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Ciao Maigret, sai dove devi andare adesso?

Fumarla è uno strazio, smettere di fumarla ancora di più. Dichiarazione d’amore e di perdita all’oggetto che placa i cuori irrequieti e fa male come un fucile. Il mondo sfocato, fieramente malsano e avvolto nel fumo in cui sono cresciuto ormai non esiste più, ma io non finirò mai di desiderare la mia pipa

Anche se sembra un secolo, saranno passati un paio di mesi al massimo. Avevo appuntamento con un amico in una vecchia trattoria di via Borgognona per cui ho un debole. In anticipo come al solito, ho colto la palla al balzo per fare due passi, e visto che c’ero, per caricare l’ennesima pipa. Avrei fatto meglio a evitare: avevo la bocca in fiamme, il palato dolente, le mucose irritate; l’incavo della mano destra, tra indice e pollice, era arrossato, per non parlare della gola e degli occhi. Ero talmente compreso nel ruolo di fumatore che quando sentii qualcuno apostrofarmi «A Maigret, ma vaffanculo!» pensai che si trattasse della voce della coscienza. Macché! A insultarmi era stato un clochard acquattato nell’ombra, un senzatetto istruito e irritabile, un barbone sufficientemente lucido da squadrarmi, leggermi dentro e infilzarmi con una sola battuta. Benché da quella sera di febbraio non abbia più messo in bocca una pipa, spezzando un incantesimo (o un assedio?) lungo un quarto di secolo, niente mi fa sperare che un giorno smetterò di sentirmi fumatore, ossia un individuo meno fragile, cagionevole, vizioso di quanto non sia oggi.

Per il momento a ricordarmelo ci pensano loro, le dirette interessate. Eccole lì, appese alla rastrelliera, a testa in giù: per quanto trascurate, esauste, affumicate, ossidate, tarlate, manipolate, mangiucchiate possano essere, le mie pipe sono ancora incantevoli e in grado di sedurmi. Tutte, senza distinzione di marca e colore: le Dunhill sabbiate che un tempo fumava mio padre, le due o tre Castello acquistate con i primi guadagni, le austere Peterson impreziosite da ghiere d’argento; e ancora pipe da viaggio, da spiaggia, da neve; pipe di schiuma, di pannocchia, di zucca…

La domanda cui dopo tanti anni fatico ancora a dare risposta è: perché la pipa? O almeno, perché cominciare da lì, senza il viatico di sigarette, sigari, spinelli? Perché un ragazzo di ventitré anni, con un glorioso passato di paninaro alle spalle, s’innamora di un arnese obsoleto, per niente pratico, più adatto alle abitudini sedentarie di presidenti, sindacalisti, allenatori, detective, pittori, fisici nucleari che a quelle d’un ragazzo perbene?

Tutta colpa del feticismo, altro brutto vizio contratto in giovanissima età.

Avete presente quando Charles Bovary trova in terra un portasigari, ed Emma glielo strappa di mano? Lei non ha dubbi: quel vezzoso monile è appartenuto al visconte con cui ha ballato la sera prima; se non altro per questo va serbato come una reliquia e tirato fuori nei momenti di noia. Pratico, maneggevole, con ricami di seta verde, profumato di tabacco e di verbena, incarna tutto ciò che Emma desidera e non avrà mai.

Animato da sentimenti analoghi – meno muliebri, più infantili – mi avventavo sugli accessori di mio padre, quelli da cui si liberava appena rincasato: orologio, occhiali da sole, stilografica, portafoglio, spilla dei soldi… Quei deliziosi manufatti avevano un modo tutto loro di parlarmi della vita misteriosa di mio padre: i viaggi, i commerci, il tempo trascorso senza di noi.

Fu durante una di quelle furtive incursioni nella stanza dei miei che mi imbattei nella prima pipa e negli ingegnosi oggetti che ne costituivano il corredo naturale: accendino, umidificatore, portatabacco, nettapipe, scovolini.

Se non erro, era una “Mastro de paja” dal profilo affusolato, sbarazzino, vagamente allusivo. Forse per via della linea arcuata, faceva pensare a un punto interrogativo. La presi in mano con una certa cautela, neanche fosse di porcellana. Il contatto con il dorso serico fu particolarmente soddisfacente ma non memorabile come l’emozione prodotta dall’aroma emanato dal fornello: aspro, torbato, senza fronzoli. Una fragranza truce e inebriante che avrebbe forgiato per sempre la mia idea di virilità.

Le pipe, si sa, esigono parecchie attenzioni. Proprio come le scarpe, reclamano cure specifiche e ricambi frequenti. Ciascuna ha una personalità. Ce ne sono alcune, di buon carattere, che si concedono senza troppe moine; altre, bizzose e riluttanti, che amano farsi desiderare. Ciò detto, nessuna tollera di essere trascurata. Dopo un po’, anche la più autonoma si incupisce: un velo torbido e biancastro si diffonde sui bocchini come un eczema, mentre il legno perde lo smalto dei giorni migliori.

Anche fumarle è uno strazio. Se le carichi male, frettolosamente, te la fanno pagare. Ci sono fumatori masochisti che ravvisano in tali complicazioni parte del piacere. Che si compiacciono di quest’armeggiare annoso e frenetico. Io no. Per anni ho cercato l’anima gemella, la compagna di vita docile e affettuosa nell’ultima pipa acquistata: invano. Che spreco! La verità è che non c’è pipa che alla lunga non ti deluda esalando gas pestilenziali, secernendo liquidi disgustosi, contribuendo a macchiarti i denti, atrofizzarti le papille gustative, guastarti lo stomaco, riempirti i pullover di buchi e patacche. Per non parlare della lenta subdola intossicazione inflitta all’organismo che prima o poi (speriamo più poi che prima) prenderà forma in un morbo letale. E allora perché ostinarsi?

A tutt’oggi ho un’idea approssimativa del fascino astratto e démodé esercitato da una pipa in bocca. I bambini la guardano con curiosità, i tassisti e i camerieri con sospetto, i fotografi con cupidigia. Non c’è attore di grido che non ne abbia brandita una per dare forma e carattere al personaggio. Dovendo scegliere, il mio preferito resta Lee Van Cleef nella scena in cui accende il fiammifero sulla gobba di Klaus Kinski in Per qualche dollaro in più. Del resto, se c’è un cineasta che ha fatto del feticismo una ragione artistica quello è Sergio Leone, e dopo di lui il suo geniale epigono: Quentin Tarantino.

L’ansia di scrivere non è altro che paura dell’ignoto. Poiché nessuno conosce la ricetta per esorcizzarla, ognuno si organizza come può. Alcuni sfogliano i libri amati come album di ricordi. Altri mettono in ordine la scrivania. Altri ancora cercano ispirazione in un locale affollato. Avevo un amico che prima di mettersi a scrivere doveva litigare con qualcuno. Non faceva lo schifiltoso, andava bene chiunque: la moglie, il fornaio, il commercialista. «L’odio è nutritivo» si giustificava.

A me è sempre bastata la pipa. Un’abitudine che per anni, a causa di circostanze storiche quanto mai propizie, nessuna ha osato rinfacciarmi. Non c’è ricordo della mia adolescenza che non sia circonfuso dalla cinerea caligine che rendeva l’aria di casa (almeno secondo gli standard odierni) irrespirabile. Allora fumare non era né piacere né trasgressione, ma una prassi (come bere e mangiare), e in quanto tale un diritto sacrosanto da difendere con le unghie. Quando, alla vigilia della prima legge contro il fumo, un vecchio zio anarchico annunciò la sua intenzione di non mettere mai più piede in una sala cinematografica, nessuno fece una piega. Anzi, qualcuno arrivò persino a lodare il suo civismo inflessibile. Non c’è anniversario della sua morte (infarto fulminante) in cui non venga commemorato come un martire della libertà di espressione.

Insomma, questo è il mondo in cui sono cresciuto: un mondo sfocato, fieramente malsano, non ancora infestato da mocciosi salutisti, ingerenti e giudicanti; un mondo in cui la gente adorava farsi fotografare con pipa in bocca e sigaretta tra i denti. Ho scritto “gente” ma avevo in mente soprattutto gli scrittori. La lista è talmente copiosa che per sciorinarla occorrerebbe un altro noiosissimo articolo (non escludo che su qualche blog del cazzo un volenteroso compilatore abbia fatto il lavoro al mio posto): da Lord Byron a Hemingway, da Lorenz a Sartre, da Pavese a Simenon. Non mi sorprende che per essi la pipa fosse importante quanto i ricordi, gli incoraggianti sorrisi della musa o le risme di carta immacolata. La forma flessuosa e la superficie levigata sembrano studiati in modo da placare un cuore irrequieto. Per contro, il gesto concitato con cui la carichi ricorda quella della recluta che arma il fucile. Ecco la doppia natura della pipa, una natura satanica: da un lato è un oggetto che induce alla meditazione dall’altro ricorda un’arma letale.

In ogni modo, la dipendenza indotta dalla pipa, subdola com’è, ti illude che esista un relazione inestricabile tra vizio e immaginazione, tra compulsione e audacia, tra nicotina e felicità. Se alla fine ho deciso di smettere è per via dell’insorgente sospetto che qualcosa nel rapporto tra le mie pipe e il mio computer si stesse ribaltando in modo patologico. Una cosa è fumare per scrivere, un’altra è scrivere per fumare. Non consentirò mai alle mie urgenze creative di sottomettersi a un’altra dipendenza, per quanto più piacevole e a buon mercato. Ciò non toglie che la vecchia vita mi manchi e che presumibilmente mi mancherà per parecchio tempo. Del resto, non è stata una buona idea lavorare su questo pezzo. Scrivere una dichiarazione di amore alle mie pipe senza stringerne una in mano è stato uno strazio che avrei fatto meglio a risparmiare sia a voi che a me stesso.

Alessandro Piperno (Roma, 1972), scrittore e professore di Letteratura francese. Ha esordito nel 2005 con “Con le peggiori intenzioni”. Ha vinto il Premio Strega nel 2012 con “Inseparabili, il fuoco amico dei ricordi”. Il suo ultimo romanzo è “Di chi è la colpa”. Dirige dal 2020 i Meridiani e tutti i suoi libri sono pubblicati da Mondadori.