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Com’era bella la vita di mia nonna

Gulalai, Samaneh, Maryam, Razia sono scappate in Italia dopo il ritorno dei talebani. Negli album di famiglia le zie fumano per strada, mentre loro hanno bruciato i documenti universitari per non essere arrestate. “Siamo bocconcini prelibati”. La rabbia di donne libere che vogliono studiare e valere per quello che sono. E tornare a Kabul a salvare le altre

La prima cosa che attaccano è sempre l’istruzione”, dice Gulalai. Lei se lo ricorda, com’era prima. “Prima dei talebani, dici? E ancora, prima dei mujaheddin? Il periodo migliore della mia vita”. Gulalai ha quarantasei anni e dal viso scavato, dalla schiena curva, s’indovinano piuttosto gravosi, questi anni, quasi che fossero almeno dieci di più. “Finché sono stata un’adolescente – mi dice ora – sono andata in giro senza velo, ho frequentato le scuole pubbliche, poi la facoltà di Lettere. Poi in un momento tutto è crollato”. Maryam, nata a Kabul nel 1975, anche lei ricorda tutto: nel 1997, ai tempi della prima repressione teocratica del Mullah Omar, si iscrisse a Rawa, l’associazione rivoluzionaria delle donne afghane. “Non potevo accettare che anche quel diritto che io avevo avuto, andare a scuola, fosse negato da un giorno all’altro”. Basira, che è di una generazione più giovane, di quel periodo ha una memoria che quasi scolora nella fantasia. “Mia madre ce lo faceva vivere come un gioco: ‘Uscite di casa una a una, non state mai in gruppo, e filate via senza fermarvi mai’”.

Lo sguardo basso, i libri nascosti sotto il burqa, lei e le sue sorelle ogni mattina sgattaiolavano da casa loro così, come congiurate in clandestinità, e camminavano per le strade di Herat con l’andatura più disinvolta di cui erano capaci. “Facevamo scuola di nascosto, da una nostra amica”. Così fino a tredici anni. “Poi, nel 2002, ho sostenuto un esame e sono stata ammessa alla quinta elementare, finalmente in una scuola pubblica”. Questa libertà è durata due decenni, sia pur tra mille contraddizioni: e forse proprio perché il ricordo dell’orrore vissuto era ancora vivido, tutte sapevano che non era scontato, quel diritto così apparentemente banale. “Quando sono tornati i talebani, sapevamo benissimo cosa sarebbe successo”, mi spiega Gulalai appena le mostro le notizie riportate dai quotidiani italiani del giorno – è il 21 dicembre – che riferiscono della chiusura delle università afghane alla donne.

Cosa stesse accadendo doveva saperlo, o quantomeno averne una sensazione assai precisa, anche il professore di Samaneh. “Ci ha convocati tutti d’urgenza, mentre i talebani stavano assediando Kabul: dovevamo bruciare i documenti e le schede di immatricolazione di tutti gli iscritti, soprattutto delle studentesse. Erano informazioni preziose che i talebani avrebbero utilizzato per la loro caccia, casa per casa”. Anche perché quella di Samaneh era un’università particolare. “L’ha fondata mio zio, Sharif Fayez, il primo ministro dell’Istruzione dopo la caduta del regime, nel 2001”, mi dice orgogliosa. L’American University of Afghanistan ha aperto nel marzo del 2006: doveva essere non solo la prima “accademia liberale” del paese, ma anche una porta aperta sul resto del mondo. “Oggi, più della metà dei nostri studenti vive e studia fuori dall’Afghanistan”, rivendica il sito dell’Auaf, su un portale evidentemente non più aggiornato dopo il 15 agosto del 2021, e che sta lì – con la sua ammiccante retorica da marketing (“We empower rising leaders with knowledge and skills”), le “success stories” di ragazzi e ragazze che ce l’hanno fatta, gli annunci dei progetti d’espansione per i prossimi anni “to reach students inside Afghanistan’s borders and around the world” – a testimoniare di come era Kabul, o come sognava di essere, almeno per quei non molti che potevano permetterselo, un attimo prima dell’apocalisse, come una specie di Pompei digitale. “Per loro, quello era un covo di infedeli”, prosegue Samaneh. “E lo sapevamo”.

Lei era lì per la lezione inaugurale del semestre, il 24 agosto del 2016, quando i talebani fecero irruzione con un’autobomba. “Sentimmo un boato pazzesco, venne giù il soffitto dell’aula. I professori ci urlarono: correte, correte, e io iniziai a correre senza capire esattamente perché, volevo solo raggiungere il più in fretta possibile l’uscita di sicurezza, anche se mentre scappavo li vidi col fucile in braccio, e poi sentivo i colpi che ci volavano sopra la testa…”. Diciassette morti, più di cinquanta feriti. E la sensazione, per i sopravvissuti, di dover camminare sempre sull’orlo dell’abisso.

Samaneh mi parla in un inglese fluente, ogni tanto azzarda, timorosa, qualche parola di italiano. E il sole di Roma in questa mattina d’inverno illumina i suoi occhi nerissimi come i capelli tagliati corti, finto scarmigliati, tipo Halle Berry in Monster’s Ball: e tutto nel suo modo di essere, la cover griffata del suo smartphone, la cintura Louis Vuitton sui jeans neri attillati a vita alta, dicono di un desiderio di occidente. “Ma io avrei voluto vivere in Afghanistan, non me ne sarei mai andata”. E anzi, dopo la laurea in Management, Samaneh aveva trovato un lavoro nella sua università (“Servizio Student recruitment”), da lì aveva fatto domanda per entrare nelle risorse umane dell’ambasciata americana a Kabul. “La risposta ufficiale mi sarebbe dovuta arrivare il 18 agosto del 2021”. Una settimana prima, però, i suoi genitori le scrivono da Herat, la sua città natale: “I talebani hanno vinto, qui, si prendono tutto”. “Ero disperata: sapevo che nel giro di un paio di mesi avrei dovuto cambiare vita”. Mesi? “Credevamo così. Invece ci hanno messo solo quattro giorni ad arrivare a Kabul”.

E mentre i macellai entravano in città, Samaneh stava chiusa nel suo dipartimento a bruciare i documenti che avrebbero consegnato centinaia di profili di studenti, centinaia di ragazzi e ragazze, nelle mani degli aguzzini. E qui altro che Monster’s Ball: sembra di rivedere le scene di Argo di Ben Affleck, coi funzionari americani che inceneriscono carrelli di scartoffie riservate mentre i pasdaran di Khomeini assaltano l’ambasciata a Teheran. Solo che quelli erano diplomatici con il pelo sullo stomaco. Samaneh ha ventisette anni. “Il film non l’ho visto”, mi confessa. “Ma di quello che succede oggi in Iran leggo molto, tutto quello che trovo. Cosa penso? BÈ, lì almeno hanno un governo contro cui manifestare. Noi, in Afghanistan…vabbè”.

C’è, va detto, chi prova anche lì a scendere in piazza. Basira, prima di arrivare in Italia come rifugiata, ha animato le proteste nella provincia di Herat. E di quel periodo, di quel suo attivismo, avrebbe voglia di raccontare molto, di entrare nei particolari, ma Simona Lanzoni, la vicepresidente della Fondazione Pangea che l’ha aiutata a fuggire dai talebani (“Mi avevano inserita in una lista di proscrizione”), la interrompe: “Basira, no”.

Troppo pericoloso rivendicare tutta intera la propria identità di dissidente – anche se lei dice, semplicemente: “È la mia storia di donna libera”. E quindi Basira quasi si scusa, da dietro lo schermo del pc. È collegata da Terni, dove ora vive col marito. Esibisce una combattività per nulla corrosa dalla disperazione. “La prima volta che ho indetto una manifestazione qui, un mese dopo il mio arrivo, eravamo io, il mio uomo, una mezza di dozzina di studenti incuriositi. Invece pochi giorni fa, il 25 novembre, c’era parecchia gente”. Dal 2013 era direttrice di “un istituto per giovani donne manager” a Herat. E nel Parlamento della sua provincia, già nel 2005, a 16 anni, venne eletta come rappresentante dei giovani. “Per me la scuola è stato tutto: a golden time”, scandisce, in una delle sue poche espressioni in inglese che non necessitano della traduzione dell’interprete. “Non è facile pensare che chissà per quanto tempo, ora, alle ragazze rimaste in Afghanistan, non sarà consentito più niente. Università, scuola, diritti, nulla. Io, per mio conto, faccio qui in Italia quello che non posso più fare nel mio paese: alzo la voce, mi faccio sentire”.

Maryam prova a farlo anche in Afghanistan.

“Faccio l’attivista a tempo pieno, a Kabul”, racconta mentre gira senza velo, coi folti capelli bruni che le ricadono sulle spalle, per le strade di Milano: viene periodicamente a confrontarsi con le dirigenti del Cisda, il Coordinamento italiano per il sostegno alle donne afghane, col quale la sua associazione, Rawa, collabora da anni. “Ma sto giusto lo stretto indispensabile, poi torno a Kabul”. Anche lei dice poco di sé, della sua famiglia: informazioni sensibili, meglio non rischiare di esporre amici e parenti alla furia meticolosa dei talebani. “Gestisco, con altre donne, una scuola privata per ragazze”. Gli stessi stratagemmi, la stessa furbizia carbonara a cui dovettero ricorrere venticinque anni fa. Un déjà vu disarmante, un tetro gioco dell’oca in cui si riparte ogni volta dal via: dalla barbarie. “Dobbiamo evitare che questa nuova stagione della sharia crei un nuovo buco nero di istruzione. E poi ovviamente forniamo anche cibo e medicinali, abbiamo una rete di contatti sotterranei, un mercato nero”. Pericoloso? “Certo che è pericoloso. Infatti abbiamo delle nostre regole: camminare solo in piccoli drappelli, mai utilizzare gli stessi luoghi per le stesse attività, mai portare con sé volantini. Rischiamo la pelle, sì. Ma la paura di morire ci porterebbe di fatto a non vivere”.

E c’è stato, per Maryam, un periodo in cui anche in Afghanistan le donne hanno potuto vivere davvero, con pienezza. “Le foto dell’album di mia madre mi parlano di una vita impensabile, come non potesse essere stata reale sul serio quell’allegria, quella serenità, un gruppo di ragazze con i pantaloncini per le strade di Kabul, i capelli al vento, mia zia con la sigaretta in mano che s’abbraccia con le sue compagne di università. Tracce della vita su un altro pianeta: le riguardo ogni tanto, quelle immagini, per convincermi che davvero si può vivere così, anche in Afghanistan, che è stato possibile”, dice. “E non solo la vita di mia madre: anche quella di mia nonna è stata incomparabilmente migliore di quella che ho vissuto io. Forse è per questo che, con una durezza insolita, Maryam considera anche “il ventennio americano” come un periodo buio, una scommessa mancata: “Gli Stati Uniti hanno sostenuto governi fantoccio, e lo si è visto nel 2021 quanto poco valessero i politici a cui avevano affidato il paese: tutto s’è sgretolato senza che i talebani abbiano dovuto neppure impegnarsi”. E forse si spiega anche così, alla luce di questa indignazione, una certa – come definirla? – scarsa considerazione da parte di Maryam di chi ha lasciato l’Afghanistan dopo il ritorno al potere dei miliziani. “Non giudico: ognuno ha la sua storia”. E però? “E però, per quanto mi riguarda, quelli che sono andati via sono stati per lo più dei privilegiati”.

In parte ha ragione. Qui alla sede del Parlamento europeo di Via IV Novembre, a Roma, a raccontare le proprie esperienze di rifugiate scampate al massacro sono perlopiù dottoresse, docenti universitarie, mogli e compagne di funzionari di ambasciate. “Noi oggi siamo la voce delle donne afghane che non hanno voce”, ripetono, come fosse uno slogan concordato, durante una conferenza stampa convocata dall’Afghanistan Women’s Political Participation Network.

Batool Haidari, psicoterapeuta quarantenne, deve sapere l’effetto che fa, nell’interlocutore ignaro che la ascolta, sentirla parlare dei suoi studi di sessuologia applicati ai talebani. “Ormai sono una star”, sorride a una sua amica interprete, col tono di chi riesce a non prendersi troppo sul serio. Però in questa ipotetica, inconcepibile gara a rivendicare la primazia della propria sventura, queste settanta donne salvate grazie all’intercessione di una giornalista italiana, Maria Grazia Mazzola, presso ministeri e organizzazioni umanitarie hanno da far valere, semplicemente, la loro stessa stirpe. “Siamo tutte di etnia hazara, la minoranza più perseguitata dai talebani: eravamo bocconcini prelibati”, dice Razia. Chiedo conferma all’interprete: sì, il paragone è proprio quello, nessuna licenza di traduzione. Razia sa usare bene le parole: a Kabul lavorava come giornalista. “Anni di lotte, per essere ammesse anche noi in questa professione. Poi, in una notte, è finito tutto”. La notte, quella tra il 14 e il 15 agosto, è stata anche quella in cui lei ha deciso di andare via. I talebani le hanno falcidiato la famiglia in poche ore, prima che accettassero, su pressione americana, di concedere il diritto di fuga a chi lo voleva. Ma anche lì, si sono voluti regalare un sovrappiù di crudeltà: “Gli uffici che dovevano rilasciarci i passaporti, a Kabul, furono dichiarati chiusi, anche se noi li vedevamo entrare. Pretesero fino a quattromila dollari per rilasciarci i visti”. E non è neppure bastato. Perché molti dei compagni di viaggio di Razia, nel tragitto tra Kabul e il Pakistan, verso la salvezza, sono rimasti bloccati in un tunnel per due giorni. “‘In attesa di nuove informazioni’, ci dicevano i talebani, e intanto ci frustavano”. Altri, il passaggio risolutivo oltre il confine, a bordo di rimorchi mezzi scassati, se lo sono pagato facendo prostituire le loro mogli, le loro figlie, coi camionisti. Non esattamente ciò a cui si pensa, quando si dice: privilegio. Gulalai è partita col ponte aereo del 15 agosto del 2021, salvata dalla “P” che si era disegnata sulla mano. “La P di Pangea”, mi spiega, “era il nostro segno di riconoscimento”. È qui che la incontro: nella sede romana della onlus, a due passi da San Giovanni. Sono gli ultimi giorni prima delle feste: alcune famiglie arrivate in Italia grazie all’attivismo di Pangea passano a fare gli auguri, i ragazzi mostrano fieri i loro progressi con la lingua, i genitori perlopiù chiedono l’invio di aiuti e cesti natalizi ad amici e parenti rimasti laggiù. Anche Gulalai ha lasciato tante persone a Kabul. “Non mio marito: lo hanno ucciso nel 1996 i talebani, la prima volta che arrivarono. Era un militare. Era un uomo giusto”. Le sue due figlie, invece, non hanno voluto seguirla. “Per me è stata una scelta difficilissima. O restare, e vivere da reietta, oppure partire. Da sola”. Le mancano? “Le sento spesso. O meglio: le sentivo. I loro due mariti sono sorvegliati, specie quello che fa il giornalista. Due settimane fa i talebani hanno fatto irruzione in casa loro, da allora posso solo scriverle dei messaggi”, mi racconta. Tiene il velo adagiato con apparente sciatteria, sul capo: quasi come uno scialle sulla testa di un’anziana contadina dell’Appennino. “O dimenticanza o disprezzo della regola”, dice Manzoni di suor Gertrude, davanti a quella ciocca di capelli neri che sfugge al controllo della benda monacale. Gulalai frequenta un corso da pasticciera, a Roma. Il suo piatto forte è il mantu, una specie di raviolo di carne – mi faccio spiegare – ricoperto di yogurt e menta. “Ma anche col risotto ai frutti di mare me la cavo”. Le mancano però le sue letture, i suoi libri. “Il mio scrittore preferito? Il poeta Rumi. Ma qui la mia laurea in Lettere vale poco o nulla, meglio puntare sulla pasticceria”.

In effetti il riconoscimento di crediti ed esami universitari è una delle richieste meno scontate, e però più ricorrenti. Dice forse di una voglia di vita che non si rassegna a chiedere solo l’essenziale: il cibo, certo, un tetto sulla testa, la sicurezza. Ma Samaneh continua a parlarmi soprattutto dell’attesa per una risposta da Tor Vergata: “Spero che accettino la mia domanda, che possa andare a frequentare i loro corsi in Management”, mi dice. “Per me sarebbe davvero un nuovo inizio”. Dopo la presa di Kabul, per tre volte ha tentato la fuga: per tre volte è stata respinta (“La prima, dieci giorni dopo Ferragosto. Mio fratello mi disse: ‘Alle due fatti trovare all’aeroporto’. Ma ci fu l’esplosione, decine di morti, non riuscimmo a partire”), s’è dovuta nascondere (“Eravamo chiuse in casa, sbirciavamo dalle tapparelle semichiuse i talebani che camminavano per strada coi kalashnikov in braccio”), ogni cosa sospesa, perduta. “Per cinque mesi sono stata dentro un appartamento, senza poter uscire, senza potere fare assolutamente nulla. Sono caduta in depressione”. Poi, finalmente, il volo per Islamabad, da lì quello per l’Italia, nel luglio scorso, grazie a un corridoio umanitario allestito dalla Federazione delle chiese evangeliche. “Sono finita in Abruzzo, nei progetti Case di Roio Poggio”. Gli appartamenti delle famigerate “new town” berlusconiane, ora quasi tutte abbastanza cadenti: una casetta di legno sul nulla, o quasi, di una collina alla periferia dell’Aquila, a ottocento metri, un freddo che è freddo già a settembre, desolazione a volerne. Forse non proprio quello che si spera di trovare, arrivando in Italia. “Ma sono stata benissimo, per carità”, si sente in dovere di precisare, appena le dico che quelle sono le mie zone, “e poi il panorama è bellissimo, c’è la pineta, ci sono i monti. Certo, Roma è un’altra cosa, qui ci sono opportunità per me”. Vive in centro, ma non può dirmi dove, di preciso. Sorride, però. Dice che ora, dopo tanto tempo, è tornata a credere in qualcosa. “Il dolore passato non si cancella, ma ci si può sforzare di metterlo da parte, per evitare che si mangi tutto il resto. Ecco, io ora credo nel resto”. Il resto? “Yes, I believe in all the rest. It’s quite enough”.

Valerio Valentini (L’Aquila, 1991) è un giornalista del Foglio che si occupa perlopiù di politica. Ha pubblicato “Gli 80 di Camporammaglia” (Laterza, Premio Campiello Opera Prima nel 2018), “Però l’estate non è tutto” (La Nave di Teseo, 2021) e “Al cuore dell’Italia”, scritto con Giulia Pompili (Mondadori, 2022).