Caro Emanuele, scrivere non medica alcun dolore
di Lisa Ginzburg
Caro Emanuele,
scriverti una lettera è come dare forma di sintesi a conversazioni interiori che ho intrattenuto con te nel corso di questi anni. Eravamo a casa di Rocco Carbone, all’inizio della via Flaminia, quando ti vidi la prima volta, a Roma. Giovanissimi adulti alle prese con prime vere complicazioni dell’esistenza, così ci rivedo nel ricordo. Senza che tu lo sappia, da allora più volte mi è accaduto di parlare con te dentro di me. Ci sono persone che per motivi più e meno misteriosi diventano destinatarie di nostri dialoghi interiori, nostri interlocutori privilegiati senza che loro ne siano a conoscenza. Persone alle quali nel silenzio ci rivolgiamo, facciamo confidenze, con cui ci confrontiamo, in un dialogo non mutuo, muto piuttosto, ma lo stesso molto importante.
Per questo mi decido a scriverti: perché sei per me un vero interlocutore, e te lo dico senza nessun vezzo, e scrivertelo è più facile ma anche più denso del comunicartelo a voce. Perché solo scrivere è dire davvero, attraverso le parole conformare la realtà, dare un qualche assetto alle cose, sottrarle alla loro intrinseca inconsistenza, incunearle e scolpirle nella materia del tempo. Sia che la scrittura decripti, sia che ammanti di maggiore mistero e segreto, è grazie alla lingua e al suo uso che più possediamo la vita, se mai possedere qualcosa è possibile.
Ho voglia di parlare di questo con te, della portata delle parole e di quella della loro assenza; del loro peso in questo tempo caotico e sempre più frettoloso, in cui il silenzio è spesso il maggior conforto ma anche la dimensione più difficile da raggiungere. Fedeltà al rigore e alla sobrietà delle parole, nonostante la logorrea oratoria e la sovraesposizione di sé cui chi con le parole lavora sembra giocoforza costretto, per esistere, avere dei lettori, ottenere riconoscimento e successo.
I motivi della nostra sintonia mi sono evidenti, ma lo stesso provo a formularli (convinta, di nuovo, che nominare è scavare, è fare spazio, cioè approfondirlo ma anche sgombrarlo). Quella che penso come nostra silenziosa affinità si riassume in due temi, ai miei occhi. Il primo ha a che fare con i tuoi ultimi libri, Sogni e favole e Due vite. Entrambi sono dialoghi con persone morte. Parli con dei morti, e non solo ripercorri con grande finezza e acume le loro esistenze; anche, con loro ti confronti, con loro dialoghi, in quel corpo a corpo che è la tua scrittura, ma dove i corpi dei tuoi interlocutori mancano e non esistono più, perché hanno smesso di vivere. Conosco la sincope di questo tipo di dialogare, un ripercorrere fili di esistenze interrotte, finite; scrivere conducendo un’indagine attorno a quel mistero che ogni vita è, e quella di chi più abbiamo amato o che più ci ha interessato, interpellato, intrigato, è di più ancora. Il mio romanzo Per amore affrontava un percorso del genere. Ogni vita e ogni morte sono un grande mistero, la cui eco e il cui enigma possono abitarci anche per sempre. Per questo i tuoi libri ultimi risuonano in me, così come in tanti tuoi lettori.
Si aggiunge il fatto che ho conosciuto bene alcune delle persone di cui parli; certi tuoi morti sono anche i miei. Sono stata sferzata da lutti, improvvisi e violenti, o invece annunciati, ma lo stesso molto aspri e di difficile rielaborazione. Non credo in nessun modo nel valore terapeutico della scrittura, so in prima persona quanto scrivere non medichi alcun dolore; ma so quale grande passo significhi per il nostro mestiere dare parola a quell’eco che esistenze per noi decisive hanno impresso nelle nostre orecchie, nei nostri ricordi, nella nostra percezione del mondo, quel mondo che indifferente continua il suo teatro dopo che quelle vite non ci sono più. Un’eco silenziosa e che tuttavia, in una trasposizione miracolosa e demiurgica, trova parole.
Ho conosciuto e ho voluto bene a certi dei tuoi “personaggi” (tuoi interlocutori), Pia Pera, Rocco Carbone, Cesare Garboli, Arturo Patten. Di Arturo soltanto voglio dirti qualcosa, tra poco; ma la vera questione è cosa sia parlare dei morti, con i morti. Quale traccia di silenzio si propaga. Chi lo fa da scrittore, porta su di sé un carico, e al tempo stesso proietta attorno a sé un’aura particolare, qualcosa che mescola profondità e leggerezza, intensità e invece una superficialità prossima all’indifferenza. Profondità, perché ogni ascolto di voci perdute comporta uno sforzo immenso, sfibrante; superficialità prossima all’indifferenza, perché dopo quelle “discese” tanto impegnative, il mondo attorno succede di guardarlo con minore interesse o con una curiosità svogliata, tesa soltanto a carpire vitalità che confortino, ridiano energia ma senza chiedere in cambio particolare coinvolgimento. “Wer das Tiefste gedacht, liebt das Lebendigste” recita un meraviglioso verso di Hölderlin: “Chi pensa il più profondo, ama il più vivo” nella traduzione di Giorgio Vigolo, “Chi ha pensato le cose più profonde, ama ciò che è più vivo” in quella del rimpianto Luigi Reitani: in ciascuna delle due versioni, il concetto è lo stesso, un osmotico compenetrarsi di morte e vita, un omaggio alla linfa fresca e rigenerante eppure mai davvero nostra che le cose pulsanti regalano dopo che ci si è addentrati in scavi tanto impegnativi per la psiche.
La mia vita e la mia scrittura si sono nutrite – continuano a farlo – di dialoghi con i miei morti, conversazioni e ripercorrimenti simili a quelli che tu “metti in scena” nei tuoi ultimi libri. Questo mi fa sentire la tua voce vicina, intima. Ne sento il risuonare, la traccia silente, che è quella che mi interessa di più. Così si riassume il primo motivo per cui mi viene da scrivere questa lettera a te. Il secondo ha a che fare con altro, con l’opposto in un certo senso, qualcosa che anziché volgersi al passato, dovrebbe quantomeno in teoria proiettarsi nel futuro, e cioè l’identità di figli. Penso che in modi diversi entrambi abbiamo “risolto” la nostra identità di figli misurandoci con la necessità psicologica di non esserlo: cercando la nostra autoaffermazione seguendo strade di indipendenza, ma senza nascondere a noi stessi l’entità, l’importanza e anche l’ingombro delle figure dei nostri padri (il tuo non c’è più, il mio c’è ancora, ma la questione credo sia la stessa). Anche questo è un motivo di vicinanza, un’altra convergenza ideale che ti fa interlocutore interiore e destinatario di certi miei ragionamenti.
Dicevo di Arturo Patten – e qui finalmente, dopo molti preamboli, mi avvicino alla domanda che mi ha ispirato questa lettera. Arturo l’ho conosciuto quando stavo per compiere trent’anni e mi apprestavo a rivoluzionare la mia vita (promessa sposa ho fatto naufragare il matrimonio, contemporaneamente abbandonando la filosofia e la strada accademica in nome dell’ambizione, nonostante i molti ingombri, di diventare scrittrice). Arturo mi ha insegnato cose decisive. Che l’amore, nella durata, è una questione di attenzione, di concentrazione, di valori. Che si può smettere di amare qualcuno, ma non si può smettere di amare un luogo. Che con i luoghi si può litigare altrettanto che con le persone: il suo paese di origine, gli Stati Uniti, Arturo anche li odiava, e certi suoi scatti e ritratti del Maine lo raccontano in modo eccelso. Ma conosceva le ambivalenze di ogni appartenenza, sapeva bene che di amore e odio si compone ogni stare, che di ossimori è fatto l’allontanarsi da un posto o invece il tornarci. Io ritorno a vivere a Roma dopo dodici anni passati in Francia, e nei vicoli del centro storico dove un po’ spersa cammino ricordando tanto mio passato, penso a lui, ad Arturo. Il suo modo sanguigno di gestire i conflitti con i luoghi (anche con Roma) mi rinfranca, mossa come sono da un tentativo imperioso di risolvere i miei, fare i conti, venire a patti. Riambientarmi, reinsediarmi: imparando che tornare è umiltà di reimmettersi in una sequenza che ha fatto a meno di noi, è dare spazio al tempo accettando il suo scorrere. E’ il senso di smarrimento che procura ritrovare paesaggi e persone diversissimi da come li si ricordava. Coraggio di dribblare la malinconia e assumere il Tempo e le sue metamorfosi, le implacabili leggi che governano il divenire, ogni divenire.
E tornare è silenzio. Molta osservazione, molto ascolto e silenzio. So che lo capisci, che mi puoi capire. Così, se anche ho molto divagato, ecco finalmente Emanuele vengo alla domanda che intendevo rivolgerti quando l’altra sera ho pensato di scriverti. Di quanto silenzio abbiamo bisogno? Di quanto silenzio sono in cerca le nostre parole, e le storie che ci prefiggiamo di scrivere, e le altre che ancora scriveremo?
Mi sembra che il silenzio manchi moltissimo. Che pochi sappiano ancora crearlo, cercarlo, stabilirlo, mantenerlo, lasciarsene guidare. Quel silenzio che è ascolto, di sé, dei pensieri, delle fantasie; degli altri, del mondo; del Tempo e delle leggi feroci del suo divenire. Mi sembra che le sole relazioni significative, non soltanto con gli altri, anche ciascuno con le pro- prie parole, con la propria scrittura, sono quelle dove vige un’implicita regola di silenzio, l’equilibrio di lunghe pause di vuoto.
Una volta di più, tutto è questione di attesa e pazienza – un po’ come per me che torno a stare in Italia dopo tanto tempo, e devo ricalibrarmi e raccapezzarmi. La musica crea silenzio perché se ne nutre. E così fa la pittura. Arti che agiscono in territori dove espressione e sua pausa si intrecciano e si avvicendano, senza sosta. La scrittura ha smarrito questa cruciale alternanza, e chi è scrittore è di continuo sollecitato a parlare, più si è invitati e si viaggia e si interviene e ci si pronuncia, meglio sembra sia. Ma il bisogno di silenzio è grande. Perché di quanto silenzio sono figlie, le parole? e le storie, i romanzi, i racconti, i versi e i poemi, le cronache e i memoirs e i reportages, tutte le pagine e le scritture, di quanto silenzio, di quanto del suo nutrimento hanno fame? Questa domanda mi frulla in testa da tempo e a te mi viene di farla, a te la affido.
Ti abbraccio Emanuele, e ti aspetto, Lisa
Cara Lisa, nella vita io vado avanti tornando indietro
di Emanuele Trevi
Mia cara Lisa,
grazie! In questo mondo così solipsistico, in cui ognuno di noi sembra impegnato a brevettare la formula dell’acqua calda all’insaputa degli altri, come se nessuno ci avesse mai pensato… la sensazione di condividere, di vedere la stessa cosa, è addirittura, lo dico senza esagerare, inebriante. Ci saremo anche scelti quello che passa per un lavoro gratificante, ma come sai bene il rovescio della medaglia è la sensazione, improvvisa e sempre più frequente, dell’isolamento dentro la propria testa, che è tutto il contrario dello stato di felice solitudine che possiamo scegliere quando ne abbiamo bisogno. Ogni luna ha il suo dark side. E dunque leggerti, nel cuore di una notte buia e piovosa di novembre, è stata una grande felicità, di quelle dirette, intense, e capaci di durare nel tempo: un bel regalo insomma. E’ vero quello che mi ricordi, noi siamo vecchi amici, abbiamo storie simili e per certi aspetti sovrapponibili, e ci siamo sempre letti a vicenda con la sensazione di un’affinità, che riguarda anche la dimensione puramente artigianale della scrittura. Che poi è un certo grado di pazienza da raggiungere, o di ostinazione necessaria a girare e rigirare le frasi, un giorno dopo l’altro, fino a che danno il suono giusto. Ma che cos’è questo “suono giusto”? Secondo me non ha nulla a che vedere con lo “scrivere bene”. Con un minimo di applicazione, qualsiasi imbecille è capace di scrivere bene, assemblando parole e rispettando regole di grammatica tutto sommato elementari. Tutto in fondo è scritto abbastanza bene: le leggi, le ricette, le lettere ai direttori dei giornali che qualcuno, sembra incredibile, si ostina ancora a scrivere. Ti dirò di più: di tanti veri e propri libri di merda, totalmente inutili a chi li scrive e al prossimo, quando non nocivi, si può dire che sono “scritti bene”. Questo dello stile, della parola esatta, della “musica verbale” è un grande e pernicioso equivoco, che lega troppo l’invenzione letteraria alla lingua puramente scritta, al suo gioco combinatorio che è sempre inerte dal punto di vista estetico, e dunque incapace di creare emozioni profonde e rivelatrici. Il bello è che, pur accumulando esperienza e imparando qualcosa dai propri errori, tutti noi ricadiamo periodicamente nell’equivoco. Basta che siamo poco convinti, insicuri, o che dobbiamo scrivere qualcosa che non ci convince, solo perché abbiamo preso incautamente un impegno… ed ecco che non riusciamo a fare altro che mettere giù delle parole mute, incapaci di vibrazioni: un semplice codice da decifrare, in fondo equivalente ai segni dell’algebra o ai cartelli stradali. Possiamo avere la storia più bella e significativa da raccontare, ma non prende vita. Quanti libri cominciamo a leggere, per lasciarli subito da parte? E’ questa lingua scritta morta che ci respinge, il suo inutile e un po’ grottesco decoro, la sua intrinseca inca- pacità di creare un ponte, il fantasma di un ponte, tra chi scrive e chi legge. Questa forza raggelante è sempre all’opera, sempre in agguato. Non c’è ispirazione che tenga: il suo soffio letale si infila tra una parola e l’altra, e ci capita di distogliere l’attenzione da quello che stavamo scrivendo con la stessa insoddisfazione inesorabile che ci fa chiudere per sempre un libro scritto da altri. Dunque io credo che la scrittura ha bisogno di nutrirsi di qualcosa che non si trova al suo interno, qualcosa di estraneo alle sue leggi, e il nostro sforzo più decisivo è quello di tenere sempre aperto, sempre disponibile, il pozzo da cui ricaviamo questo nutrimento. E se devo definire la materia preziosa che tiriamo su dal pozzo, non c’è una parola più esatta di VOCE. A prima vista, il polo opposto della scrittura; ma appena andiamo un po’ a smontare il giocattolo, la sua linfa, la condizione assoluta della sua bellezza. “La voce umana è un miracolo”, dice un personaggio di Thomas Pynchon, e basterebbero queste sei parole, meditate a lungo, per tenere stretto il bandolo più sicuro di tutta l’intricata matassa. Potremmo definire la letteratura, nel suo sviluppo secolare, come un prodigioso, labirintico, polimorfo dispositivo di imitazione di quel miracolo che è la voce umana. Molto meno utile è pensare che la letteratura sia un’imitazione del mondo, come facciamo quando parliamo di “romanzo familiare”, o “erotico” o “ambientalista” eccetera eccetera. Non perché nei romanzi, o se è per questo nelle poesie, non appaiano alcuni aspetti del mondo, certo che accade. Ma gli argomenti, tutti gli argomenti, sono informazioni, più o meno elaborate. La letteratura può parlare della violenza domestica o della catastrofe climatica come possono farlo il giornalismo, la giurisprudenza, la medicina. In generale poi, è molto scarso il contributo effettivo dei romanzieri e dei poeti al sapere umano, le eccezioni si contano sulla punta delle dita, e se ho sempre aborrito la vecchia nozione di “impegno” e i suoi succedanei non è per qualunquismo, ma perché nella letteratura come la intendiamo noi moderni è quasi del tutto sparito l’universale, l’oggettivo, il condiviso. Non sta lì il suo centro. Le informazioni, le circostanze, i giudizi di valore non producono esperienza, non ci collocano nel tempo, sono prigionieri dei limiti dell’utile. E allora cosa facciamo, cosa giustifica un tale dispendio di energie? Io credo fermamente che noi cerchiamo, più o meno consapevolmente, di riprodurre un’emozione primaria, radicata nell’infanzia. Quella situazione, probabilmente, in cui un bambino ascolta una storia. E’ un fatto che conosci alla perfezione da entrambi i lati, perché sei stata una bambina, e sei una mamma. “Grazie alle storie i bambini capiscono che il mistero non li ucciderà”, ha scritto Bernard Malamud, “grazie alle storie capiscono di avere un futuro”: meglio non si poteva esprimere il concetto. Ma non possiamo equivocare su un punto: i bambini capiscono che non moriranno, che resisteranno alla notte, non perché le favole finiscono bene, o perché il loro simbolismo abbia dei poteri taumaturgici, come credono ingenuamente molti antropologi e psicologi, ma perché una voce li accudisce, li guida fino alla porta del sonno. E’ un’esperienza fisica, non un gioco mentale. La voce, per come la intendo, è una materia simile al latte, alle coccole, al tepore delle coperte. Quando un adulto prende un libro e lo legge a un bambino, fa un vero prodigio: scongela, crea una fonte disponibile di calore e sicurezza. Fa sì che il pensiero, che sempre tende alla fissità e alla coazione, si distolga dal terrore dell’annientamento. Ebbene, senza paura di esagerare io credo che il filo d’oro nascosto in tutte le possibilità, tutti gli stili, tutti i mondi infiniti della letteratura sia l’esigenza, quasi sempre inconscia, di ripristinare il patto che il bambino stringe con la voce di un adulto che lo protegge dalla notte. E quando mi chiedi dov’è finito il silenzio nella nostra arte, salto letteralmente sulla sedia… perché hai colpito proprio il centro del bersaglio, il cuore di tutti i problemi!!! Se evoco una voce nel buio, infatti, non posso che evocare il silenzio, perché l’efficacia della voce è direttamente proporzionale alla sua capacità di creare intorno a lei una specie di alone di silenzio, così come l’opacità di un corpo solido crea un’ombra che lo accompagna. Situazione epica per eccellenza: tacciono i Feaci appena Ulisse inizia a raccontare le sue traversie; tace Didone, assieme alla sua corte, quando tocca ad Enea. E se il silenzio dell’ascolto epico è troppo passivo, quasi meccanico, i grandi moderni, partendo dalla stessa situazione, lo hanno dinamizzato e reso vivo come puoi ammirare nella Sonata a Kreutzer di Tolstoj e soprattutto nei libri di Conrad impostati sulla voce di Marlow, come Lord Jim e Cuore di tenebra. Leggendoti ho subito pensato che in effetti il silenzio è stata la condizione stessa delle esperienze più antiche e decisive che hanno impresso al mio lavoro una direzione che è rimasta la stessa fino a oggi, tra tanti passi falsi e smarrimenti. Personalmente, devo confessarti, non ho nessuna memoria dei miei genitori che mi leggono delle favole: forse l’avranno fatto senza molta convinzione, forse non era il loro forte. Ma uno strumento meccanico, il celebre mangiadischi, e le Fiabe sonore replicarono all’infinito il miracolo per tantissimi bambini della nostra generazione. Non vorrei sembrarti cinico, ma per molti aspetti la performance di quella macchina era superiore a quella di qualunque adulto in carne ed ossa. Il mangiadischi non si stancava mai, soprattutto non aveva sbalzi imprevedibili di umore, non era mai arrabbiato con te, e potevi ascoltare decine di volte, magari per un intero pomeriggio, La bella addormentata nel bosco o Il gatto con gli stivali. Bastava spingere di nuovo il disco nella fessura. Come fossimo tutti usciti da un romanzo di fantascienza, siamo stati i primi bambini della storia umana ad essere accuditi efficacemente da uno strumento meccanico, e questo strumento non poteva che essere un riproduttore della voce umana. Ma questa in fondo è semplice sociologia, perché l’opera della voce, il suo riflesso psicologico profondo, la qualità del silenzio che produce, sono fatti fuori dal tempo, che si ripetono identici nei secoli, e poca importanza hanno i suoi veicoli. La seconda esperienza decisiva risale a una fase successiva, verso i dodici anni, insomma alla scuola media. Avevo una professoressa che il sabato, invece di fare lezione o interrogare, tirava fuori un libro dalla borsa e ce lo leggeva. Era un libro dell’Einaudi (questo lo avrei saputo molto tempo dopo), di quelli di piccolo formato rilegati in tela rossa, denudato della sua copertina: una copia del Barone rampante. Ricordo tutto di quel rito, non solo la storia di Cosimo e della sua improvvisa decisione di vivere sugli alberi. La magia della prosa di Calvino non era un’esperienza astratta, ma indissolubilmente connessa all’accento meridionale, per la precisione abruzzese, della professoressa. Non ho mai letto un libro, dopo, parlo ovviamente di un libro letto in condizioni di disinteresse e rapimento, cioè dotato di quello che definiamo “bellezza”, senza immaginare una voce che me lo leggesse, un fantasma di voce che riempie della sua presenza il silenzio propizio della lettura. E’ come se per me l’esperienza della letteratura nel suo complesso fosse sempre stata un laborioso, testardo, forse lievemente maniacale tentativo di restaurare le condizioni in cui ascoltavo le Fiabe sonore o Il barone rampante, quella particolare connessione del silenzio e della voce che ancora oggi mi fanno credere che il mistero, per dirla con Malamud, anche se finirà per uccidermi, non lo farà proprio adesso, c’è ancora un po’ di tempo. Ed è inutile aggiungere che questa imitazione della voce non ha nulla a che fare con uno stile particolare, o ancora peggio con un’imitazione diretta dell’oralità. Noi produciamo un equivalente, un fiato finto, così come è immaginario il silenzio che lo contiene. Non c’è nulla di più brutto di un discorso orale sbobinato, non è assolutamente questo il punto, qui si tratta di costruire un’illusione, un fantasma verbale, una rappresentazione di una cosa attraverso l’uso artistico del suo contrario. Tanto è vero che con questo artificio noi, come mi ricordi nella tua lettera, possiamo dare voce ai morti come se fossero vivi, trasformiamo il loro silenzio nel simulacro attivo di una voce. E qui mi fermo, carissima Lisa, perché mi sembra di essere riuscito perlomeno a indicare le cose che mi stanno più a cuore. Quando penso a quello che faccio, ma in generale alla mia vita in questa fase, mi viene sempre l’idea di andare avanti tornando indietro, come nel movimento di una spirale. La tua lettera mi ha dato coraggio, come tutto ciò che arriva al momento giusto, ricordandoci che l’atto stesso di pensare deve sempre equivalere a una distinzione del futile e dell’essenziale. Sono felice che sei tornata a Roma: probabilmente apparteniamo a quella razza di topolini che, a dispetto del proverbio, preferiscono vivere proprio sulle barche che affondano.
Un abbraccio, Emanuele