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Conosci te stesso in un mixtape

Tra i cento libri più belli del secolo, fra il padre che si sentiva snobbato dal New Yorker e l’amico cool che piace a tutti. Conversazione con il premio Pulitzer Hua Hsu sull’identità e sull’amicizia che ci fanno diventare chi siamo

Scrivere di sé può essere accolto con condiscendenza – soprattutto in Italia. Il memoir è letteratura minore rispetto a una storia in cui lo scrittore si è inventato trama o personaggi. Hua Hsu, americano di origine taiwanese, giornalista del New Yorker e professore al Bard College, con il suo memoir Stay True ci ha vinto un Pulitzer. Gli chiedo cosa pensa di questo pregiudizio quando lo incontro in un bar di Milano, mentre rifiuta il mio consiglio di ordinare caffè con panna, specialità della pasticceria, e ordina un cappuccino a un orario improbabile. Sembra un uomo molto sobrio. «Anche in America il memoir è preso meno seriamente. Perché stai scrivendo di te. L’idea generale è che puoi farlo solo dopo una vita lunghissima o dopo aver fatto chissà cosa. Quindi quando ho iniziato a scrivere, è stato strano: nessuno sapeva chi ero, e non ho fatto niente di importante. Sono stato testimone dell’esperienza di qualcun altro. E mi hanno pure detto: sei troppo giovane. In qualche modo capisco questa percezione generale, non è detto che la condivida, ma la capisco. Poi però, nell’era di internet, un sacco di giovani hanno iniziato a scrivere una narrativa molto personale e coinvolgente, e questo credo che abbia dato una mano a rendere più accettabile che gente della mia età scrivesse memoir».

Stay True, uscito in Italia per NR edizioni, racconta di un’esperienza traumatica che ha segnato Hua Hsu a vent’anni. È il dolcissimo e doloroso ricordo del college a Berkeley e del rapporto con Ken, il suo migliore amico, che un giorno, dopo una festa, viene rapinato e brutalmente assassinato. Hua e i suoi amici entrano in contatto con la morte in modo casuale e crudele, il libro è un’elegia per l’amico perduto, l’elaborazione personale e collettiva del lutto, ma è anche un racconto di formazione costruito attraverso l’intreccio di musica e amicizia. Il New York Times, che lo ha inserito nella classifica (con Elena Ferrante al primo posto) dei migliori cento libri del Ventunesimo secolo, lo ha commentato così: «Il discreto memoir di Hua Hsu costruisce una luccicante fortezza di ricordi in cui gioventù e identità convivono insieme a una perdita terribile e insensata». Con una voce composta ma accogliente, che non si appesantisce mai di nostalgia, Hsu si interroga su cosa vuol dire crescere e capire come abitare il mondo. La musica – Hsu è critico culturale e musicale –, è la chiave d’accesso alla vita interiore del protagonista. A metà anni 90 Hua, figlio di taiwanesi emigrati negli Stati Uniti vent’anni prima per fare il dottorato, arriva a Berkeley. Indossa maglioni frutto di un minuzioso spulciare nei negozi di seconda mano, trascorre i venerdì sera a leggere, è uno straight edge, rivendica i suoi gusti musicali ricercati nelle sottoculture ed è intransigente contro qualunque cosa sia mainstream. In pratica, è uno snob (si è ammorbidito facendo il dj: non poteva suonare pezzi che conosceva solo lui. Oggi aspetta che al cinema escano blockbuster tipo Top Gun). Diventa il migliore amico di Ken, un nippoamericano estroverso, naturalmente “cool”, che fa le cose che fanno gli altri e poco gliene importa, frequenta le confraternite, piace a tutti e vive con la disinvoltura che manca completamente al rigido Hua. I due condividono quel momento della vita in cui inizi a capire chi sei e a farlo capire agli altri. È un momento di ricerca, di grande entusiasmo e di sentimenti molto forti, in cui i tuoi gusti, quello che ti piace, ma ancora di più quello che non ti piace, definiscono la tua identità. Da giovane passava molto tempo a setacciare la cultura in cerca di una struttura, di una lente per mettere a fuoco il mondo. Kurt Cobain, i cappellini da baseball, le Pantere nere, Marx, Foucault. Ogni scelta è un atto d’amore e un segno della propria formazione emotiva: «Eravamo tutti in cerca della stessa cosa, la qualità che ci avrebbe davvero reso noi stessi», scrive. È per questo che anche se il volto di Ken appare sfocato, Hsu ricorda perfettamente l’ordine delle canzoni nei mixtape che creava e la sensazione di delusione quando aveva scoperto che l’amico era un fan dei Pearl Jam. A un certo punto smettiamo di definirci in base a quello che odiamo? Risponde ridendo che per lui le cose sono cambiate da quando ha un figlio che sembra vivere per contraddirlo.

Hsu inizia a scrivere Stay True subito dopo la morte di Ken, in forma di appunti su un diario, una sorta di terapia per affrontare il dolore. Si rivolge direttamente a lui, descrive i suoi sentimenti – «è strano crescere senza Ken» –, e vent’anni dopo torna su quel materiale. Molte delle frasi citate le riprende direttamente da lì, il resto è una rielaborazione di quei ricordi. La memoria mistifica, i suoi ricordi ricostruiscono la realtà. Hsu dice che è un libro sul «sentimento del ricordare qualcosa, del passato», più che una fedele trascrizione degli eventi. Parliamo della sua relazione con la memoria. «Mi piace molto scrivere di storia. Quindi cerco di essere preciso come scrittore. Ma quando ho iniziato a scrivere questo libro, mi sono reso conto che mi interessava di come la nostra memoria non sia una rappresentazione precisa del passato. A volte mi sembra che storia e memoria siano in competizione». La memoria a cui ha attinto è stata solo la sua o quella delle persone con cui ha condiviso il dolore?

«Avevo scritto una versione del libro molto più lunga, e a tutti quelli citati avevo mandato le pagine che li riguardavano, chiedendo se volevano che cambiassi i loro nomi. Tutti mi hanno risposto: tieni pure il mio nome, ma ci sono delle imprecisioni. Tipo: quella sera a cena c’ero anche io, cose del genere. Il libro sono i miei ricordi, quindi ho deciso di tenere le imprecisioni. Erano parte del processo di mistificazione. Il libro stesso è sul ricordare male. Sono amico praticamente con tutti, quindi non sono stati coinvolti nella gestazione del libro, ma sono coinvolti nella mia vita da vent’anni».

Stay True è un libro sull’amicizia: quella intensa in cui si condivide tutto, anche la noia abissale. C’è questa scena valida per ogni adolescenza del mondo, in cui Hua, Ken e gli altri prendono la macchina con destinazione il parcheggio del supermercato 7/11, le distanze misurate in canzoni, per poi trascorrere il tempo nel parcheggio con le mani in tasca, in attesa che succeda la vita. La noia è un motore per l’amicizia: viverla insieme, escogitare piani per evaderla. Vale anche dopo? Si annoia ancora? «Non so se le persone si annoiano oggi. Ci sono i telefoni. Appena ti annoi, c’è sempre qualcosa da vedere, da ascoltare, da imparare. Senza sforzo. Recentemente ne parlavo con i miei studenti diciottenni. Un ragazzo ha detto che non si annoia mai perché appena gli emerge questo sentimento, si mette un video su YouTube per imparare a cucinare, o si segue una lezione di scienze. Di base passa il tempo a imparare cose». Abbiamo paura del vuoto. «Infatti. Bisogna stare con la propria noia. Annoiarsi e pensare al suo significato. Guardare il muro di tanto in tanto. Io le cerco le occasioni per annoiarmi. Da poco ho iniziato a correre: è stancante, ma non puoi davvero pensare a niente».

Quando Hsu aveva l’età dei suoi studenti, internet era un posto molto diverso, un far west in cui potevi trovare la tua tribù di riferimento. Scrive di come ci si scriveva lettere per dirsi di controllare la posta elettronica, delle conversazioni che aveva online con le comunità di nerd di musica underground, da cui, tra l’altro, escludeva il popolare Ken. Aveva anche una fanzine, una rivista indipendente, un collage che componeva con ritagli di foto, grafiche artigianali, pezzi scritti da lui. Oggi questa stessa stratificazione l’ha ricreata sul sito del suo memoir, un universo ipertestuale su cui Hsu ha impiegato, dice, fin troppe energie per qualcosa che nessuno guarderà. Dalle fanzine autoprodotte, ai giornali universitari asioamericani, al New Yorker, dove lavora dal 2014. Suo padre ci si era abbonato appena immigrato negli Stati Uniti, ma aveva interrotto l’abbonamento dopo essersi accorto che non era una rivista per nuovi arrivati. «Oggi è cambiata, ma io cerco di scrivere in un modo per cui le persone che potrebbero trovare il magazine un po’ respingente possano comunque leggerlo e sentirsi coinvolti, come mio padre». Suo padre che gli spediva fax da Taiwan per discutere di basket e di Mtv. «Si sta godendo il fatto che le persone lo considerano un fico». Nel libro parla molto dei genitori, dell’essere una famiglia asioamericana. L’identità è un tema su cui si interroga insieme a Ken, che per primo gli fa notare la mancanza di rappresentazione di personaggi asiatici nei film. Pensa che le cose siano cambiate? «Ci hanno messo tantissimo, ma finalmente chi firma gli assegni ha capito che si fanno più soldi raccontando storie diverse. E che fanno successo, come Crazy Rich Asians. La prova comprovata che chi negli anni 90 sosteneva che servisse un’attitudine che gli asiatici non avevano, aveva torto». Si riferisce a quando Ken viene scartato per un reality perché i produttori sostengono che agli asiatici manchi il “non so che”. Oltretutto, l’identità asiatica della famiglia di Hua ha poco a che vedere con quella della famiglia di Ken. Il processo di assimilazione è molto diverso per i nippoamericani, comunità che è negli Stati Uniti da generazioni. Ken è ottimista, cresciuto nei sobborghi della California, ha la sicurezza di chi non sa di essere un outsider. Hua nota persino che non si toglie le scarpe quando entra in casa. Questo contribuisce a rendere agli occhi di Hua ventenne la categoria degli asioamericani confusa e arbitraria. Perché, accanto a Ken, che ha persino un nome che suona americano, ci sono i figli dei rifugiati della guerra in Vietnam a cui Hua faceva da doposcuola. Questi, anche se venivano da classi sociali e paesi diversi (soprattutto dal sud-est asiatico), comunque condividevano una cultura (genitori segregati nei quartieri, il valore culturale del cibo, togliere le scarpe in casa) capaci di generare un’identità e delle rivendicazioni collettive. A un certo punto Hua si rende conto che si sta integrando contemporaneamente ai suoi genitori.

Cosa vuol dire oggi essere asioamericano? «Sicuramente ha un significato diverso da quando io avevo vent’anni. Allora stavo cercando una comunità. Non so se l’ho trovata, ma ora lo apprezzo. Per me oggi vuol dire sapere che c’è una storia comune, una coscienza delle esperienze condivise. Ti senti meno solo. Ti senti parte di qualcosa più grande, senza necessariamente dover essere qualcosa di specifico». E la tensione tra Cina e Stati Uniti ha delle conseguenze per gli asioamericani? «Sì, e non è la prima volta. Sei in mezzo a due fuochi incrociati. Durante la Seconda guerra mondiale, gli americani di origine giapponese se ne sono dovuti andare. Venivano arrestati. Negli ultimi vent’anni è successo che degli studenti cinesi siano stati presi di mira. Poi vabbè c’era Trump che blaterava di influenza asiatica, ma ha poco a che fare con la geopolitica». Anche se Taiwan ben si distingue dalla Repubblica popolare cinese. «Dico sempre alla gente: ma perché vai in Corea, in Giappone, a Hong Kong o sulla terraferma. Vai a Taiwan, costa meno. La gente è amichevole, trovi tutto quello che vuoi. Mi sembra effettivamente che sia un luogo illuminato rispetto ad altrove». Poi mi parla di Edward Yang, un regista taiwanese dei cui film si è recentemente ossessionato. Dice che è un genio. Un altro film che cita è Aftersun di Charlotte Wells, che gli ha ricordato l’atmosfera che ha provato a evocare in Stay True. Un libro che invece recentemente lo ha toccato è stato Moon Palace di Paul Auster: «L’ho divorato. È buffo, perché torniamo al discorso di prima della memoria e della fiction. Ci sono molte osservazioni sull’infanzia: genitori assenti, quello che impari dalla tua famiglia, ma è tutto incastonato in questa storia fantastica di alcune persone che si perdono nelle grotte dello Utah. È anche denso di domande esistenziali, riflessioni su cosa vuol dire essere una persona. È difficile scrivere un libro in modo così aperto sull’essere padre, mentre parli di allunaggio e di cultura psichedelica degli anni 60». Se invece pensa a un disco, la risolve così: «Siamo in Italia, quindi penso ai Bar Italia, un gruppo inglese, e al loro ultimo album, Tracey Denim». Dopo questo name dropping misurato, gli chiedo cosa vuol dire per lui «Stay True», (tradotto con l’espressione «resta fedele»). «Quando il libro è uscito non lo sapevo, non avevo risposte. Era solo una battuta che facevamo con Ken. Più frequentavo questa frase però, più mi rendevo conto che per tutto questo tempo nascondeva un significato che non avevo capito. È molto semplice, in realtà. Tutti possiamo cambiare, e tutti possiamo pensare di essere cambiati. L’importante è affidarti finché puoi ai tuoi valori più veri».

Livia Chiriatti (Roma, 1995) è assistente editoriale del Foglio Review.