Nel monologo finale dell’Appartamento spagnolo, il film manifesto della generazione Erasmus, la voce fuoricampo del protagonista parla sopra una carrellata che mostra i volti dei coinquilini di Barcellona (un italiano, un tedesco, una francese, un danese, una spagnola e un’inglese) e dice: «Sono lui, lui e lui, e lei, lei e lei. Sono francese, spagnolo, inglese, danese, non sono uno, ma molteplice. Sono come l’Europa, sono tutto questo. Sono un vero casino». Il film è un po’ sentimentale, l’Europa che dipinge è piccola, ma la commozione resta – resta l’idea bellissima di fare parte di qualcosa che non esiste altrove. L’Europa è un mosaico di ambizioni e contraddizioni. Ogni pezzetto ha la sua storia e la sua individualità, ma insieme diventa qualcos’altro. Le sta bene quella frase di Whitman che è diventata un meme: «Forse mi contraddico? Va bene, e allora mi contraddico (sono vasto, contengo moltitudini)». In ogni caso, pensare all’Europa, anzi all’Unione europea, vuol dire guardare a sud e a est, allargare lo sguardo verso chi difende i valori liberali e democratici. La Georgia con le sue piazze piene di giovani che sventolano le stelle gialle sul campo blu, e l’Ucraina che resiste contro Vladimir Putin, al fronte, ai festival musicali nei bunker e leggendo poesie. Cosa è l’Unione europea? Si può definire questo concetto sfuggente, esiste un popolo europeo? E se sì, in che direzione guarda? Per provare a rispondere, ho guardato nella letteratura, parlando con Katja Petrowskaja e Pajtim Statovci, due scrittori che con i loro percorsi personali raccontano cosa vuol dire essere europeo oggi, ma che poi, nelle loro considerazioni, prendono direzioni inaspettate.
Pajtim Statovci ha trentaquattro anni, è nato in Jugoslavia, più precisamente in Kosovo, da una famiglia di lingua e cultura albanese, ed è cresciuto in Finlandia, dove è arrivato come profugo, in un centro di accoglienza. Ha scritto tre romanzi che, come dice lui, sono aggrovigliati l’uno all’altro, i semi piantati in uno germogliano nel successivo. L’ultimo pubblicato da Sellerio è in realtà il suo esordio, Il mio gatto Jugoslavia. In un universo narrativo in cui convivono animali parlanti, leggende folkloristiche albanesi e gay bar di Helsinki, i suoi personaggi fluttuano attraverso lo spazio e i generi, liberi, inventando se stessi e opponendo una fluida resistenza alla tassidermia del reale. Gli chiedo subito cosa pensa del concetto di identità, tenendo a mente il suo essere queer, certo, ma soprattutto come e in che misura si sente europeo. «Mi chiedono spesso della mia identità nazionale. Ma non è che uno quando va a dormire si interroga sulla propria nazionalità. Non è qualcosa a cui abbia veramente mai pensato. Ma poi me lo hanno chiesto talmente tante volte che ho iniziato a rispondere in base a cosa vuole sentire chi mi trovo davanti. E questa è la premessa delle Transizioni. C’è questa pressione sulla scelta, così il protagonista dice: basta, manipolo tutti e cambio idea. Cambiamo costantemente e dovremmo avere la libertà di sbagliarci e di sbagliare. Niente è scolpito nel granito, figuriamoci l’identità». Nei suoi libri c’è un’idea di movimento, di attraversamento di confini che parla molto d’Europa. Risuona la mobilità della mia generazione e di quella prima (noi equipaggiati di passaporto dell’Ue), come siamo sparpagliati in giro per il continente ma comunque vicini. Il modo in cui ci vediamo, ci incontriamo, come viviamo le città, complici le compagnie aeree low cost. Il suo libro mi ha fatto pensare a Paul B. Preciado, che è spagnolo, scrive e lavora in francese, si ispira al capolavoro di Virginia Woolf e nel suo film Orlando, ma biographie politique racconta il viaggio trans, dicendo che non esiste una destinazione finale. Non è un viaggio per costruire, quanto piuttosto per smantellare, sfuggire all’identificazione. Secondo Statovci il suo libro «suggerisce che possiamo rifiutare l’identificazione. Ma poi i protagonisti tornano in patria e quindi dice allo stesso tempo che siamo in un’epoca in cui ancora non possiamo ignorare da dove veniamo». Secondo lui esiste un’identità europea, un popolo europeo? Fatichiamo a definire un popolo europeo perché il pluralismo è una ricchezza ma anche un ostacolo? Dà una risposta cosmopolita: «L’identità europea è plurale. Possiamo discuterne. Nelle Transizioni è un costrutto, puoi cambiare come ti senti, appartenere se vuoi appartenere, o andartene. Se ti siedi a un tavolo con altri europei non so se arrivi a far chiarezza. Io mi considero uno scrittore europeo che vive in Finlandia con delle origini kosovare. È difficile dire che mi sento europeo. Nella stessa Finlandia si arrovellano: c’è un confine lunghissimo con la Russia, una lingua che non ha niente a che spartire con la maggior parte delle lingue europee. Poi c’è il Kosovo: diciamo che non sono i primi paesi che ti vengono in mente se pensi all’Europa». Continua su questa scissione, che si traduce in un senso di sradicamento: «Non sono a casa in Finlandia, non sono a casa in Kosovo. Mi è stato strappato il lusso di sentirmi a casa. In Kosovo sono un membro della diaspora, la nostra famiglia è scappata dalla guerra. E non sono cento per cento finlandese». Date queste premesse, l’Europa è ancora un sogno? Statovci ha scritto che l’Europa, per gli albanesi, era l’America. Ma ha anche dipinto in pagine struggenti e lucidissime l’arrivo degli albanesi in Italia nei primi anni Novanta: sbarcati senza niente, costretti a indossare i nostri vestiti dismessi, con l’alone sotto le ascelle, mentre la televisione diceva agli italiani che le loro tasse foraggiavano le camicie stirate per gli albanesi. «L’Ue è ancora un sogno per chi viene da est, che non sente di appartenere all’identità europea». Trent’anni dopo la nave Vlora però la solidarietà europea sembra sempre più selettiva, preferisce respingere piuttosto che accogliere, non auspica società multiculturali, in cui convivono fedi diverse, davvero plurali.
Statovci scrive i suoi libri sul Kosovo in finlandese, Katja Petrowskaja è un’ebrea ucraina che scrive in tedesco, «la lingua del nemico». Il suo primo romanzo, Forse Esther, ha vinto il Premio Strega europeo nel 2015 ed è un viaggio alla ricerca della memoria della sua famiglia nel mondo perduto dell’ebraismo dell’Europa centro-orientale. Kyiv e il massacro di Babij Jar, Odessa, l’Unione Sovietica, Varsavia, gli shtetl della campagna polacca, Vienna e poi Berlino, dove vive lei oggi, da venticinque anni. Il suo secondo libro, La foto mi guardava, appena uscito per Adelphi, è una raccolta di testi che ha scritto dal 2014 al 2022 sulla Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung, che nascono dall’incontro di Petrowskaja con fotografie e immagini trovate in album di famiglia, archivi, internet, mostre, scattate da lei con il cellulare. «Mentre scrivevo Forse Esther avevo una rubrica satirica, che amavo. Quindi da una parte stavo scrivendo di roba davvero pesante, e dall’altra c’era questa specie di parco giochi. Poi Putin ha annesso la Crimea. Ed è iniziata la guerra. Una mia amica è andata al fronte, per me è stato scioccante: una persona della mia vita cittadina, che ha a che fare con problemi cittadini, va al fronte. Era folle. Questo libro è una mescolanza di conversazioni di questo genere con le persone, che a volte hanno a che fare con la fotografia, con le immagini». Petrowskaja da due anni non scrive che di guerra, è immersa nella guerra, il libro è la sua testimonianza, la sua resistenza: «Vorrei opporre alla guerra queste miniature, questi piccoli frammenti, alla ricerca di una voce». Infatti la foto che apre la raccolta è quella di un minatore nel Donbas nel 2014, scattata dalla sua amica al fronte e ritrovata per caso al padiglione dell’Ucraina alla Biennale di Venezia. La fotografa le ha raccontato che per inquadrare la foto ha dovuto inginocchiarsi, molto vicina al minatore: dall’incontro con quella foto Petrowskaja ha capito che era arrivato il momento di inginocchiarsi di fronte a queste persone, a questo popolo che resiste.
L’Ucraina difende la sua sovranità, la sua democrazia, noi dobbiamo difendere l’autodeterminazione di un paese, se difendiamo la nostra autodeterminazione. Ma tutti questi stati nazionali sono la somma di tante unità o creano un’identità sovranazionale, che condivide valori, un orizzonte di democrazia, una cultura? Anche a lei chiedo se possiamo parlare di popolo europeo, lei, una scrittrice che viene da un paese in guerra, sul confine dell’Europa, va dritta: «Innanzitutto, dove finisce l’Europa?». Poi continua sul concetto di identità (definirsi è sempre tracciare in qualche modo un confine), dice che toglie umanità all’incontro. «L’identità è un concetto che mi fa soffrire»: la scrittrice ucraina-ebrea-tedesca, che ha cercato le tracce della sua famiglia costretta a scappare o sterminata dai nazisti, si sente stretta nelle definizioni.
«Nel romanzo c’è traccia di cosa ci faccio in Germania, c’è traccia del fatto che sono cresciuta in Unione Sovietica. Si scrive per capire le cose casuali di cui fai esperienza nella vita». E ancora: «L’identità è quello che amiamo e quello che pensiamo. Chiaramente io mi porto dietro un bagaglio sovietico. Ma la domanda è: cosa ne ho fatto di questa identità? E non: a quale contesto mi ha ridotto». Una rivoluzione copernicana: l’identità non è da dove vengo ma dove voglio andare. «È l’orizzonte a cui guardiamo, quello che vogliamo fare. Cosa ci fa ridere, cosa leggiamo, cosa pensiamo». E allora qual è la sua letteratura europea? Petrowskaja cerca di disseminare tracce nei suoi libri, senza nasconderle, senza ostentarle. Questa tradizione, europea e non, riverbera tra le pagine e nella conversazione: Lewis Carroll, Francesca Woodman, Sophie Calle, Maya Deren, Susan Sontag, Walter Benjamin, Max Weber, i racconti che salvano Sherazade, il Faust di Goethe e poi Mann, Kafka, Sholem Aleichem e la tradizione yiddish, lo spirito ebraico mordente che irride il sistema. Le chiedo di Judas Stern, il meschugge, il folle, il fratello di suo nonno che fece un attentato contro gli ambasciatori tedeschi a Mosca nel 1932, e che racconta in Forse Esther. Durante il processo, Stern fa una battuta e tutti ridono. Lei scrive che ha riconosciuto lo stile della famiglia e che una battuta arguta è più importante di una vera risposta, che l’acume è l’arma di chi è senza potere.
«Non si tratta solo di umorismo, ma dell’atto di non credere nel potere, e di uscire dal sistema. Irridere il potere vuol dire dimostrare che non è pervasivo, che non occupa tutta la pagina». E irridere è quello che fanno gli ucraini, che con ironia e una gioia feroce creano spazio per la vita. Questa effervescenza della vita, della cultura, è l’unica risposta vitale a un tentativo sistematico di annientamento. È lo spirito di Euromaidan, ed è lo spirito delle piazze della Georgia oggi, che si oppongono all’espansionismo di Putin.
Sul suo profilo Instagram, Petrowskaja pubblica molte immagini georgiane. Tra queste, una foto di una donna con un cartello: «Resistance to tiranny is obedience to God», con la didascalia: «It could be a Georgian argument». Mi ha fatto pensare a una storia dentro La foto di mi guardava, a Natal’ja Gorbanevskaja nella Piazza Rossa con i sette dissidenti e alla frase «Per la vostra e per la nostra libertà». Mi dice che è una delle frasi che ha dato forma alla sua vita, a quella dei suoi genitori, della loro generazione. Ogni volta che ne parla si commuove: i dissidenti sapevano perfettamente che sarebbero stati torturati eppure si sono presentati solo con i loro ottocorpi per opporsi all’ingresso delle truppe sovietiche a Praga nell’agosto del 1968. Mi sembra una bussola meravigliosa per il popolo europeo. La mia libertà non può esistere se non esiste anche la tua. Per l’Ucraina, per la Georgia e per chi arriva qui avvolto nella bandiera europea. Per un attraversamento libero, per la dismissione dei confini, come dice Statovci. E poi, magari, sradicati, sentirsi a casa ovunque. Per un’Europa che è una visione, un’ambizione, un destino – un bellissimo casino.