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E non ci stroncheremo mai

In Italia ci conosciamo tutti, quindi giù botte a Franzen, che abita lontano, e grandi lodi al poeta minore di area depressa. L’inizio della letteratura moderna secondo Karl Kraus: la copia per recensione. Che spesso è un riassunto, e svelerà senza pietà il colpo di scena

Ogni volta che provo a leggere Orgoglio e pregiudizio vorrei dissotterrare Jane Austen e colpirla sul cranio usando la sua tibia”. Mark Twain scrive la stroncatura somma, con vilipendio di cadavere. Quando si spiega con più calma – in Who is Mark Twain? teschio e tibie erano nella lettera a un amico – articola così: “Odio tutti i suoi personaggi e non sono mai arrivato in fondo a un romanzo per capire se poi diventano amabili. Dev’essere Arte Sublime che a me sfugge”.

Ferocia senza attenuanti, contro una scrittrice che sembra universalmente amata, e invece ha nella lista dei nemici Charlotte Brontë e Virginia Woolf. Non era neanche una faccenda di maschi contro femmine, che ai tempi di Jane Austen pubblicavano sotto pseudonimo. Sono stroncature entrate nella storia letteraria, come le irrispettose parole rivolte da Martin Amis al Don Chisciotte: “Una lunga visita al più insopportabile dei lontani parenti, con tutti suoi acciacchi, le sporche abitudini, i ricordi inarrestabili e gli amici impresentabili”.

I quattro secoli trascorsi da Miguel de Cervantes a Martin Amis scongiurano il rischio di rappresaglia. Tra contemporanei è più difficile: a una stroncatura segue un nemico sicuro. Succede anche con chi privatamente invoca “leggilo e dimmi la verità, solo di te mi fido e blablabla”: bisogna fingersi morti, come quando arrivano i manoscritti. Guai a rispondere anche solo un “grazie”, può finire sulla quarta di copertina con il tuo nome sotto.

Siccome nessuno vagabonda cavaliere solitario nelle patrie lettere, la stroncatura inimica tutta una cordata, un gruppo editoriale o giornalistico, una corrente letteraria (o quel che ne rimane, magari sono gli autori di uno stesso programma tv). A Natalia Ginzburg non era piaciuto Io e lui di Alberto Moravia, ma di presenza non osava dirglielo: lui era un tipo gentile, lei era intimidita. Ne scriverà in un articolo ora ripubblicato in Vita immaginaria. Rispettando la regola numero uno (la numero due, veramente: la prima è aver letto il libro): bisogna scrivere meglio di come scrive lo stroncato. Aggiunge che Moravia intanto era partito per l’Arabia, “e credo che adesso sia là”.

Le stroncature in Italia sono rare perché ci conosciamo tutti. E’ un genere letterario poco praticato. Se viene praticato, quasi mai è per la tristezza che procurano certi libri illeggibili, e certe recensioni che li celebrano. Alberto Arbasino invocava qualche anno fa per le pagine letterarie una critica sportiva: “Chi è in campo, chi ha segnato, chi ha giocato bene e chi male”. Cosa sta tra le due copertine, come sono la trama e i personaggi, com’è scritto.

Va detto che nel frattempo ai commentatori di calcio è scoppiata la vena lirica. Non danno più il buon esempio. Sono solo da invidiare per l’accanimento del dopopartita: vorremmo parlare di libri come loro parlano di calciomercato, senza passare per fanatici. Scavalcando il “mi piace/non mi piace” e sviscerando qualcosina in più. Ma se non è il pallone è l’aglio orsino: di libri non discutono più neppure le recensioni.

Le citazioni sono merce rara, il recensore preferisce lodare con parole sue (e c’è sempre il rischio di incappare in una prosa mediocre). Se cede e fa parlare lo scrittore, sono sempre frasi che stanno entro pagina 15 (abbiamo un foglietto da parte, con le prove annotate in un momento di fanatismo; quando in due recensioni c’era la stessa citazione, a un rapido controllo compariva anche nel risvolto di copertina).

Completano il quadro clinico le recensioniriassunto, in proprio o rubato al comunicato stampa. Saccheggiata la trama, un dissennato “e non è ancora tutto…” annuncia lo svelamento del colpo di scena. All’assenza di stroncature provvedono i libri che la zappa sui piedi se la tirano da soli: detective separati, maschi indecisi tra il giro del mondo in barca e un nuovo amore, donne che reclamano il loro spazio e intanto raccontano il loro tormentato passato (poi decidono di fare la detective). Gli altri hanno bisogno di un lettore che vada in avanscoperta. Le stroncature servono per togliere dal mercato le scatole di lenticchie con l’etichetta “caviale”. Un antitruffa: chi non è mai caduto nella trappola di una recensione inaffidabile?

Le stroncature sono quasi sparite dai giornali, con la motivazione “lo spazio è poco, riserviamolo ai libri che meritano”. Signorile, se fosse vera. Quando capita di leggere una frase critica, una riserva, un appunto, è quasi sicuro che lo scrittore sia straniero. Escluso dal nostrano girotondo di Karl Kraus: “In principio era la copia per recensione, e uno la riceveva dall’editore. Poi scriveva una recensione. Poi scriveva un libro, che l’editore riceveva e rispediva come copia per recensione. Il prossimo a cui arrivava faceva lo stesso. Così è nata la letteratura moderna”.

Non esiste separazione delle carriere tra chi scrive libri e chi li recensisce. Neppure tra giornali e case editrici. L’invidia per il successo fa il resto. E’ più facile imbattersi in una stroncatura di Jonathan Franzen che di altri romanzieri italiani più meritevoli – se non di una bacchettata, di un garbato contropelo. Tra vicini è tutto un lisciarsi, oggi scrittore non morde scrittore (a meno di contrapposizioni estranee alla letteratura, ideologie o vecchi rancori).

Quindi giù botte a Jonathan Franzen, che certo non si vendicherà. Lodi sperticate a poeti minori di aree depresse. E’ la regola dei premi letterari di seconda e terza fascia: si invita uno scrittore di fama nazionale, se non internazionale, che dia lustro al premiato locale. La letteratura diventa un pretesto. Il lettore-non-scrittore è una rara eccezione alla regola: deve imparare a cavarsela da solo, nessuno lo metterà in guardia dai romanzi brutti.

Finora abbiamo parlato di lettori, intendendo maschi e femmine. Sbagliato, oggi vige l’apartheid. Vladimir Nabokov si era dichiarato omosessuale in letteratura, non tollerava neppure le traduttrici. Concetto oggi passibile di immediata fucilazione (già Lolita era finito sotto accusa, riabilitato solo se viene letto clandestinamente da Azar Nafisi e dalle sue studentesse a Teheran).

Sulle pagine culturali, la sempre crescente quantità di romanzi “al femminile” (medaglietta che gli uffici stampa non dimenticano mai di appuntare sul petto della novità di turno) viene recensita da donne. Le stroncature sono fuori discussione, bisogna occupare spazio, e l’effetto “ci conosciamo tutte” si moltiplica nell’ambiente circoscritto. Ognuna conta e confronta le copie vendute e il posizionamento in libreria, tale e quale ai colleghi maschi. Ma sulle copertine dei giornali sono sorrisi e armonia (al netto, sempre, di politica e ideologia).

Poi è arrivata la rete che tutto collega, i social che azzerano le distanze, la falsa democrazia che azzera le competenze, e libera le opinioni. A uso esclusivo dei professionisti restano l’ingegneria, la matematica, il mestiere di pilota d’aereo. Sulla medicina, per esempio

–             che di suo sarebbe complicata e specialistica

–             chiunque si sente autorizzato a dire la sua. La letteratura ha sempre stentato a farsi considerare un mestiere che richiede pratica, sforzo, tecniche, orecchio. C’è sempre l’illusione dell’outsider di genio, o la fallacia romantica dell’individuo che custodisce in sé perle di originalità (quando atterrano sulla pagina diventano frasette banali, saranno state corrotte dall’atmosfera terrestre).

Tutti possono scrivere, tutti possono recensire, vale anche fotografare le copertine su sfondi intonati. La recensione, scarsa di parole o logorroica, significa soltanto “sono parte della tua cerchia”, più spesso “voglio far parte della tua cerchia”. L’occhio pettegolo osserva rapide salite verso il cerchio magico, una lode è moneta più spendibile di una stroncatura. Il passaparola – o catena di tweet – sui fortunati romanzi che entrano nel circuito (non è detto neppure che siano comprati e letti, esaurita la funzione di fiore all’occhiello) servono a riconoscersi. E a posizionarsi nella catena alimentare.

Oggi si chiamerebbe “shitstorm”. Parliamo del nugolo di recensioni negative attorno a La Storia di Elsa Morante, nel 1974. Straordinario romanzo – in un paese dove fioriscono di rado, sotto l’occhio sprezzante dei letterati – che ebbe subito un enorme successo popolare (altra qualità che gli scrittori, e qui bisogna aggiungere “italiani”, disprezzano).

Obbedendo alla volontà della già affermata scrittrice, Giulio Einaudi pubblicò il romanzo direttamente in edizione economica, a duemila lire. Per rientrare servivano centomila copie, in pochi mesi ne furono vendute seicentomila. Natalia Ginzburg scrisse che leggendo La Storia aveva “a lungo pianto”, il libro aveva segnato una svolta nella sua vita. Al sistema di recensioni ben orchestrato dalla casa editrice e dall’autrice, che sceglie personalmente la fotografia da dare ai giornali, si aggiungono quasi subito feroci stroncature.

Il successo di pubblico bastò per dichiarare Elsa Morante colpevole di cattiva letteratura senza bisogno di processo. Il contrario di quel che è successo con Elena Ferrante, elevata a Grande Scrittrice senza incontrare ostacoli, tra due ali di lettrici osannanti identificate ora con Lila ora con Lenù (nessuno sembra aver notato il clamoroso salto di qualità tra il successo di ieri e il successo di oggi: oggi tutte le stroncature vengono messe in carico all’invidia).

Sul manifesto, dove era già uscita una recensione favorevole, fu pubblicata una lettera dove si parlava di “romanzone”, di “bamboleggianti nipotini di De Amicis”, di “scontata elegia della rassegnazione”. I poveri restavano poveri, invece di darsi alla lotta di classe. Tra i firmatari, Nanni Balestrini di Vogliamo tutto e Elisabetta Rasy, che nel 2010 vincerà il premio Morante per la saggistica. Ci conosciamo tutti, pure le stroncature vanno in prescrizione.

Di tanto in tanto escono rubriche di sole stroncature, in genere i firmatari si nascondono dietro pseudonimi più o meno fantasiosi (e scatta la caccia al nome vero). Fino al 1924, il New York Times non aveva la firma sotto le recensioni dei libri, un paio di articoli ricordano quei tempi e i titoli più feroci. Poi, siccome nessuno è perfetto, misero le firme e i toni più duri si attenuarono. Segue un elenco nutrito di stroncature: Jean Paul Sartre – “era davvero necessario tradurre questo libro?” – Tenera è la notte, Comma 22.

Neanche in Italia c’era l’apparente armonia

–             in realtà: un sistema di deterrenze incrociate

–             che vige adesso. Elio Vittorini piazzò una stroncatura de La malora di Beppe Fenoglio sulla bandella, o risvolto di copertina. Luogo di sovrana piaggeria editoriale, spesso vergata dallo scrittore medesimo, in gara solo con la fascetta (su un libro di Baldini & Castoldi abbiamo letto: “Tra Céline e Aldo Giovanni e Giacomo”). Non il luogo più adatto a un direttore di collana (Vittorini dirigeva i mitici Gettoni) che voglia avanzare le sue riserve.

Fenoglio vide le male parole quando La malora era già stampato, nel 1954: ruppe con Vittorini, con Calvino e con l’Einaudi tutta. Il risvolto metteva in guardia “i giovani scrittori dal piglio moderno e dalla lingua facile”. Era la premessa, la mazzata doveva ancora arrivare: “appena non trattino più di cose sperimentate personalmente, essi corrono il rischio di ritrovarsi al punto in cui erano, alla fine dell’Ottocento, i provinciali del naturalismo”. Tradotto, da Fenoglio: “scrittore di quart’ordine”. Vista da fuori, l’accusa è sempre la stessa: “colpevole di romanzo”.

Le stroncature sono rare, rarissime quelle che si leggono con divertimento. Alcune prendono vie traverse. L’editore Fanucci mise sulla fascetta di un romanzo da lui pubblicato poche righe di una recensione negativa scritta da Irene Bignardi (evidentemente nella certezza che i lettori le trovassero allettanti). Il primo romanzo di Teresa Ciabatti – Adelmo torna da me – fu lanciato da Paolo di Stefano che lo definì “il romanzo più brutto dell’anno” (pur avendo a disposizione decine di concorrenti più meritevoli, ma intoccabili). Dicono gli americani: “There is no bad publicity”. E infatti il romanzo fu istantaneamente celebre. Si intende: tra noi che ci occupiamo di queste cose, e che vivevamo in una bolla ben prima degli algoritmi.

Mariarosa Mancuso legge libri. Vede film e serie, da quando la televisione racconta le storie meglio dei registi e dei romanzieri. Scrive sul Foglio dal primo numero (o forse era lo zero). Ha fatto radio e televisione. Ha tradotto Edgar Allan Poe e pubblicato con Rizzoli “Nuovo Cinema Mancuso” (2010). Non ha un romanzo nel cassetto.