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Da Marcolino l’elettrauto, la meglio gricia di Roma

Il romano può divorziare per un sugo, combatte con il dilettante di TripAdvisor, studia trattorie, ristoranti raffinati e bettole. Ma resta fedele al primo amore, il solito tavolo confortante, la carbonara a cui si perdona anche il conto scarabocchiato sulla tovaglia

La prima cosa che lo straniero impara arrivando a Roma è che la cucina è una cosa seria. Uno viene qui e si predispone a questa umanità sbracata, indolente, che non dà troppo peso alle cose, che lascia fare, ma che te frega. Invece questa città che tutto perdona e tutto dimentica, che tutto si fa scivolare addosso – questa città crudele ma di una crudeltà che non fa attrito, sulla cucina non scherza. Non ama soprassedere, ecco. Sulla cucina non concepisce proprio l’idea della celia, dell’approssimazione. O magari a volte sì, ci scherza, ma con severità, col tono di chi si concede la burla solo per dissimulare paranoia, con risate che sottintendono gravità. E questa dedizione impensabile, questa prussiana fedeltà alla causa, insomma questo prendersi terribilmente sul serio quando si tratta di mangiare, lo straniero lo constata soprattutto in un aspetto: nell’ossessione per le classifiche. Graduatorie rigorose, un complesso di giudizi e annotazioni e disappunti, elenchi stilati in anni di duro sforzo di ricerca, di studio, di gerarchizzazione inesausta che però, e qui sta l’origine del problema, quasi sempre servono a confermare la prima impressione, l’innamoramento originale, la scintilla che ha messo in moto ogni cosa. Perché una volta che il romano ha stabilito che «questa è la meglio carbonara de Roma», che poi è come dire «la meglio carbonara del mondo», farlo ricredere, farlo anche solo semplicemente vacillare, è una cosa pressoché impossibile.

Fare classifiche in fatto di cucina è il modo con cui il romano rivendica il proprio rigore morale di fronte al resto del mondo che invece lo considera superficiale e indifferente a tutto. E invece no. Altro che lavativo. A Roma, quando si va in pausa pranzo, si va in missione. Si è seri, esigenti, scrupolosi. A Roma, quando si va in pausa pranzo, si lavora. E così sull’esatta consistenza della crema della cacio e pepe si sono guastate belle serate; amicizie decennali sono bruscamente finite, compagni di elementari medie liceo hanno interrotto ogni rapporto per una incomprensione su quel certo retrogusto di quella certa carbonara; le dispute sull’eccessiva acquosità del sugo di una amatriciana si sono risolte in pratiche di divorzio, ché se non siamo d’accordo sull’acquosità del sugo di una amatriciana mi dici tu come possiamo condividere i valori basilari per costruire un rapporto di reciproca fiducia, una famiglia, dei figli? Quella rissa scoppiata a Tor di Quinto di recente, con bottiglie rotte e lancio di sampietrini, tre uomini trasportati d’urgenza al Gemelli in prognosi riservata, s’è detto che era un regolamento di conti tra bande di spacciatori cingalesi, ma non è vero: era un litigio su una gricia appena assaggiata in una cena di lavoro, e su cui si erano registrati pareri discordanti, che è degenerato quando uno dei presenti ha esclamato: «La meglio gricia de Roma». Così, senza alcuna cautela, senza un minimo di attenzione. Un kamikaze.

Ora, stando ai dati della Confcommercio, a Roma ci sarebbero circa 7.800 ristoranti. Togliamo pure un dieci per cento – siamo generosi – di etnici; diciamo poi che un migliaio fanno solo pesce, e leviamone almeno il doppio che sono esclusivamente pizzerie. Restano, a voler stare stretti, almeno almeno quattromila obiettivi sensibili. (Molto a lungo occorrerebbe discutere sulla scelta di escludere da questo conteggio gli oltre 2.500 bar «con cucina senza somministrazione», i 300 locali dotati di «fornitura di pasti preparati», le 800 mense, i 220 stabilimenti balneari, quel centinaio di sale biliardo e gli altrettanti «night club, discoteche, sale da ballo e simili», e tavole calde semiabusive, i cucinini nei sottoscala introvabili per i funzionari dell’Agenzia delle Entrate ma ovviamente non per il nostro eroe compilatore di classifiche. Non sorprenda il cruccio che ci ha colto nel decidere infine di escludere questa varia casistica dalla nostra ricognizione, perché solo apparentemente sono luoghi secondari, ai fini della ricerca, molto spesso il fanatico della graduatoria è proprio in questi anfratti oscuri che sostiene di aver individuato il piatto vincente, quella ricetta carbonara – nel senso di: clandestina – che rende la carbonara – nel senso del piatto – davvero speciale. Tanto più che assegnare la palma ambita proprio a una di queste bettole misconosciute – con tovagliette di carta riciclata, bicchieri opacizzati dal troppo uso e a volte posate imbustate nella plastica – concederà al Nostro la possibilità di guardare con supponenza qualsiasi altra classifica, redatta chiaramente da banali fruitori di cucine mainstream e assoggettati all’omologazione di TripAdvisor o TheFork o Zoomato, che nulla sapranno mai della vera romanità che resiste, che s’oppone alla dittatura delle lobby del gusto, di Soros e di Alessandro Borghese: ma che volete stare qui a disquisire, voi conformisti, che non avete mai varcato la soglia der materano, che non sapete chi sono i cugini Scorzagrossa, che non siete ancora stati dal Domenicucci a Tor Tre Teste o da Marcolino l’elettrauto).

Restiamo stretti, quindi. Limitiamoci ai quattromila ristoranti ufficiali. Ebbene, quattromila ristoranti significa che per poter fare davvero una classifica, il romano dotato di senso civico dovrebbe impiegare come minimo undici anni nella sua instancabile peregrinazione: undici anni di cene, sera dopo sera dopo sera dopo sera, festivi e weekend compresi, senza riconoscimento di ferie, malattie, 104, senza che alcuna assenza, alcuna defezione, possa essere giustificata; undici anni di relazioni sociali esasperate in un continuo aggiornamento tecnologico, partendo coi trilli di Msn e finendo con gruppi WhatsApp a cui si danno di volta in volta nomi ammiccanti, a metà tra l’autocommiserazione recitata e la goliardia delinquenziale (tipo: «Sesemomagnatitutto», «Nuncerestacheruttà», «Digeriscichetepassa», «Moltitrigliceridimoltoonore»); undici anni che hanno visto il Nostro divenire testimone di mutazioni antropologiche e sociali clamorose, in fatto di cucina tipica, se è vero come è vero che quando aveva cominciato, nei quartiere giovanilistici del Pigneto e di San Lorenzo, ma anche sul fronte caldo tra Piazza Bologna e Corso Trieste, era ancora tutto un discreto proliferare di hostarie e trattorie, quelle coi carciofi turgidi messi sull’uscio a testimoniare della freschezza dei prodotti e col menù scritto in approssimativo idioma locale. Mentre adesso la tradizione culinaria della città eterna si reinterpreta e si perpetua in ristoranti più raffinati, gestiti da titolari impeccabili, con la faccia diafana ma tronfia, quella cortesia concessa così, con leggerezza, come se a loro non costasse fatica mettere le labbra a culo di gallina e parlarti del loro «percorso di sapori e suggestioni» e spiegarti che, dopo una lunga ricerca con tanto di visiting in una scuola di cucina del Michigan, lo chef ora propone la carbonara CBT realizzata con macchine per sottovuoto a estrazione, roner professionali con timer touchscreen e termometro waterproof – il composto d’uovo va fatto cuocere a 46,35 gradi per 7 minuti e 13 secondi – e dosi massicce di ghiaccio per l’abbattitura, un impianto che manco la Nasa. Ma anche, inevitabilmente, undici anni di solitudine, di girovagare indomito per vecchie bettole e trattorie di quart’ordine, nelle periferie più derelitte; undici anni di analisi del sangue sballate e di finanze dissestate, di liti famigliari e di guai con la giustizia per le denunce di abbandono del tetto coniugale, undici anni di inaggirabile psicoterapia. Ecco, solo al termine di questi undici anni, quando il cives romanus sarà ormai incanutito, grasso, col colesterolo ben oltre i livelli di guardia, disconosciuto da moglie e figli e col conto in banca prosciugato, con gli osti che ormai hanno memorizzato la sua faccia, l’hanno riprodotta su adesivi incollati accanto alla cassa con su scritto «NON SI FA CREDITO», solo allora sarebbe lecito che questo stakanov della tovaglia, questo martire della papilla gustativa, stilasse la sua classifica, ci dicesse, finalmente, qual è «la meglio carbonara de Roma». (E va detto che qui ci si è limitati al Comune: ché se volessimo, con scrupolo da veri appassionati, esplorare l’intera provincia, o città metropolitana che dir si voglia, coi suoi circa 20 mila esercizi di cucina e ristorazione, bisognerebbe più che triplicare il tempo, il trauma, la disperazione: una vita dedicata tutta intera a una missione di cui non si conoscerà l’esito, un’eredità per i posteri). E chiunque volesse contraddirlo, chiunque intendesse contestare i risultati delle sue ricerche, dovrebbe ovviamente sottoporsi allo stesso supplizio, sciropparsi pure lui i suoi begli undici anni di peregrinazione inesausta, e poi offrire la sua controanalisi, in un processo di peer review finalmente virtuoso, finalmente affidabile.

E invece no. E invece ognuno, dopo un’esperienza che potremmo definire basica, con competenze appena amatoriali se non dilettantesche, afferma le sue verità. Giustamente forse, ché nell’epoca dell’orizzontalità totale, della libera condivisione di opinioni e di giudizi, nell’epoca in cui il principio di autorità è diventato una specie di oltraggio alla libertà del pensiero, al fraterno appiattimento sull’umore del momento, ecco in un momento storico del genere tu vuoi privarmi del mio sacrosanto diritto a stabilire quale sia la meglio amatriciana di Roma? Cioè: dovunque ti giri è tutto un trionfo di recensioni scritte dagli utenti, e però io dovrei sentirmi in colpa, o anche semplicemente provare un brivido d’imbarazzo, a stabilire qual è la meglio cacio e pepe della Capitale?

Anziché opporsi all’onda che li stava travolgendo, i titolari dei ristoranti romani si sono illusi di poterla cavalcare, come tutti. E sono finiti, come tutti, col farsi complici dei loro stessi carnefici. Così te li ritrovi imploranti, a fine pasto, che ti supplicano di concedergli una buona recensione su TripAdvisor, perché una cafona di Val Melaina, due giorni prima, s’è impuntata sull’amatriciana che, dice lei, va fatta coi pelati e non con la polpa, e di lì ha iniziato a montare una questione che ha coinvolto tutta la sala, e insomma in tre hanno poi lasciato commenti negativi. Li vedi che si muovono sui carboni ardenti, in una terra a loro ostile di cui però provano a farsi colonizzatori. Per cui il sor Pietro, settantacinquenne di Garbatella che s’è opposto alla trappola fiscale della fatturazione elettronica adducendo sacrosanti motivi di inabilità generazionale alla tecnologia, pure lui adesso mi arriva con una sicumera impensabile a dirmi che sta ai quarti di finale per la meglio carbonara del quadrante sudest di Roma, e che stavolta c’ha una sfida tosta con un bar-tavola calda di Grotta Perfetta, che pare riesca a tenere il guanciale bello scrocchiarello. La sera prima, in vista dello scontro, un cameriere del sor Pietro è andato lì, in avanscoperta, a studiare il nemico, e ne è tornato con la consapevolezza che sì, se la prendiamo sotto gamba, possono farci male. Per cui Pietro, quello che due anni fa, quando gli chiedemmo se poteva darci la password del wifi ci guardò con aria sospettosa per poi dirci che avrebbe chiesto in cucina («Questi qui vorno er uafai, j’oo potemo fa?»), ora arriva a istruirci con l’indice alzato: «Me dovete annà su Instragràm, alla pagina de last duèl of carbonara e tippà pe noi». Ed è così entusiastico, il suo slancio social, che ci lascia quasi sbigottiti. Al che lui subito, con fare pedagogico:

«Ce l’avete Instragràm, no? Se volete ve faccio vede io come se fa».

Ma è un peccato che gli perdono facilmente, questo, al sor Pietro. (Ché poi: sor Pietro. Ma chi l’ha mai chiamato, sor Pietro, a parte quegli invasati delle classifiche di cui sopra?) Io da Pietro ci vado infatti molto spesso, sta a due passi da casa ed è senza dubbio la mia trattoria di riferimento. Dignitosa senza essere pacchiana, modesta senza essere sbracata. Poche pretese, pochi fronzoli: Pietro va dritto al punto, non rinunciando però a quella bonomia romana, a quell’eloquenza un poco caciarona che non scade mai nel triviale. E a me, da onesto esponente della classe media riflessiva e progressista, diciamo pure di sinistra riformista, questo compromesso tra convivialità e competenza, questa popolaresca efficienza, questa operosità non smaccatamente arrivista piace. A me, Pietro, mi conforta. A me, e lo dico senza timore di essere smentito, Pietro mi è amico.

O, almeno, mi confortava e mi era amico fino a che non c’ho portato la mia fidanzata. Che come me è una onesta rappresentante di una sinistra matura, non massimalista, una sinistra che ha fatto i conti col proprio passato, ma a differenza mia è refrattaria ad accettare gli accomodamenti del quieto vivere. È stata lei la prima a farmi notare l’enorme rimosso di cui ero vittima, la colossale ingiustizia che si consumava sotto i miei occhi tutti i venerdì sera, senza che io le riservassi la minima attenzione, senza che io mi indignassi. Né la mia risposta, quel «Così fan tutti» gettato lì per provare a stiepidire la sua rabbia, ha funzionato, ché anzi l’ha rinvigorita nello sdegno, ha dato nuova forza alla sua invettiva. Voi romani, mi ha detto, e lo ha detto a me che a Roma ci vivo da cinque o sei anni appena, che mai mi sognerei di dirmi romano – voi romani, ha insistito, e ancor più voi che romani non lo siete, mi ha detto come m’avesse letto nel pensiero, voi che romani non lo siete e forse proprio per questo vi sforzate di acquisire i modi e le abitudini dei romani, per farvi ben volere, nell’ansia di essere integrati, di non essere esclusi dal consorzio civile degli attovagliati, ecco voi romani a furia di fare classifiche, non vedete che qui la tragedia è che nessuno dei vostri adorati o vituperati osti, nessuno di loro fa mai un accidente di scontrino. E insomma per la prima volta dopo cinque o sei anni di assidua e soddisfatta frequentazione della trattoria sotto casa mia, dopo cinque o sei anni di flebile certezza che fossi nel giusto, nel venire qui, ho iniziato a vedere Pietro sotto una luce sinistra, cioè di destra. A pensare, cioè, che questo vecchietto arzillo e indolente al tempo stesso, sempre spiritoso e con la battuta pronta, questo padre di famiglia, che grazie al sudore della sua fronte ha saputo garantire un avvenire sicuro ai suoi figli e ai suoi nipoti, che anche grazie a lui hanno una casa accogliente da centoventi/centotrenta metri quadrati con doppia esposizione e riscaldamento a pavimento in palazzo signorile inserito in un contesto amabile, un’istruzione di un certo tipo, e sempre grazie a lui vanno a danza o in piscina o a calcetto due volte a settimana, e vacanze d’estate in Sardegna e all’isola d’Elba e di tanto in tanto anche all’estero, com’è giusto, questo eroe silenzioso del lavoro che invece una sola volta s’è concesso, con la moglie, per il venticinquesimo anniversario di matrimonio, una vacanza da sogno alle Seychelles in cui spesero la bellezza di quarantotto milioni di vecchie lire in una settimana, e ancora se li ricorda, insomma questo buon uomo che ormai così bene mi conosce, che sa scrutare nel profondo della mia anima e indovinare da un semplice sguardo il piatto di cui non solo ho voglia, ma di cui ho bisogno quella certa sera, questo rispettoso professionista che sta sul mercato da cinquant’anni e che sa come ingolosirmi, come consolarmi, come corroborarmi nel corpo e nello spirito, che mi spiega le piccole variazioni del menù sulla base della disponibilità delle materie prime, che è talmente specchiato nella sua dedizione al lavoro, nella sua cura del cliente, che arriva perfino a sconsigliarmi certi piatti «che è meglio lasciarli ai turisti», mentre a me riserva solo le primizie, questo ammaliatore consumato che non mi chiede se voglio l’antipasto, ma mi dice come sarà l’antipasto che mi porterà ma tanto per non aspettare troppo, e che non mi domanda se gradisco un secondo, ma viene direttamente a spiegarmi qual è il secondo migliore da associare alla pasta che ho appena finito di mangiare, questo pedagogo della voluttà, che con somma abilità maieutica sa che io lo voglio anche quando non lo voglio assolutamente, quando proprio mai ci penserei a prenderlo, quando sono uscito di casa con quella inamovibile intenzione per cui «però stasera il dolce no», ecco che lui invece riesce a convincermi che sì, che il tiramisù stasera è fresco, sbattuto poco fa, e il tutto senza comunque farmi sentire in colpa né per la dieta né per il portafoglio, ecco questo Pietro in verità è un manigoldo, un evasore incallito. E un egoista che sottrae risorse alla collettività, che mette a repentaglio la tenuta dei conti pubblici, altro che pizzo di stato, che impedisce alla sanità pubblica di compiere gli investimenti che le necessiterebbero per raggiungere degli standard non dico da socialdemocrazia scandinava, ma da paese europeo, un incoerente che smadonna contro il Comune che lascia accumulare la monnezza sulla via del suo ristorante, che su quella via anche stavolta la buca l’ha rattoppata grossolanamente, per cui alla prossima pioggia risalterà fuori ancora più grande, una voragine, e non considera però che è lui, non facendo fattura, che impedisce al Comune di essere efficiente, di raccogliere l’immondizia e di rammendare l’asfalto come si deve, e insomma è un debosciato ex elettore della destra democristiana che ha allevato i suoi figli e i suoi nipoti nella più immonda depravazione morale, li ha educati ai valori della competitività sfrenata, dell’individualismo, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo così tipico di questo neoliberismo dilagante, che quell’attico ai Parioli, quelle vacanze in Costa Smeralda e più sovente all’estero, quell’istruzione di un certo tipo in scuole private e il calcetto e la danza e tutto il resto, glieli ha pagati e glieli paga coi soldi miei, coi soldi nostri, che nostri erano pure quei quarantotto milioni che questo stronzo s’è sputtanato alle Seychelles, mentre il debito pubblico italiano esplodeva. Lui che ancora ti irretisce con le sue chiacchiere da falso amico, che ti rimpinza e ti abboffa solo per far salire un conto che poi ti scarabocchierà su un pezzo di carta, con un’addizione in colonna scritta con biro e mano malferma, o che magari ti dirà a voce, mentre il tuo fegato soffre e il tuo colesterolo s’impenna, costringendoti ad analisi e controlli che contribuiranno all’ingolfamento di un apparato di sanità pubblica di cui lui se ne fotte perché non lo finanzia, e anzi se ne va alle cliniche private.

Così ci siamo detti, la settimana scorsa con la mia fidanzata, mentre aspettavamo che arrivassero i primi. Poi però anche lei ha dovuto convenire con me che sì, va bene, l’evasione fiscale, il conto cifrato alle Cayman, la villetta abusiva a Villasimius. Però c’è poco da fa’: quella che fa Pietro è la meglio carbonara di Roma.

Valerio Valentini (L’Aquila, 1991) è un giornalista del Foglio che si occupa perlopiù di politica. Ha pubblicato “Gli 80 di Camporammaglia” (Laterza, Premio Campiello Opera Prima nel 2018), “Però l’estate non è tutto” (La Nave di Teseo, 2021) e “Al cuore dell’Italia”, scritto con Giulia Pompili (Mondadori, 2022).