lui che c’è stato. Dal tizio che fa colazione nel punto vendita d’una catena abbastanza diffusa nel mondo da trovarsi persino a Roma, e che mentre lì beve il cappuccino ci spiega con entusiasmo l’unicità di quella bakery (chissà se la chiama bakery perché pensa faccia più fino o perché non sa quale sia la parola italiana), da lui ci facciamo spiegare Dubai. La bakery con le panche di legno, ma vi rendete conto. Ci vive, saprà quel che dice.
Il brunch a Dubai ha uno strascico che sfora nel mio secondo territorio preferito di TikTok, quello della recriminazione economica. Mesi fa girava, anche tra chi TikTok non l’aveva mai aperto (cioè: tra i candidati alle elezioni), il video d’una ventenne o giù di lì. La ventenne raccontava d’essere dovuta andare dal dentista, e che i trecentocinquanta euro pagati le avessero svuotato il conto, e che vita è mai questa in cui non hai soldi da parte. Era, come ogni lamento dei ventenni e trentenni d’oggi, un primato: nessuno ha mai fatto la gavetta prima di loro, nessuno ha mai cominciato a lavorare guadagnando pochissimo prima di loro, nessuno è mai stato un giovane squattrinato prima di loro. Ho trent’anni e non mi sono ancora comprato casa, ma vi rendete conto.
Mi pare che la ragazza del dentista avesse un lavoro a tempo pieno, e quindi la sua lagna fosse meno insensata di altre. Quando il trentenne si lamenta di non riuscire a mantenersi con un part time, è vietato dalla deontologia social fargli notare che per mantenersi occorre in effetti lavorare tutto il giorno. Essendo questa l’epoca che ha deciso di considerare il lavoro un male dal quale emanciparsi, se si osasse fare questa obiezione si verrebbe investiti dalle accuse d’essere schiavi del sistema e servi del capitale. È l’epoca che teorizza il diritto a essere benestanti e professionalmente di successo lavorando un’ora al giorno. Nessuno ha ancora ben capito come realizzare questa utopia, ma d’altra parte nessuno ha capito neanche come fare soldi dai giornali su internet, eppure tutti si precipitano a fornire gratis i loro articoli ai passanti social, nel terrore che se essi non ti hanno a disposizione gratis tu sia destinato all’invisibilità, a essere dimenticato, a doverti trovare un lavoro vero (e neppure part time, vi rendete conto).
Ma dicevo della lotta di classe relativa alla panetteria di Dubai. L’italiano emigrato fa vedere il conto, dice che corrisponde a 29 euro, e – come non saprebbe dire lui nell’ingleseShenker in cui ogni ordine è preceduto da “is it possible” – all hell broke loose after that. (L’italiano all’estero di media parla inglese come Melania Trump, e noi ci aspettiamo che sappia spiegarci il tessuto sociale d’un paese al quale passa il tempo a ripetere “is it possible that you repeat?”).
Il video successivo è un monologo completo di famiglia operaia e di sottintesi mi-sonofatto-da-solo (ma vi rendete conto, da solo) in cui il nostro eroe del carboidrato in franchising dice agli indignati dell’“io con 29 euro mangio una settimana” che anche lui normalmente per carità anzi forse per un mese e gli avanzano pure degli spicci e certo è consapevole delle difficoltà del momento e non voleva offendere nessuno e per espiare farà una settimana a uova e patate.
L’italiano su TikTok dice, del posto in cui si è trasferito, cose che da ogni geolocalizzazione possano confermare le nostre pigre certezze: gli americani sono superficiali, a New York c’è un’opportunità per tutti, i francesi sono snob, i tedeschi sono severi. Quest’ultimo luogocomunismo è incarnato da una mia preferita, una tabaccaia ventiquattrenne che si è trasferita in Germania senza sapere una parola di tedesco, è andata a lavorare in un ristorante, un giorno esce dalla banca, vede che a qualcuno è caduto il portafoglio, lo raccoglie, se lo mette in tasca. Se vi sembra che sia una situazione in cui è arduo pittarsi come vittima, sottovalutate la capacità di questa generazione di non assumersi una responsabilità mai ma proprio mai. In una sequela di perentori video, la nostra eroina della vendita di sigarette ci illustra l’inutile e smisurato zelo con cui la polizia è addirittura andata a cercarla al ristorante, ma vi rendete conto, e lei non parlava tedesco e quindi come glielo spiegava ai proprietari che non aveva ammazzato nessuno, l’hanno addirittura multata, ma vi rendete conto, nonostante lei si fosse sacrificata a restituire il maltolto e insomma io avrò sbagliato però vi rendete conto. Peccato non sia abbastanza spiritosa da suggerire la poliziotta tedesca per il ruolo di kapò in qualche prossima produzione cinematografica.
“Non pensate che Parigggi sia Emily in Paris”, ci dice uno stagista di stilisti nella cui dizione c’è più questione meridionale che in trecento pagine di Gattopardo. È molto difficile fare amicizia coi francesi, sospira mentre è facile figurarsi i parigini di fronte a uno con le “g” al posto delle “c”, e posso solo immaginare con che vigore annuiscano coloro che visualizzano avendo speso 29 euro per un RyanAir da Orio al Serio a Beauvais e ancora non capacitandosi di quanto fossero cafone le commesse delle Galeries Lafayette cui hanno chiesto uno sconto sui profumi. Probabilmente è stato anche lì un problema d’accento: come gli stagisti indigeni, le commesse li hanno capiti male, e poi ancora male, e non ci hanno fatto lo sconto, ma vi rendete conto (gondo, direbbe lo stagista evidentemente figlio di don Calogero Sedara ed emigrato prima ch’egli facesse fortuna).
L’Angelica Sedara che ci possiamo permettere non ha neppure tremila follower, ma i numeri dei follower su TikTok sono irrilevanti: non guardi quelli che segui, guardi quelli che l’algoritmo ti propone. E l’algoritmo, come Anna Carla Dosio, non si stanca mai di essere intelligentissimo. Al terzo video della moglie del militare che fissavo ipnotizzata, ha capito che mi era passata la fissa per gli psichiatri (all’inizio mi faceva vedere solo Crepet e Recalcati; non che loro stiano su TikTok, ma la cosa buona dell’internet è la stessa cosa che la rende un abisso d’orrore: ci sarà sempre qualcuno che carica il tuo video), e ha cominciato a farmi vedere italiane in Australia che ci svelano che lì si guida a sinistra e che “kangaroo” viene da un indigeno che disse “checcós” quando vide il primo canguro (in Australia c’erano indigeni pugliesi, quante cose imparo su TikTok).
La sezione “Per te”, su cui ogni tossico di TikTok passa le giornate, è implacabile nel mostrarci esattamente la droga che vogliamo. Se lo spaccio di stupefacenti fosse così ben organizzato, saremmo tutti Cristiana F. Chissà cosa vota, l’Italia di TikTok, l’Italia che si dispera solo fuori dall’inquadratura, l’Italia che espatria ma spesso rimane in prossimità. Gli svizzeri italiani fanno categoria a sé, ed è una categoria automobilistica: quello cui portano via la macchina in sosta vietata a Forte dei Marmi, ma vi rendete conto, “i turisti non vanno trattati così”; quelli cui a Milano graffiano la macchina perché sono invidiosi e in Svizzera non m’è mai successo.
Tra gli esponenti della questione meridionale, la mia tossicodipendenza è una coppia proprietaria d’una profumeria a Frattamaggiore; la moglie, a chi osa mettere in dubbio possano vendere altro che “’e patane” (le patate), risponde chiedendo (traduco perché la traslitterazione del napoletano è insidiosa) ma perché, tu siccome sei uomo le patate le venderesti meglio? Da qualche parte, Gadda sta scrollando TikTok cercando d’imparare qualcosa sull’inventiva lessicale, poi passa il cellulare a Eduardo De Filippo che prende lezioni di presenza scenica.
Solamente che a matematica si fanno cose facilissime che in Italia si fanno alle elementari, solamente che nella mia scuola c’è una piscina, solamente che abbiamo perso l’autobus, dettaglia il suo non avvincente anno scolastico in Texas la ragazza italiana che mi fa scoprire che il nuovo automatismo non è “ciao ragazzi” (cit. dal primo TikTok di Berlusconi, che evidentemente mutuava l’hi guys di Chiara Ferragni). Quand’ero piccola Umberto Eco scrisse una Bustina di Minerva sul deprecabile utilizzo di “esatto” (era prima che lasciasse il posto di affermativo problematico a “assolutamente sì”). Chissà cosa direbbe delle avversative costruite con “solamente che”. “Solamente che mi hanno chiesto come mi andava di mettermi le scarpe”, alza il sopracciglio un altro liceale anche lui temporaneamente in una scuola statunitense, in cui a quanto pare è l’unico in classe a non essere vestito con le cose con cui ha dormito. Mi accorgo che sto pensando che avrebbero potuto tenerli a casa a imparare un po’ d’italiano, invece di mandarli in giro per il mondo a capirlo male in un’altra lingua, poi mi rendo conto che probabilmente sono io che ho smesso di capire il mondo, o che ho cominciato a capirlo male, e insomma sembro una di quelli che ma-vi-rendete-conto.