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Da domani (non) scinderò

Voglia di tregua nel post elezioni? Basta un dispositivo nel cervello, come nella serie tv “Scissione”. Ma preferisco lavorare

Che sia per entusiasmo o per disgusto, dal giorno successivo alle elezioni politiche più di qualcuno si ritroverà irrimediabilmente avviluppato in un flusso senza fine di talk-show e maratone televisive, analisi del voto, scenari e previsioni. Altri invece proveranno a mettersi al riparo, perché bruciati dalla sconfitta dei propri preferiti o anche soltanto stremati da questi due mesi, o due anni, o due decenni: faranno zapping cercando di dribblare dichiarazioni trionfali e piagnistei, eviteranno i capannelli in ufficio davanti alla macchina del caffè e toccheranno “unfollow” su questo o quel social, nel tentativo di allontanarsi dalle discussioni sulla politica. Falliranno, è inevitabile, come chi ha provato a isolarsi dalla campagna elettorale addirittura durante la campagna elettorale. E dopo aver unfollowato ancora un po’ si chiederanno: cosa dobbiamo fare per non sentirne più parlare, almeno per un po’? Ci siamo informati, abbiamo votato, in un modo o nell’altro è andata: avremo maturato almeno il diritto a una tregua temporanea dai vari “io non l’ho interrotta”?

Il desiderio di chiudere in un compartimento a tenuta stagna un pezzo della nostra vita e dei nostri pensieri così da decidere quando letteralmente dimenticarsene – riconoscendone sia la necessaria importanza che il suo fardello emotivo – è al centro della serie tv che mi è piaciuta di più negli ultimi tempi: si intitola Severance, in italiano Scissione, è prodotta da Apple TV+ ed è ambientata in un presente nel quale una grande e misteriosa azienda di biotecnologie ha inventato una procedura medica che permette di fare esattamente quanto sopra.

Lo scopo dell’azienda non è salvare le persone da Fox News o dalla prospettiva del ritorno in politica di Donald Trump, bensì separare i ricordi della vita personale di alcuni suoi dipendenti dai loro ricordi lavorativi: entrando in ufficio, infatti, un minuscolo dispositivo impiantato chirurgicamente nel cervello si attiva e impedisce ai dipendenti di ricordare qualsiasi cosa della loro vita di fuori. Una volta finito il proprio turno, varcata nuovamente la soglia, il dispositivo si disattiva così che i dipendenti vivano il resto della loro vita senza conservare alcun ricordo di quanto accaduto in ufficio. Non c’è nessuna lobotomizzazione, ognuno conserva la propria personalità e le proprie inclinazioni: ma vive due vite, una dentro e una fuori. Tutti i dipendenti si sono sottoposti volontariamente alla procedura medica, per proteggersi dalle conseguenze dello stress e dei conflitti della vita lavorativa oppure per trovare un parziale ristoro dai pensieri che li assillano nella loro vita personale.

Dal momento che la versione professionale di ogni dipendente (il cosiddetto “interno”) non conosce nulla della propria versione personale (il cosiddetto “esterno”), e viceversa, avviene nei fatti uno sdoppiamento; solo che mentre l’“esterno” può decidere quando vuole di licenziarsi e intanto fa quel che vuole del resto della sua vita, l’“interno” si trova sostanzialmente in una condizione di schiavitù, costretto di fatto ai lavori forzati e senza ricordi né esperienze che non riguardino la propria professione. Le implicazioni narrative si possono facilmente intuire, così come il fatto che escludere dall’ufficio ogni traccia del mondo di fuori si rivelerà particolarmente complicato.

Non dirò altro su Severance, perché le recensioni non sono il mio mestiere e ogni anticipazione rischia di rovinarne la scoperta. Guardandola però mi sono trovato più volte a pensare alla retorica ultracontemporanea che sogna la piena automazione, che pensa che la funzione nobilitante del lavoro sia una furba invenzione dei padroni per infinocchiare la classe operaia e demonizza il lavoro in quanto tale, considerandolo indistinguibile dallo sfruttamento. Come se l’articolo 1 della Costituzione fosse stato scritto con intento punitivo: che scemenza. O è il mio privilegio che parla? Insomma, alla fine sono tornato di nuovo alla politica.

Francesco Costa (Catania, 1984), giornalista e vicedirettore del Post. Ha curato il podcast “Da Costa a Costa” e ha pubblicato “Questa è l’America” (2020) e “Una storia americana” (2021). Ha un podcast quotidiano, “Morning”, ed è ora in libreria con “California” (Mondadori).