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Come l’aquila nel suo nido insanguinato

Il tiranno nel suo regno, che è anche sempre la sua prigione, con lo sguardo torvo e feroce dell’isolamento, e le scale scrostate dalla solitudine. Viaggio nell’energia negativa dei grandi criminali del cinema e della letteratura. Alessandro Manzoni li conosceva bene

Il punto verso cui tutto converge in Nostalgia di Mario Martone, la risoluzione attesa per oltre due terzi del film, è l’incontro di Felice con O’ Malomm, amico di giovinezza diventato capo camorrista della Sanità. Un’ultima riconciliazione, una mano tesa, prima della fine. Felice-Francesco Favino viene scortato bendato, poi la benda viene rimossa e il piccolo regno si schiude. Si percorrono lungamente scale scrostate, balconcini scalcinati con picciotti appostati, piante rinsecchite, camere vuote, altarini illuminati dalla luce rosata che si attribuirebbe a un sexy shop, porte su altri corridoi, salottini con bottiglie di vodka, poltrone sfondate, sedie accatastate. Su un sofà siede MalommTommaso Ragno, il viso tra le mani, con movimenti indolenti e scatti improvvisi, capelli e barba bianchi, fisico scolpito, “re della monnezza”, come fosse già in galera, per sua stessa ammissione. Ancora una volta si incarna così una intuizione antica, che una volontà di potenza si manifesta anzitutto nello spazio che crea attorno a sé, che la forza di una personalità è proporzionale allo stampo che imprime alla realtà che lo circonda. Incontriamo Malomm molto prima di sedere di fronte a lui, nei motorini degli scagnozzi che girano per i vicoli, e poi in quei pianerottoli inaccessibili e lerci, cerchi concentrici che si irradiano da quel segreto trono grottesco. È l’imposizione di un altro disegno su quello condiviso dalla vita sociale, la capacità di imprimere altre leggi e cadenze, un marchio di forza e autorevolezza che si annuncia in una serie infinita di dettagli banali. Uno spazio conquistato, imposto e mantenuto con la violenza e la paura, e che ad esse deve continuamente attingere per perpetuarsi, anche mutilando anzitutto se stessi, tagliandosi fuori da altri linguaggi come la comprensione o l’amicizia. Oderint dum metuant, recitava un frammento sui tiranni di Ennio, che riecheggia fino al Fear, then di Daenerys Targaryen in Game of Thrones, quando quest’ultima abbandona ogni speranza di essere accolta come regina e accetta di essere temuta come despota. È quello che sempre colpisce, quantomeno chi questo pezzo lo sta scrivendo, dei “grandi nel male”. Il disegno titanico che Manzoni scorgeva nell’ascesa di Napoleone, la capacità di plasmare il mondo col sugello della propria visione, di un sogno alternativo, perché nessuno è il mostro della propria storia, da Lucifero a Darth Vader, e tanto più forte è il sogno, tanto più sa contrastare quello collettivo, nel bene come nel male. Quanto più forte un carattere individuale tanto più esso è capace di irradiarsi attorno. Lo incontriamo nel mondo che ha plasmato.

È questo ad avermi sempre colpito nei reami dei grandi personaggi negativi, il loro essere al contempo un segno di potenza, che ha chiesto solitudine, dolore, sacrificio, sprezzo delle norme comuni e così facili, e proprio per questo anche un carcere. Tutto ciò viene appunto da molto lontano e si incarna anche nelle figure criminali, versione moderna del masnadiere o del tiranno, appunto. Non è certamente un caso che il più grande mafioso della letteratura italiana si possa già incontrare proprio nei Promessi Sposi di Manzoni, che introduce la figura del “selvaggio signore” Innominato con una serie di verbi all’infinito, come si trattasse di una dinamo, a immagine rovesciata di Dio stesso: «Fare ciò ch’era vietato dagli ordini pubblici, o impedito da una forza qualunque; essere arbitro, padrone negli affari altrui, senza altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro che erano soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui». Ma al trionfo di questa volontà, capace di negare qualsiasi statuto alle leggi della società e della morale – una tensione in cui Manzoni adombra tanto dello stesso Napoleone – si accompagna da subito la ferrea catena che essa implica necessariamente e che altera a sua volta i rapporti dell’individuo eccezionale col mondo esterno: «Superiore alla più parte di ricchezze e di seguito, e forse a tutti d’ardire e di fortezza, ne ridusse molti a recedere da ogni rivalità, molti ne conciò male, molti ne ebbe amici; non già amici alla pari, ma, come soltanto potevano piacere a quel suo animo tracotato e superbo, amici subordinati, che facessero una certa professione d’inferiorità, che gli stessero a mano manca. Nel fatto però veniva anche egli ad essere il faccendone, lo stromento di tutti coloro: essi non mancavano di richiedere nei loro impegni l’opera d’un tanto ausiliario; per lui, tirarsene indietro sarebbe stato scadere dalla sua riputazione, venir meno al suo assunto». È il mondo di favori e impegni con cui si apre pure Il Padrino di Coppola, e Manzoni ancora una volta ci stupisce, ammettendo che in determinati contesti quel sistema criminale e l’energia del tiranno che lo alimenta possono arrivare persino laddove le norme sociali si arrestano impedite: «Molti, avendo il torto, ricorrevano a lui, per aver ragione in effetto; molti vi ricorrevano avendo ragione, per preoccupare un tanto patrocinio e chiuderne l’adito all’avversario: gli uni e gli altri divenivano più specialmente suoi dipendenti. Accadde qualche volta che un debole oppresso, angariato, amareggiato da un prepotente, si voltò a lui; ed egli, pigliate le parti del debole forzò il prepotente a rimanersi dalle offese, a riparare il torto, a discendere alle scuse; o renitente lo schiacciò, lo costrinse a sfrattar dai luoghi che aveva tiranneggiati, o gli fece anche pagare un più spedito e più terribile fio. E in questi casi, quel nome tanto temuto e abborrito era pure stato benedetto un momento: perché, non dirò quella giustizia, ma quel rimedio, quel ricambio qualunque, nelle circostanze dei tempi, non si sarebbe potuto aspettarlo da nessun’altra forza né privata né publica». È una forza che si imprime con la violenza e l’arbitrio, eppure resta comunque tale, e grande: «Ma gli usi così diversi di quella forza producevano pure un effetto medesimo, d’imprimere negli animi una grande idea di quanto egli potesse volere ed eseguire in onta dell’equità e dell’iniquità, quelle due cose che frappongono tanti impedimenti alla volontà degli uomini, e li fanno così spesso tornare addietro». Anche in questo caso, ben prima di posare gli occhi sul tiranno medesimo, lo incontriamo in quello che lo circonda, in un paesaggio maestoso e al tempo stesso isolato e sospettoso: «Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove orma d’uomo potesse posarsi, e non ne sentiva nessuna brulicare al di sopra del suo capo. A un volger d’occhi scorreva tutta quella chiostra, i declivi, il fondo, le vie praticate quivi entro. Quella che, a gomiti e a giravolte, ascendeva al terribile domicilio, si spiegava dinanzi a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante: dalle finestre, dalle balestriere, poteva il signore contare a suo agio i passi di chi saliva e porgli cento volte la mira». Gli stessi tratti, la stessa grandezza feroce, lo stesso sprezzo delle leggi comuni e lo stesso isolamento sono incisi nel volto e negli atteggiamenti del signore, è da essi che si irradiano intorno: «Questi gli andò incontro rispondendo al saluto, e insieme squadrandolo e guardandogli alle mani e alla cera, come faceva per abitudine, e ormai quasi involontariamente, a chiunque venisse a lui, per quanto fosse dei più vecchi e provati amici. Era alto, bruno, calvo; a prima giunta quella calvezza, la canizie dei pochi capegli che gli rimanevano, e le rughe del volto, l’avrebbero fatto stimare d’una età assai più inoltrata dei sessant’anni che aveva appena varcati; il contegno e le mosse, la durezza risentita dei lineamenti, e un fuoco cupo che gli scintillava dagli occhi, indicavano una gagliardìa di corpo e d’animo che sarebbe stata straordinaria in un giovane». Eppure si tratta di un uomo vecchio, certamente solo, su cui premono le inquietudini che sono il fondo amaro del calice bevuto nella sua “ascesi nel male”, notava Cristina Campo, il suo sprezzo per le violenze meschine e i compromessi in cui sguazzano i tanti Don Rodrighi di questo mondo. Sarà in questo spirito sotto assedio che farà breccia proprio Lucia, l’ennesima vittima inerme in una infinita sequenza che però riesce a intercettare inconsapevolmente un moto dell’animo che porterà il signore tenebroso a mettere in discussione il mondo che ha costruito. Quella solitudine imperiosa e scomoda, quell’isolamento si fanno sistema nelle generazioni successive, l’energia originaria si stempera come un gioiello ripetuto in diecimila copie. Sciascia ironizza sulla rispettabilità tributata dalle autorità civili ed ecclesiastiche al suo «don Mariano Arena, un galantuomo: tutto casa e parrocchia». Altro che roccaforte ai confini dello stato, adesso il potere mafioso si è fatto come il diavolo di Baudelaire, impalpabile, e quindi onnipresente: «Ma dalla voce pubblica l’Arena è indicato come capo mafia». «La voce pubblica… Ma che cos’è la voce pubblica? Una voce nell’aria, una voce dell’aria: e porta la calunnia, la diffamazione, la vendetta vile… E poi che cos’è la mafia?… Una voce anche la mafia: che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa». L’incontro stavolta avviene in un contesto rovesciato rispetto a quello manzoniano, la caserma è una barchetta circondata dalle acque di un altro mondo cui restano estranei. «Prima di venire dal capitano don Mariano aveva reclamato il barbiere: e un carabiniere gli aveva dato una passata di rasoio che era stata un vero refrigerio; e si passava ora la mano sulla faccia godendo di non trovare la barba che, aspra come carta vetrata, gli aveva dato negli ultimi due giorni più fastidio di quanto gliene dessero i pensieri». La forza esplicita del singolo si è fatta riflessi automatici: «Il capitano disse – si accomodi – e don Mariano sedette guardandolo fermamente attraverso le palpebre grevi: uno sguardo inespressivo che subito si spense in un movimento della testa, come se le pupille fossero andate in su, e in dentro, per uno scatto meccanico». Il mafioso è sicuro, inamovibile nei suoi principi e privilegi, eppure l’ennesima differenza con l’Innominato e il vuoto che questi aveva imposto a ogni relazione umana palesa un punto debole diverso, che si lascia sfuggire uno scatto: «Non so se sua figlia riuscirebbe a giustificare quel che lei ha fatto per assicurargliela, questa ricchezza… So che per ora si trova in un collegio di Losanna: costosissimo, famoso… Immagino lei se la ritroverà davanti molto cambiata: ingentilita, pietosa verso tutto ciò che lei disprezza, rispettosa verso tutto ciò che lei non rispetta… – Lasci stare mia figlia – disse don Mariano contraendosi in una dolorosa fitta di rabbia. E poi rilassandosi, come a rassicurare sé stesso, disse – Mia figlia è come me». I figli, appunto, cresciuti lontani, nel privilegio e nell’ignoranza, che però si sperano comunque complici. Un’ombra dell’antica fosca grandezza persiste, nel tributo che persino il commissario sente di tributare al criminale, che resta quantomeno diverso dal meschino mondo di favoritismi e ambiguità che attinge dal suo potere:

«E nel disagio che subito sentì di quel saluto delle armi scambiato con un capo mafia, a giustificazione pensò di avere stretto le mani, nel clamore di una festa della nazione, e come rappresentanti della nazione circonfusi di trombe e bandiere, al ministro Mancuso e all’onorevole Livigni: sui quali don Mariano aveva davvero il vantaggio di essere un uomo. Al di là della morale e della legge, al di là della pietà, era una massa irredenta di energia umana, una massa di solitudine, una cieca e tragica volontà: e come un cieco ricostruisce nella mente, oscuro ed informe, il mondo degli oggetti, così don Mariano ricostruiva il mondo dei sentimenti, delle leggi, dei rapporti umani. E quale altra nozione poteva avere del mondo, se intorno a lui la voce del diritto era stata sempre soffocata dalla forza e il vento degli avvenimenti aveva soltanto cangiato il colore delle parole su una realtà immobile e putrida?».

Il Montalbano di Camilleri non incontra spesso mafiosi, alcuni sì. Pentiti, collaboratori, manovalanza di una più vasta criminalità che resta un clima o una cornice. Non manca però il suo personale confronto con il gran boss locale, «quella testa fina di Balduccio Sinagra». Il suo paesaggio è caratterizzato da una imposizione tacita, ben diversa dalla minaccia palese del bunker manzoniano. Sole, mare, luce, colline. Niente spicca allo sguardo, e al tempo stesso niente muta nei terreni attorno, tutto resta immutabile, e controllabile: «Non s’attentavano a lottizzarli e a venderli per non fare grave torto a don Balduccio il quale, convocatili, attraverso metafore, proverbi, aneddoti, aveva loro fatto intendere quanto la vicinanza di strànei gli portasse insopportabile fastiddio… Il parterra era un vasto spazio, aperto per tre lati, che aveva come soffitto il terrazzo del primo piano. Attraverso i sei archi slanciati che lo delimitavano, a mano dritta si godeva uno splendido paesaggio. Chilometri di spiaggia e di mare interrotti all’orizzonte dalla sagoma frastagliata di Capo Rossello. A mano manca il panorama invece lasciava molto a desiderare: una piana di cemento, senza il minimo respiro di verde, nella quale s’annegava, lontana, Vigàta». E la pressione del tempo e del limite adesso si è fatta devastante, in un vecchietto come se ne possono incontrare ai giardini circondato dai nipotini o nelle corsie ospedaliere a borbottare per il proprio turno:

«Don Balduccio, praticamente uno scheletro vestito, stava assittato sul divano a due posti con un plaid sulle ginocchia a malgrado che non ci fosse frisco né tirasse vento». In un’eco chiaramente metaletteraria, la forza del volto dell’Innominato è diventata un ricordo lontano. «Lo taliò fisso fisso, sforzando gli occhi annacquati dal glaucoma. – Quanno era picciotto, avevo una vista ca faciva spaventu. Ora vedo sempre più neglia, dottore. Neglia ca si fa sempri cchiù fitta. E non parlo solamenti de mÈ occhi malati». Il tormento segreto del don Mariano di Sciascia si è fatto esplicito. I figli non sono come lui, tradiscono gli antichi codici, si gettano in imprese criminali incomprensibili, il tempo tradisce sia volgendosi al passato che al futuro. La “solitudine tremenda” dell’Innominato si stempera, cambia faccia, si confonde nelle sconfitte e nelle rese di una intera generazione rispetto al corpo che collassa e il mondo che cambia. E allora talvolta si riparte dal grado zero, fondativo, da un regno scarnificato di ogni orpello. Nella scalata del potere criminale e nella costruzione così, attorno a sé, d’una civiltà alternativa. «Il passato non esiste» sentenzia appunto il Malomm in Nostalgia, che la Sanità se l’è conquistata da solo, delitto per delitto, senza strutture o famiglie a supportarlo, senza ville e accordi politici. Si riparte da principio, il cerchio si chiude. Qualcuno fonda un regno nuovo, che non conosce ancora i veli e le urbanità delle generazioni successive, ma solo il vuoto e l’assedio, e ogni nuova civiltà si fonda sulla violenza esplicita o implicita, sul sacrificio e l’esclusone di qualcosa o qualcuno. Può ancora capitare però che qualcosa penetri in quelle stanze, come la lettiga di Lucia o un amico d’infanzia come Felice. A quel punto si può cedere alla mano tesa, piangere, crollare, strapparsi al trono-prigione, o aggiungere un altro anello alla catena della necessità e sgozzare l’intruso – e un altro filo della nostra umanità – come Ifigenia sull’altare per favorire la navigazione del padre in guerra.

Edoardo Rialti (Firenze, 1982), scrittore e traduttore, insegna Letteratura comparata e Storia del Cinema. Tra gli altri, ha tradotto e curato opere di J.R.R. Martin, C. S. Lewis, J. Abercrombie, P. Brown, O. Wilde, W. Shakespeare. Ha pubblicato per Cantagalli le biografie di G. K. Chesterton e C. S. Lewis. Ha curato l’antologia di racconti fantastici «L’anno del fuoco segreto» (Bompiani, 2023).