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Dall’odissea a Grindr, sul filo di estasi e terrore

Daniel Mendelsohn è una specie rara, scrittore e critico che sa trattare l’alto e il basso maneggiando benissimo la sprezzatura. L’algoritmo che gli ripropone Joan Collins, la passione per Visconti e Sorrentino, i film preferiti e le stroncature con il suo amico della tv. Conversazione sul «vero romanzo» mai scritto, sui gay e su tutto quel che è sopravvalutato

Daniel Mendelsohn è insieme gay, ebreo e ucraino, e raggiungendolo io alle sette della sera dopo una giornata di interviste in cui l’avranno, immagino, spremuto a dovere e interrogato su qualunque cosa su questi suoi tre stati dell’essere in rapporto al mondo d’oggi (e al messaggio che uno scrittore manda, perché uno scrittore senza un messaggio è nulla), scelgo di graziarlo e di parlare solo di cinema. Siamo del resto al museo Maxxi di Roma dove si esibirà in un talk con Antonio Monda nell’ambito delle “Conversazioni”, format di chiacchiere sul cinema tra l’Italia e l’America. Mendelsohn è abbastanza una specie rara, scrittore ma soprattutto critico che riesce a trattare l’alto e il basso maneggiando benissimo la famosa sprezzatura. Dice di non aver mai avuto passione per la cultura pop, ma che è stata questa a scovare lui. «Da giovane ero pazzo dei Rem e del loro cantante Michael Stipe». Gli assomiglia. «Dice così solo perché sono pelato anch’io». Ma no, gli occhi, il naso (anche se i lineamenti di Mendelsohn sono più aguzzi e come più protesi in avanti, come se l’intelligenza dello sguardo onnivoro lo avesse reso aerodinamico). In questo suo nuovo lavoro tradotto da Einaudi, Estasi e terrore, dai greci a Mad Men, mette tutto il suo acume aerodinamico a spaccare il capello in quattro tra epica classica e tv in una serie di saggi apparsi sul New Yorker e sulla New York Review of Books (di cui è editor at large). Insegna pure al prestigioso Bard College e ha appena finito una traduzione dell’Odissea, ma preferiamo partire proprio dalla saga dei pubblicitari.

La stronca. Ci siamo rimasti male. Perché? «Non è che la stronco, dico solo che secondo me era sopravvalutata. Mad Men arriva negli anni duemiladieci, una specie di epoca d’oro delle serie tv… I Soprano, The Wire, alcune erano molto buone, altre meno, ma tutto ci sembrava fantastico. Ricordo che quando uscirono i primi episodi me li mandarono, in dvd! Bob Silvers, il capo del New Yorker, mi dice: c’è un programma di cui tutti parlano, e allora mi metto lì con uno dei miei più cari amici che è un televisivo di gran successo, si chiama Richard Kramer, ha creato Queer as Folk e Tales of The City, ha fatto un sacco di soldi. Guardiamo e diciamo: questo show non va da nessuna parte…». Eh, capisco lei ma il suo amico che è pure del settore! «Che le devo dire. Era la prima volta che una serie tv veniva considerata un prodotto culturale». Già. Anche noi guardavamo Dynasty tanti anni prima, ma non era percepito come culturalmente rilevante «Ah, Dynasty», fa Mendelsohn, «con Joan Collins nei panni della perfida Alexis. Che personaggio. Racconta sempre nelle interviste che Liz Taylor le rubò la parte per Cleopatra. E poi le lotte con l’altra protagonista, Kristle». La segue su Instagram? «No ma l’algoritmo mi spara in continuazione robe sue. Dice sempre che deve fare una serie sul suo rapporto con la sorella Jackie Collins. Con tutte le chirurgie plastiche potrebbe fare entrambe, a tutte le età della vita».

Alto e basso, appunto, tra i film del cuore Mendelsohn mette Luci della città e Tokyo Story, ma ama allo stesso modo il trash di «certi terribili film natalizi americani come The Bishop’s Wife». Tornando a Mad Men, scrive che alla fine prevale il design sul dramma, come un tempo Arbasino sibilava che in Visconti «la passamaneria ha la meglio sulla poesia». Visconti le piace? «Oh sì, col Covid ho fatto un rewatch nella mia casa di campagna. Come tutti cercavo cose da fare, e allora decido di rileggere tutto Thomas Mann, scoprendo che non avevo mai letto Giuseppe e i suoi fratelli». Una noia mortale. «No, per niente. Così tramite Mann sono arrivato a Morte a Venezia e poi mi sono imbattuto in Gruppo di famiglia in un interno». Sa che era basato sulla vita di Mario Praz, che a un certo punto si ritrova al piano di sopra Mario Schifano e la sua corte? «Ah, no, non sapevo. Praz però è un autore che ho studiato all’università, un maestro per capire il neoclassico e un poligrafo considerato marginale, mi piace molto questo tipo di personaggi. Certo avere dei vicini come Schifano nella realtà o come Helmut Berger e Silvana Mangano, poteva andare peggio».

Cinema italiano d’oggi? «Mi piace molto Paolo Sorrentino. E di lui anche se tutti amano La grande bellezza io preferisco Youth. Mi affascinano molto queste storie di mondi che finiscono». Ha mai scritto per la tv? «No, non saprei da dove cominciare. Sono due lavori così diversi scrivere e scrivere sceneggiature. Mio fratello è sceneggiatore e regista, e il mio amico televisionaro che è pure un uomo di lettere non so come faccia… Ti opzionano il libro, e ti chiedono: vuoi partecipare alla sceneggiatura? Giammai. Tanto non sarà mai la stessa cosa del libro. Alcuni però lo fanno e guadagnano un sacco di soldi», sospira. Altri soccombono. «Oh sì, pensiamo al povero Francis Scott Fitzgerald. Ma sono due mondi diversi». Come critica e fiction, che lei però maneggia magistralmente mixando i generi. Gli scomparsi, il memoriale narrativo sulla sua famiglia sterminata nell’Olocausto, ha avuto gran successo. «Sì, però tutti mi chiedono sempre: quando scrivi finalmente un vero romanzo? Una cosa che mi fa veramente incazzare. Perché solo il romanzo è considerato vera letteratura. I saggi no. Però ai romanzieri non chiedono mai con la stessa apprensione: quand’è che scrivi un saggio?».

Mendelsohn è vagamente arbasiniano, chissà se avrà mai letto il nostro animale guida di Voghera. Ecco una descrizione di Vilnius, la capitale lituana dove si è recato per fare ricerche per il suo Scomparsi.

«Un’esuberante città controriformista a tinte pastello, le cui chiese lustre e luccicanti come gusci d’uovo hanno i colori dei macaron di Ladurée». O come quando stronca un piccolo classico di questi anni, Una vita come tante, romanzone Sellerio della scrittrice hawaiana-losangelina Hanya Yanagihara, presente su ogni comodino milanese gay o riflessivo. «Già intitolarlo Una vita come tante, o nell’originale A little life, fa un po’ ridere perché ai protagonisti, soprattutto al povero omosessuale Jude, accade di tutto, violentato da piccolo all’asilo, violentato da grande, poi, seppur zoppo e senza gambe, costretto a prostituirsi, poi si suicida, e non spoilero niente perché il lettore lo capisce che finirà malissimo nelle prime cinquanta pagine. Jude dovrebbe chiamarsi piuttosto Giobbe, per quante gliene fa passare la sua creatrice». C’è quasi un gusto punitivo, dice Mendelsohn. «Eppure è stato accolto trionfalmente dalla critica, sarebbe stato lo stesso se l’avesse scritto un maschio bianco etero?». Però mica è facile raccontare le storie gay, anche nei libri italiani coi personaggi gay c’è sempre o il bisex con la terrazza che canta ’O sole mio oppure quello sieropositivo dolente. Un romanzo con dei gay contemporanei e inurbati che stanno su Grindr non c’è. «Già, il Great Grindr Novel ancora non è stato fatto».

Ma del resto le narrazioni gay sono sempre un po’ fantasy. In un saggio Mendelsohn analizza anche un classico come I segreti di Brokeback Mountain, il film di Ang Lee del 2005 che, oltre alla pioggia di Oscar ricevuta, venne dipinto dalla critica come un film in cui era del tutto secondario che i due protagonisti fossero gay. «Non ce l’ho col film in sé ma con la sua ricezione. Tutti facevano a gara a dire che non era un film gay bensì un film che parlava al cuore dell’America, dove l’ostacolo ai due amanti infelici avrebbe benissimo potuto essere la famiglia, il contesto sociale, la politica. Invece no, era proprio gay gay, uno dei due odia se stesso per il fatto di essere gay, è una storia gay fin nel midollo, ma tutti facevano finta che non lo fosse, e sono stati bravissimi. Anche la trovata dei cowboy fu geniale. Se fossero stati due arredatori di New York non credo che il film avrebbe avuto lo stesso successo».

E Estranei, l’ultimo film di Andrew Haigh, le è piaciuto? «Ah, quello. Ci sto scrivendo il “big gay piece” sulla New York Review of Books. Lo chiamiamo così. Non lo so, c’è qualcosa di strano in quel film. Anche lì, è piaciuto proprio a tutti, io ero in minoranza, l’ho visto col mio amico…». Mi lasci indovinare, il televisivo. «Sì. Anche lui ha dovuto mentire dicendo che gli era piaciuto, sa, abita a West Hollywood». Capisco, io l’ho visto a NoLo che è la West Hollywood de noantri, e ho dovuto mentire anch’io dicendo che mi era piaciuto. «Non so cos’è, altri film di Haigh mi sono piaciuti molto, The Weekend e ancor più 45 anni. Ma questo… non riesco a capire. Forse è la storia che è improbabile, il gay depresso rinchiuso nel palazzone deserto nella periferia di Londra… perché è deserto? Che è successo? E un giorno ti bussano, e invece che una beghina noiosa è l’attore più bono del pianeta, Paul Mescal, e quello lo rifiuta pure! Eddai! E il finale! Che imbarazzo. Ma poi non si capisce, sono tutti fantasmi? Anche lui era un fantasma? Non so. Comunque è piaciuto moltissimo perché ci sono sempre dei gay molto soli e che soffrono molto, e alla fine vengono puniti. Questo funziona sempre».

«Alla fine sa cosa mi ha colpito di più? Quella serie svedese, The Young Royals». Ma no, dai, quella sui giovani principi. Un po’ trash. «Ma no! Bellissima».

Allora, ribatto io, se vogliamo rimanere nel genere, anche quella americana sul figlio di un’immaginaria presidente che si innamora di un immaginario erede al trono inglese non è mica male. «Ma certo, Rosso, bianco & sangue blu. L’ho vista sei volte! E ho incontrato il regista Matthew Lopez e gli ho fatto pure una scena ridicola da fan! Comunque sono emotivamente entrambe più toccanti di Estranei, di certo più moderne, perché almeno parlano di una questione interessante, e vera, cioè di come anche per omosessuali estremamente privilegiati fare coming out sia comunque traumatico. È interessante come il coming out non dipenda dalle classi sociali ma anzi le attraversi. Non è che tra ricchi è più facile, non è scontato come uno penserebbe». Nell’edizione italiana e americana del suo saggio in copertina c’è l’Estasi di Santa Teresa di Bernini, in quella famosa espressione tra dolore e piacere. Nessuna relazione con le Preghiere Esaudite di Truman Capote? Con la famosa citazione «si piangono più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte…». «Direi di no. Capote non è mai stato nel mio pantheon. Sì, ha scritto cose buone, forse la migliore è A sangue freddo, ma perché aveva un buon editor. Colazione da Tiffany è invece molto sopravvalutato. A Capote è successo che il personaggio è diventato più importante dell’opera, come nel caso di Oscar Wilde, che però era molto più bravo». Ha visto la serie Feud? «Sì. Il “cigno” Babe Paley, impersonata da Naomi Watts, è piuttosto toccante, il resto mah. Ma tornando a Capote, meglio dei romanzi sono i suoi reportage, come quelli che faceva per il New Yorker: uno su tutti quello su Marlon Brando. Ma tutti vogliono essere celebrati per qualcosa d’altro di quello che sono».

Michele Masneri (Brescia, 1974), scrittore e giornalista del Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui” (Adelphi, 2020) e “Stile Alberto” (Quodlibet, 2021).