Cerca

Contro le grate di parole

Nella valigia per la guerra ci sono i saggi sulla Russia, il taccuino, la matita e Paul Celan, che tiene in mano il filo con l’Ucraina e non cerca riconciliazione ma verità. La poesia è un cristallo: per i vivi che sanno che ci sono anche i morti

Io poi scrivo non per i morti, ma per i vivi – certo, per quanti sanno che ci sono anche i morti”. Era il 1967 e Paul Celan scrisse queste parole in risposta a Adorno che l’anno prima aveva sentenziato che “dopo Auschwitz nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice” fosse più possibile.

Celan, che quel pezzo di storia del Novecento ce l’aveva in casa perché nei campi di concentramento erano morti i suoi genitori e che avrebbe battagliato tutta la vita col linguaggio per provare a raccontarlo, gli aveva risposto così, con uno dei “lapilli minuscoli nel tufo dell’esistenza”, i microliti, che avrebbe continuato a raccogliere per anni e che in Italia ha pubblicato Zandonai.

Perché Paul Celan mentre preparo la valigia? Perché la poesia è un cristallo e con la sua sintesi perfetta fa i conti con quello che – in tempo di guerra – si fatica a dire. Per questo, credo, i volumi di poesia sono le prime cose che metto in valigia da sempre, un po’ insegnamento e un po’ rifugio. Tra pochi giorni ripartirò per l’Ucraina, ho sul comodino due saggi sulla Russia di Putin, un taccuino per gli appunti, una matita nuova.

Ieri, di fronte agli scaffali di poesia in corridoio per scegliere cosa prendere, ho riaperto dopo tanto tempo i Microliti, perché c’è un filo tra Paul Celan e l’Ucraina dove sono diretta. L’ho realizzato durante l’ultimo viaggio, pochi giorni prima di rientrare, quando ho visto la fotografia di un busto di Celan a Chernivtsi. Lui era di lì. O meglio lui era apolide. O meglio era entrambe le cose.

Celan è nato da una famiglia ebrea di lingua tedesca a Chernivtsi, che è una terra di confine e di passaggio nella Bucovina al confine orientale di quello che era stato l’impero austro-ungarico, poi è stato parte del Regno di Romania e oggi è parte dell’Ucraina. Nella Czernowitz di Paul Celan, vivevano insieme rumeni, polacchi, austriaci, ucraini, in una babele di religioni, lingue e culture che rispecchiava la sua famiglia, a casa sua si parlava tedesco ma anche rumeno, russo, francese, ebraico, yiddish e inglese.

Quando scoppiò la guerra nel 1939 la Bucovina, e quindi anche Chernivtsi, cadde sotto controllo sovietico e per un po’ il patto Molotov-Ribbentrop, che codificava la non aggressione tra la Germania di Hitler e l’Unione sovietica di Stalin, aveva tenuto i Celan relativamente al sicuro dalle politiche antisemite che si stavano diffondendo nel Terzo Reich. Ma nel 1941 i nazisti riconquistarono Chernivtsi, bruciarono la Grande Sinagoga e deportarono gli ebrei. Celan fu costretto ai lavori forzati a spalare pietre e i suoi genitori furono deportati in un campo in Transnistria, nell’Ucraina occupata dai tedeschi. Suo padre morì di tifo nel 1942 e nello stesso anno sua madre, ritenuta inabile al lavoro, venne uccisa. Una ferita che divenne l’ossessione della sua vita: la storia aveva trasformato la sua lingua madre nella lingua degli assassini di sua madre.

Celan decise di cercare le parole per descrivere questa ossessione proprio nella lingua tedesca. Ne nacque Todesfuge, Fuga di morte, scritta nella lingua madre che era la lingua degli assassini. Che diventa per lui la lingua degli enigmi. “Nero latte dell’alba lo beviamo la sera lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo la notte beviamo e beviamo scaviamo una tomba nell’aria là non si giace stretti”.

Il latte nutriente della lingua madre del poeta è diventato nero, il suo suono è nativo e mortale insieme. Ma a lui, lo disse in una frase che era insieme confessione di un limite e dichiarazione di poetica, “non interessava il bel suono, interessava la verità”.

Per questo Celan ha sempre rifiutato l’estetizzazione del male, e ha cercato le parole che non lasciassero spazio al fraintendimento, che tenessero conto delle zone d’ombra e della sua lotta con i limiti del linguaggio. Per questo Celan non cercava riconciliazione nella poesia, ma un punto di equilibrio tra silenzio e oblio, tra “papavero e memoria”.

Oggi, di fronte all’insensatezza della guerra siamo chiamati a un rapporto più impegnativo con le parole. Mi chiedo se bastino quelle che abbiamo, se siano appropriate, se esista un modo più responsabile di dire tragedia e di dire distruzione, se esista una formula per restituire a chi legge il vissuto di cui siamo testimoni, senza che le parole sembrino avere una pretesa di significato che però resta imprigionato dietro quelle che Celan chiamava Sprachgitter, le grate di parole.

È per questo che ho sul comodino i saggi, il taccuino, la matita nuova e sempre – prima di partire – dei libri di poesia. Perché la lingua è uno strumento fragile. E nessuna forma, più della poesia e della sua sintesi, sa esprimere i dubbi impietosi della realtà che fatichiamo a comprendere.

Francesca Mannocchi (Roma, 1981), giornalista e scrittrice, inviata di guerra. Nel 2019 ha diretto con il fotografo Alessio Romenzi il documentario “Isis, Tomorrow” presentato a Venezia. Tra i suoi libri: “Io Khaled vendo uomini e sono innocente” (Einaudi, 2019) e “Bianco è il colore del danno” (Einaudi, 2021).