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Come osi essere grassa? E altre teorie relative

La dieta del minestrone, la dieta delle banane, le liposuzioni, Jane Fonda e «Flashdance», cioè quando eravamo scemi ma non ancora così scemi. «Ma poi li riprendi» e tutte le fissazioni fino alla Dukan. Le (quasi) migliori righe che potrete mai leggere sulla magrezza
di Guia Soncini
illustrazioni di Giorgio Carpinteri

Queste non saranno le migliori righe che possiate leggere sulla magrezza, perché le migliori righe mai scritte sulla magrezza sono di diciassette anni fa, sono irreperibili, e il loro esserlo dimostra che il diritto all’oblio vale solo per ciò che invece andrebbe ricordato – ma poi ci arriviamo. Queste non saranno le migliori righe che possiate leggere sulla magrezza perché se volete leggere un grande reportage su Lourdes non dovete mandarci uno che pensi che lì sono tutti imbecilli: per scrivere grandi cose su un tema bisogna esserne un po’ complici, nessuno ha mai fatto grande letteratura col complesso di superiorità (al massimo grandi ospitate televisive).

Qualche anno fa mi avevano chiesto di scrivere un film su una tizia famosa, allora ottantacinquenne. Quando dico “qualche anno fa”, intendo: quando già avevo smesso da un pezzo d’essere magra. Per la maggior parte della gente – per me, ma anche per la signora le cui gesta avrei dovuto narrare – essere magra è un impegno, non uno stato connaturato. Per essere magra, l’umanità (un tempo: l’umanità femminile – ma anche al non divario di genere poi arriviamo) fa sacrifici. Dico: ci siamo inventati le endorfine, una roba che in confronto i salassi eran scientifici e lo scioglimento del sangue di San Gennaro è la Nasa. Ci siamo inventati che andare a correre sia piacevole, invece di ammettere che siamo così stupidi da tenerci alla magrezza e tuttavia da non riuscire a rinunciare proprio sempre alla carbonara.

Insomma, io e questa tizia trascorriamo assieme alcune mezze giornate nel corso delle quali lei dovrebbe raccontarmi cose inedite per l’opera biografica, e invece non solo racconta sempre gli stessi aneddoti che ha già consunto in mezzo secolo d’interviste, ma la maggior parte delle nostre conversazioni vertono non sulle sue confessioni ma sulla sua ossessiva domanda: ma perché sei grassa? La domanda, badate bene, non è “quali ragioni di tragedia esistenziale o squilibrio ormonale ti hanno portato a mettere su peso?”. La domanda è: come ti permetti. Come osi essere grassa e non essere a dieta, come osi essere grassa e fottertene, come osi non avere nessun rispetto per la mia vita trascorsa investendo tantissimo tempo e un po’ di denaro nell’essere piacente. La signora è attonita, e io la capisco: è nata negli anni Trenta, ai suoi tempi non riesco neanche a immaginare quali fossero le categorie di donne per cui era accettabile essere grasse. Le meretrici? Le monache? Le lesbiche? Le poverissime? Le ricchissime? Certo non le medie: se nascevi negli anni Trenta, e non avevi il guizzo del genio in un qualsivoglia campo, dovevi trovare un uomo che ti mantenesse, e quindi dovevi rispondere a criteri estetici che non lo facessero vergognare d’accompagnarsi a te. A criteri di benessere. Che ai tempi di Tiziano erano la ciccia (voleva dire che avevi da mangiare), e da un secolo a questa parte sono la magrezza (vuol dire che hai tempo e mezzi per tenerti in forma).

Queste non saranno le migliori righe eccetera, ma saranno comunque meglio dell’articolo sull’economia della magrezza pubblicato lo scorso Natale sull’Economist. Sostiene l’Economist – e io non fatico a crederci – che di media le magre guadagnino più delle grasse, e invece tra uomini magri e uomini grassi questa discrepanza salariale non ci sia, e cosa ci dice questo se non che c’è una discriminazione nei confronti delle grasse? Ci dice, caro Economist, che le donne non chiedono soldi mai. Non chiedono soldi se li meritano e non chiedono soldi se li desiderano, non chiedono soldi se li valgono e non chiedono soldi se sono miracolate: non chiedono soldi in nessuno dei casi in cui gli uomini li chiedono. Le donne vogliono innanzitutto essere seduttive (che è la ragione per cui si sbattono tanto a stare a dieta), e chiedere soldi sembra loro poco sexy nonché poco da signora. Stanno lì, spalancano gli occhioni, e aspettano – incredule qualora non accada – che le aziende, che hanno evidentemente scambiato per benefattrici, offrano loro aumenti mai domandati. E’ chiaro che a una ragazza carina che ti guarda con gli occhioni offrirai un aumento (o un invito a cena: la dinamica è esattamente la stessa) più volentieri che a una trippona con le macchie di sugo sulla camicia (nessuna si senta offesa: sto parlando di me).

Il contagio presso i maschi è ancora imperfetto. Abbiamo attaccato loro solo alcuni difetti. Si autoscattano nello specchio della palestra e, davanti all’addominale di Brad Pitt che, più vicino ai sessanta che ai cinquanta, si sfilava la camicia in C’era una volta a Hollywood, mugolavano d’invidia come a noialtre era accaduto, ventenni, guardando Demi Moore in Showgirls. Però l’aumento lo chiedono lo stesso. Tentano di tenersi in forma per farsi le foto per Tinder e rimorchiare donne di campionati superiori al loro, non per avere un posto nel mondo: che essere decorativi sia il loro unico valore è per loro vezzo acquisito; per noialtre si tratta di convinzione stratificata nei secoli e che devi essere una teppista come me per boicottare, mentre le femmine tue amiche tolgono uno a uno i crostini dall’insalata e scuotono la testa osservando le tue trippe sballonzolanti e pensando “guarda che così non ti sposi” (invece di pensare: guarda che così non ti danno l’aumento).

Hadley Freeman è una giornalista inglese piuttosto famosa che qualche mese fa ha pubblicato un memoir sulla sua anoressia adolescenziale, Good Girls – A story and study of anorexia. Freeman in realtà dice che il suo non è un memoir ma un tentativo scientifico di comprendere le dinamiche dell’anoressia, ma comunque non ha senso citarlo qui, giacché l’anoressia sta alla magrezza come il Ku Klux Klan sta al cattolicesimo. Le adolescenti che, come Hadley, ripetono che tutto ciò che vogliono è essere magre e si sentono grasse non essendolo, quelle adolescenti lì perlopiù non diventano anoressiche, per una ragione che non servono centinaia di pagine a spiegare: l’anoressica non vuole essere magra, vuole essere morta. Freeman ha quarantacinque anni, ed è perciò cresciuta – come me – in anni in cui si sentiva per la prima volta la somma puttanata: le ragazze diventano anoressiche perché vogliono somigliare alle modelle. Ma certo: le mistiche che digiunavano nel Cinquecento erano pericolosamente influenzate da Vogue.

Ho passato, come Hadley Freeman e molte altre, un’adolescenza (che come le adolescenze di questo tempo pasciuto è durata ben oltre i trent’anni) a pensare solo e ossessivamente alla magrezza. Che era un concetto astratto e irraggiungibile: una volta, ero al liceo, un amico dei miei genitori mi disse che ora sì ero molto carina, non come quando ero una bambina grassa; ma, considerato che da piccola ero inappetente, quando diavolo ero mai stata una bambina grassa? Dipendeva forse dalla pancia, che essendo sempre stata refrattaria a qualunque attività fisica e quindi priva di tono muscolare avevo anche quando al liceo pesavo quarantotto chili, e mi entravano vestiti con cui ora potrei farmi al massimo un polsino, e tuttavia da seduta avevo comunque i rotoli di pancia che davano modo agli amici di famiglia di infierire? (Racconto questa storia solo perché l’amico di famiglia è morto, non vorrei mai rovinargli la reputazione: oggi, se qualcuno racconta che quarant’anni fa hai detto a una ragazzina che era grassa, ti danno il 41 bis; oggi io sono riuscita a ingrassare trenta chili senza che nessuno dei miei amici facesse un commento stronzo che fosse uno; oggi abbiamo raggiunto la parità e dirti che sei grassa è tabù quanto dire a un uomo che ha il cazzo piccolo: ci siamo specializzate in giri di parole, e “curvy” vale quanto “l’importante è come lo usi”).

Erano gli anni Ottanta: ho fatto la dieta del minestrone, e mezza dozzina di liposuzioni, e la dieta delle banane, e mi sono disperata perché non potevo mettere le magliette corte come Mandy Smith (un’adolescente che in quegli anni stava con un vegliardo dei Rolling Stones e che poi venne in effetti ricoverata per anoressia), e ho come tutte pregato dèi in cui non credevo promettendo che se mi avessero fatta diventare magra nella notte non avrei mangiato mai più, e ho comprato i vhs dell’aerobica di Jane Fonda ma era veramente troppa fatica, e ho desiderato essere Jennifer Beals comprando moltissimi cerotti con cui fasciarmi i piedi e se un giornale avesse pubblicato la dieta di Flashdance l’avrei seguita sicuro, ma nessuno ha mai pensato che rischiassi di diventare anoressica, perché eravamo scemi ma ancora non così scemi, e sapevamo distinguere il desiderio di morte da quello di entrare nei jeans taglia 40 (non tanto nei jeans quanto in certe gonnelline che vendevano in Montagnola, il mercato del sabato a Bologna, gonnelline fatte con la vita dei Levi’s 501 sotto la quale attaccavano una modica quantità di sangallo bianco, gonnelline che coprivano sì e no mezza chiappa e per fortuna nessuno aveva inventato la definizione di “slut shaming” per ciò che i nostri genitori dicevano del nostro andare in giro conciate come le piccole zoccole che eravamo).

Quando avevo trentasei anni ed ero finalmente magra come desideravo da tutta la vita, una tizia una sera m’invitò a cena all’ultimo minuto. Solo che avevo già mangiato quel che mangiano le magre (proteine; nel caso specifico, essendo io allora magra ma ancora golosa, una mozzarella di bufala). Quindi andai a casa della tizia e non mangiai nulla, il che non fu particolarmente arduo dato che eravamo in quattro e la tizia aveva comprato tre pesci non avendo pensato d’invitarmi fino a dopo la chiusura delle pescherie. Il giorno dopo la tizia mi convocò in una vineria, ebbe un contrattempo di lavoro, ma la questione era così urgente che mandò il marito, delegato a dirmi che erano molto preoccupati: stavo diventando anoressica. Fu l’aneddoto esilarante con cui per molti anni intrattenni i commensali, perché – a parte qualcuno tipo questi due organizzatori goffi di cene e goffi psicologi dilettanti – fino a qualche tempo fa avevamo chiara la distanza tra i disturbi psichiatrici e le ambizioni estetiche (e anche tra una tizia alimentarmente disciplinata e una che mangia la mozzarella di bufala). Una volta ho sentito una scrittrice magrissima della mia generazione dire a una grassa ma bella (o, come le chiamano oggi, una modella curvy) che lei capiva i suoi complessi e la fatica di accettare il proprio corpo e la vessazione dei parametri estetici, perché lei era cresciuta quando c’erano le modelle formose e quindi era troppo magra per essere considerata bella. La ascoltavo e pensavo: ma erano i tempi di Kate Moss e dell’heroin chic, ma cosa dici, ma il concetto di “troppo magra” era quanto di più avulso. (In realtà è vero che le modelle erano meno impalpabili di ora, la Cindy Crawford che trent’anni fa sfilava per Dolce e Gabbana aveva cosce che erano il doppio di quelle che ha ora, il che è bizzarro considerata la menopausa e la Grande Paralisi del Metabolismo, ma è pure vero che trent’anni fa non c’erano i telefoni con le telecamere e, persino se facevi la modella, l’ansia d’essere sempre sottile e fotogenica era meno costante).

Quell’articolo disperso del 2006 lo scrisse Roberta Jannuzzi, e prese il posto sul mio frigo d’un altro articolo che mi aveva seguito in due decenni di traslochi. Quell’altro veniva da Cosmopolitan americano, s’intitolava Why you’re fat and I’m not, ed era l’insofferente monologo di una che è a pranzo con un’amica che si lamenta di non riuscire a dimagrire nonostante non mangi niente, ma mangia in realtà più di lei, e poi pigola guàrdati, tu sei magrissima e mangi quel che ti pare. Ho perso il ritaglio in qualche trasloco, forse è stato allora che ho cominciato a ingrassare. Quello di Roberta invece è sparito dall’internet, dalla quale non spariscono mai le foto in cui veniamo male ma sempre la roba che ci piacerebbe rileggere. Roberta diceva cose per le quali oggi verrebbe processata per crimini di guerra, tra le quali che per dimagrire bisognava pensare al cibo come all’amore perduto in un romanzo russo: non è che stai a dieta un mese e poi ricominci a intingere la focaccia nel soffritto. Una cosa che mi ha sempre fatto molto ridere, in decenni di diete e di specializzazione ossessiva, sono quelli – gli stessi che dicono cose come “bisogna mangiare un po’ di tutto” col tono di chi ti sta svelando un concetto illuminante – che dicono “ma poi li riprendi”. “Ma poi li riprendi” è la risposta standard dell’italiano medio – quello che pensa di dimagrire mangiando ottanta grammi di spaghetti – a chiunque faccia le uniche diete che funzionano, cioè quelle che eliminano i carboidrati. Eh, ma poi la prima volta che mangi di nuovo una teglia di pasta al forno reingrassi. Maggiùra, e io che credevo fosse un bagno nell’acqua di Lourdes, non mangi pane per qualche mese e poi per i decenni successivi puoi tornare a farti mezzo chilo di spaghetti al giorno senza mai doverti sborsare la pancia dai pantaloni.

Un’altra cosa che scriveva Roberta era che era importante essere magre perché, se incontri la nuova fidanzata del tuo ex, quella non può dire “ammazza con che razza di culona stavi” (Roberta ovviamente non lo diceva con queste parole, giacché ella pratica l’eleganza con la voluttà con cui io pratico la volgarità). C’era, in quel passaggio, molto dell’illuminante questione della magrezza. Che, prima che l’adolescenza divenisse uno stato che occupa almeno la metà della durata delle nostre vite, era affare di ragazzine. Da ragazzina tutto quel che hai è essere la più magra, la più desiderata, la più caruccia della classe. Poi dovresti crescere e procurarti altri talenti, altre danze, altre stanze. Invece noialtre siamo ancora lì, ad avere come massima soddisfazione nella vita il fatto di entrare ancora nei jeans di quando avevamo vent’anni. La questione non è se le magre siano pagate più delle grasse: la questione è cosa si potrebbe fare delle energie che s’investono nel contare grammi di carboidrati e passi fatti, nel tenere a mente che stasera hai la pizza con la classe di tuo figlio e quindi stamattina devi saltare la brioche sennò poi ti toccano venti minuti di tapis roulant in più, nel prestare attenzione a un settore della vita che avrebbe dovuto smettere d’essere importante più o meno quando hanno smesso d’essere rilevanti le nozioni su Talete da ripetere al prof.

E invece non è così, perché siamo un secolo di adulti scemi, perché intere industrie basano il loro fatturato sulla nostra determinazione a vivere fino a novant’anni senza mai aver cambiato la taglia dei pantaloni, perché aveva ragione la Jannuzzi: possiamo sopportare che qualcuno che ci è antipatico dica di noi che abbiamo comprato Vasilij Grossman per fare scena ma non l’abbiamo mica mai letto, ma moriremmo se pensassimo che dicono di noi “ammazza com’è ingrassata”. Anni fa scrissi un libro sulla fissazione per le diete che non ho mai riletto, ma ricordo come fosse successa ieri una scena che ci finì dentro. Quell’anno andava la dieta Dukan, che è una versione estrema delle diete proteiche. Pierre Dukan è un dietologo francese che pensa che noialtri ciccioni non abbiamo alcuna forza di volontà e quindi non ci si possano concedere il guanciale e il burro (figuriamoci la mozzarella di bufala) come accade nelle tradizionali diete proteiche: per lui solo pollo ai ferri e poco più, se non dimagrisci neanche così ti resta solo Medjugore. Seguii Dukan in una crociera che faceva coi suoi pazienti, e una sera ero lì con due tizie addette alle pubbliche relazioni della nave. Una disse qualcosa tipo: non so come tu faccia a interessarti alle diete, per me sono il tema più noioso del mondo. Quello era l’anno in cui cominciavo a ingrassare, e non sapevo che poi avrei deciso che non me ne importava niente, ancora credevo che quei, boh, cinque chili in più che avevo rispetto all’anno prima fossero la fine del mondo, che non sarei mai più stata così grassa, che mi sarei redenta, ora mi vedete al mio peggio ma tornerò disciplinata e capace di entrare in jeans inutilmente piccini. Insomma: non pensavo ad altro, non parlavo d’altro. Restai assai turbata dalla scoperta che ci fossero mie coetanee che non lo consideravano un tema. Solo che quell’anno io non avevo quindici anni: ne avevo trentasette. E non avevo ancora fatto la transizione energetica per cui decidi che tutta la tua forza di volontà – una quantità finita, come tutte le risorse – non la sprecherai certo a contare calorie. A un certo punto del resoconto dei suoi ricoveri, Hadley Freeman dice delle ragazze sue compagne di clinica qualcosa tipo: “La loro infelicità era qualcosa cui sapevo d’essere troppo giovane per assistere”. Non so di cosa parli, giacché non ho mai frequentato ragazze che si affamassero per infelicità, ma solo per smaniosità. Però so che a un certo punto, relativamente di recente, è diventato tardi: occuparmi di quanto peso è un’attività che sono troppo vecchia per annoiarmi a praticare.

Guia Soncini (Bologna, 1972), scrittrice. Ha pubblicato, tra gli altri, «I mariti delle altre» (Rizzoli, 2013, Premio Forte dei Marmi), «L’era della suscettibilità» (Marsilio, 2021) e «L’economia del sé» (Marsilio, 2022). Il suo ultimo libro è «Questi sono i 50» (Marsilio, 2023).