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Come rondini sul filo

Lasci la casa e vai a vivere in camper, come in Nomadland. Per convinzione, per disperazione, perché il lavoro lo consente o perché lo stipendio non permette più di pagare l’affitto. Indagine su un movimento che cresce e si sposta cercando l’estate: tra romanticismo, delusione e desiderio struggente per le lasagne della rosticceria

Abbiamo venduto la casa dieci anni fa e da allora viviamo in camper”. Pierluigi Galliano parla dal suo van 4×4 da sei metri, parcheggiato sulla riva del lago d’Orta, fermo tra platani centenari e anemoni rosa. Pochi giorni fa stava in Islanda, fra pochi giorni andrà nel sud della Grecia. Come si capisce dal suo sito internet si muove come un uccello migratore tra paesaggi diversi, ma sempre bellissimi: cascate, fiordi, fari nordici, montagne, eruzioni vulcaniche, lunghe spiagge, scogliere a picco sul mare. Che leggerezza. Vive senza pensare a tutte quelle incombenze che la vita stanziale include: le bollette da pagare, il mutuo, l’affitto, la rata del televisore, la tassa dei rifiuti, la siepe da tagliare, il cambio armadio. E poi senza tutta la pesantezza degli oggetti, tantissimi oggetti, talvolta inutili oggetti, che ci circondano, che riempiono gli armadi, che straripano nei cassetti, che si impolverano nei ripiani delle nostre case. Lasciare tutto è una tentazione, ma è anche una scelta difficile. D’altra parte viviamo, noi esseri umani, divisi fra il godere del presente e il ponderare responsabilmente tutte le azioni, tra la leggerezza e la profondità, tra il desiderio di vivere spensierati e il bisogno di dare un senso alle cose.

Oggi che la “van life” si sta diffondendo, in particolare fra single e coppie fra i 20 e i 45 anni, sempre più persone scelgono la leggerezza, impacchettano le loro cose, le vendono o le mettono in custodia da qualche parte, lasciano la vita stanziale per una vita in movimento. Tra loro si chiamano fulltimers o nuovi nomadi e – dicono – per la maggior parte è una scelta di vita che prescinde completamente dalla situazione economica, che ha a che vedere con un’idea di libertà, di rifiuto della routine, delle quattro pareti, della vita borghese. C’è da dire che in realtà tutti quelli che ho sentito lo fanno anche per risparmiare, con gli affitti delle grandi città alle stelle questo è molto comprensibile, anche se spesso viene negato per una forma di orgoglio, di dignità. Queste persone hanno una maggiore consapevolezza ecologica e hanno già interiorizzato la necessità di risparmiare energia, con la quale noi tutti ci stiamo confrontando per l’aumento dei costi e per le conseguenze della situazione internazionale. “Ci vediamo per la strada”, si dicono salutandosi, come nel film Nomadland di Chloe Zhao. Non è mai un addio, è sempre un arrivederci.

“Noi abbiamo venduto la casa e viviamo in camper dal 2012 – racconta Pierluigi Galliano – con Amelia, mia moglie, abbiamo appena trascorso tre mesi in Islanda e ora stiamo per partire per il sud della Grecia. Ci spostiamo con le stagioni, andiamo verso nord d’estate e verso sud d’inverno, così abbiamo meno bisogno di condizionatori e riscaldamento”. Amelia e Pierluigi sono autonomi dal punto di vista energetico, perché producono energia con i pannelli solari che hanno installato sopra il loro furgone. Prima di mollare tutto, Pierluigi, 55 anni, faceva da vent’anni il cameraman, Amelia, 56 anni, era impiegata in un’azienda di rubinetti in Piemonte. “Eravamo pendolari tra Milano e Orta, stressati, ci vedevamo poco e spendevamo molto. Quindi abbiamo fatto questa scelta. All’inizio avevamo un camper grande, costoso, un McLouis Tandy 640 del 2007, poi abbiamo capito che non aveva senso, le nostre esigenze erano poche, potevamo vivere in un furgoncino e così abbiamo fatto. Ora stiamo molto tempo assieme e siamo felici”. Anche Fabio Antichi, 37 anni, manager pisano, vive in camper. “Ho praticamente azzerato le bollette e l’attuale crisi energetica mi convince ancora di più di questa scelta. Questa vita poi mi consente di stare in mezzo alla natura, di lavorare dove voglio. Se piove cambio zona, se non mi garba un posto mi sposto. Certo bisogna dotarsi di un camper con qualche comfort e bisogna adattarsi, ma si vive bene. E si conoscono molte persone in giro. Dopo il Covid avevo bisogno di tutto questo”.

Sara Sanviti, 57 anni, abita in un camper nell’area di Claut, in provincia di Pordenone, fino a poco tempo fa assieme al suo gatto Ventosa. Spiega sul suo sito internet che le piace vivere immersa nella natura: si addormenta quando il sole cala, sentendo il suono dei grilli, delle civette, il rumore dei ghiri e si alza con la luce del sole, senza sveglia o imposizioni. Dice di seguire i ritmi biologici, dorme di più d’inverno e meno d’estate, assecondando le stagioni, consumando meno energia: “Noi fulltimers sfruttiamo il sole per ricavare energia. L’acqua è limitata quindi bisogna risparmiarla, soprattutto bisogna evitare di sprecarla. Per lavare i piatti uso l’acqua della pasta, che cuocio senza sale, oppure l’acqua del lavaggio della verdura, in questo modo posso restituirla al suolo, senza inquinare”. Sara ha rinunciato alla tv e usa poco il frigorifero. “D’inverno lo uso di notte soltanto, quando la stufa è spenta. D’estate, stando in montagna, rinfresco le mie cose con delle bottigliette fresche del ruscello”.

Antonio Armano ha passato un anno in van con la sua compagna, che viveva già da otto anni sola in un camper. Lui fa il giornalista freelance e ancora oggi, dice, ha nostalgia di quel periodo, tanto che a volte gli verrebbe da girare la chiave nel cruscotto e andarsene, ma ormai è diventato stanziale. Antonio dice che è vero che nel furgone gli spazi sono ristretti, ma poi esci e se “la casa è piccola il giardino è grande”, e poi c’è la libertà di svegliarsi ogni giorno in un posto nuovo, di “essere esposti al mondo ma allo stesso tempo protetti da un piccolo guscio”. Il suo era un vecchio Hymer, iscritto al registro dei veicoli storici.

Tutto romantico. Però è evidentei che non sempre è una scelta, non per tutti. Sara è laureata in Ingegneria, ma la sua vita lavorativa non è andata come sperava. A vivere in camper è stata spinta dalle difficoltà economiche. “Mi pagavano poco e tardi e dal 2008 ho rinunciato all’auto, mi spostavo in bicicletta o sui mezzi pubblici. Poi ho cominciato a utilizzare la legna per non pagare il gasolio, a risparmiare sull’acqua e a rinunciare alle comodità che avevo prima. Nel 2013 si è allagato il mio ufficio, ho avuto molti danni, non riuscivo più a pagare le spese. Così ho lasciato la città e mi sono trasferita in montagna con il mio camper”. Sara è disgustata da un “sistema che non stava alle regole” e nel quale non si ritrovava più, al punto che quattro anni fa ha presentato richiesta all’Ordine degli ingegneri di essere cancellata. “Ho sempre lottato contro le ingiustizie – dice – ma mi sono sempre sentita sola. Non potevo più competere con il mercato ma non mi arrendo: ora mi sono iscritta di nuovo all’università (che posso frequentare online) per poter abbandonare l’insegnamento e dedicarmi alla ricerca”.

Sicuramente non ha scelto questa vita Roberto Invernizzi, 55 anni, separato, sfrattato e senza lavoro. “Non ti dico che è una scelta – spiega dal suo camper parcheggiato in un’area parcheggio a Bresso – Vivevo con mia madre ma, dopo che è morta, sono stato sfrattato da una casa popolare e ho perso il lavoro. Adesso vivo qui, mi scaldo con la bombola a gas, mando i curricula, ma nessuno mi chiama, anche se ho fatto il verniciatore e ho lavorato in fonderia. Chi lo vuole uno della mia età? Sono due anni che vivo in camper. D’estate fa caldo, d’inverno fa freddo, ma almeno ho un tetto”. Roberto percepisce il reddito di cittadinanza. “E sai che cosa ho fatto quando l’ho avuto? Sono andato alla rosticceria e mi sono preso una porzione di lasagne. Non compravo un piatto pronto da tanto tempo. Mi ha fatto sentire di nuovo una persona normale”.

Roberto, che cerca la normalità nella lasagna della rosticceria, mi commuove. Altri di questa normalità non sanno che farsene, ci guardano con distacco, come se fossimo “dei carcerati” (Pierluigi), mentre noi guardiamo con diffidenza loro, come se fossero comunque soggetti bizzarri. E allora scattano le solite domande alle quali sono abituati e alle quali rispondono con cortesia e pazienza: vi potete fermare ovunque? (Tema spinosissimo sul quale si è esercitata anche la Cassazione. In linea di massima sì, la sosta, anche lunga, è possibile, non è possibile invece il campeggio libero); dove avete la residenza? (All’anagrafe si presenta una dichiarazione di residenza fittizia per senza dimora e si mantengono tutti i diritti civili e amministrativi); non vi fa male la schiena a dormire in camper sempre? (Bisogna controllare di essere in piano, esiste una app specifica); non sbattete la testa quando vi alzate dal letto? (Pare che ci si abitui); come vi garantite l’energia per asciugarvi i capelli e guardare le serie tv? (Con i pannelli solari si genera elettricità. Il camper funziona a 12 volt, c’è però un convertitore per portarla a 220 volt, ma consuma. La stufa, il frigo, la cucina vanno a Gpl, gas propano liquido. Meglio avere bombole di scorta).

Ma poi tutte le domande, tutte le curiosità portano a una soltanto: sì, ma come campate? A parte chi è indigente, come Roberto, i fulltimer per scelta si dividono di solito in due categorie: gli offline e gli online. I primi sono quelli che fanno lavori stagionali e si spostano seguendo questa logica. Raccolgono le fragole in Francia, poi vanno a raccogliere le mele in Trentino, spesso affidandosi alle inserzioni che si trovano sulle piattaforme Wwoof o Workaway. Poi ci sono quelli in smart working o che comunque hanno professioni che consentono loro di viaggiare. Pierluigi e Amelia vivono in parte con i risparmi che derivano dalla vendita della loro casa, in parte dalla pubblicazione di guide di viaggio. Ci si riesce? “Sì, a patto di tagliare tanto le spese, il nostro modo di vivere è molto frugale. Non andiamo al ristorante, al cinema o a teatro, facciamo da noi il pane e la pasta, spendiamo il minimo indispensabile e stiamo bene così”. Sara Sanviti si mantiene dando lezioni private, di persona o via Skype, di matematica, fisica, meccanica. Antonio Armano è giornalista freelance e quindi quando viveva in van gli bastavano un pc e una connessione internet. Fabio Antichi è un manager informatico e viaggia molto per consulenze. “Per me è stata una scelta di risparmio. Dovevo mantenere la mia casa a Pisa, un affitto di 660 euro al mese per un appartamento a Milano dove andavo spesso e poi magari spendevo anche per alberghi e treni. La mia non è stata una scelta hippie, ma una scelta razionale. Certo se voglio organizzare una cena per sei non posso, ma vivo meglio così”.

Sarà vero, ma quando contatto Fabio sta parcheggiato con il suo camper davanti alla Fondazione Prada a Milano, appena fuori dalla circonvallazione interna, in una zona che – Fondazione a parte – è solo asfalto e grigio. Il mito romantico del camper si incrina. In generale, mi rendo presto conto, i fulltimer tendono alla retorica, a negare le difficoltà, a edulcorare le cose negative, a esaltare l’aspetto bucolico di una vita spesso ai margini del sistema a causa di problemi economici che fanno fatica ad affrontare. Con l’eccezione di Antonio, che di quei dodici mesi conserva sia ricordi romantici (“La natura, i paesaggi, la libertà e tutte quelle cose che ti puoi immaginare”) che il resto, a partire dal periodico svuotamento del wc nautico o wc a cassetta o wc chimico, le cui peculiarità e differenze richiedono una spiegazione di circa quindici stravaganti minuti, al termine dei quali so tutto dello scarico delle acque nere e le acque grigie, della possibilità di svuotare in Autogrill o nelle aree camper. Ma imparo anche qualcosa che ha a che fare con la leggerezza e la pesantezza. “Il Kitsch è la negazione assoluta della merda – dice Antonio citando L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera – in senso tanto letterale quanto figurato: il Kitsch di Kundera elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile. In questo senso il van è l’anti Kitsch, la vita in camper include la merda, in senso metaforico, ma anche fisico”.

Non ci avevo pensato. Nelle nostre case non ci pensiamo mai, è una parte della nostra vita che scorre via, letteralmente, schiacciando un pulsante. Invece vivere in un camper è anche pensarci. È anche pensare all’acqua del serbatoio che può finire, a come risparmiare energia, alla paura che il mezzo si rompa e all’ansia di venir svegliato dalle forze dell’ordine sollecitate dai residenti, sempre sospettosi di una coppia che vive in un camper e non in una casa. “Perché – dice Antonio – anche se sei la persona più buona ed equilibrata del mondo, se non hai dato fastidio a nessuno e non intendi darne, si dà per scontato che se non vivi in una casa sei minimo un soggettone, oppure uno sbandato. Oltre al fatto che è una scelta che si associa ai rom, ai nomadi. Quindi spesso chiamano le forze dell’ordine. Non sai quante volte sono stato svegliato dai carabinieri o dalla polizia per un controllo”.

Difficile stimolare queste persone sul tema degli oggetti e dell’affezione che sviluppiamo, noi stanziali, per una poltrona, un quadro di famiglia, una pianta, i libri nella libreria. Sara, Pierluigi, Amelia, Antonio e Fabio sembrano avere un sincero distacco per le cose fisiche. Non se ne curano, non le rimpiangono. O almeno è quello che dicono. Poi c’è la solitudine. Lasciare il panettiere, il condominio, il quartiere. Se è vero che, come scrive Kundera, “l’uomo non può essere felice perché la felicità è desiderio di ripetizione”, come se la cavano queste donne e questi uomini che non hanno abitudini, routine, punti di riferimento fissi se non dentro loro stessi, che non sono confortati dal vedere la luce di casa mentre parcheggiano, l’acero all’angolo che diventa rosso ogni ottobre, il panettiere che conosce la tua predilezione per la michetta semplice e la tua indifferenza per il pane al farro? Anche su questo paiono non curarsene. Eppure, pur accettando gli spazi stretti, la scomodità, la frugalità, come si accetta la mancanza dell’eterno ritorno? In definitiva è la nostra scelta che contiene pesantezza o è la loro? Chi di noi porta il fardello più pesante? Difficile capirlo perché, come diceva Italo Calvino, il romanzo di Kundera dimostra che “nella vita tutto quello che scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile”.

Valentina Furlanetto (Montebelluna, 1972), giornalista di Radio 24 il Sole 24 Ore dal 2002, cura e conduce la trasmissione “I figli di Enea, storie di italiani di origine straniera”. Il suo ultimo libro è “Noi schiavisti” (Laterza, 2021).