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È proprio mia madre. Anzi mio padre. No, sei tu!

L’impegno principale della mia vita adulta non è stato vincere il Nobel, ma non diventare come lei, millantatrice mitomane in attesta dell’autista. Poi ho avuto due conversazioni traumatizzanti, e se fossi Woody Allen direi che ho buttato trent’anni di analisi
di Guia Soncini
illustrazioni di Makkox

Scendo dal taxi prima d’essere pronta a scendere. Prima che m’abbiano dato il resto, o prima d’essermi coperta se piove.

Apro precipitosamente la portiera per non sembrare una che s’aspetta sia l’autista a farlo per lei. In questo secolo, gli autisti aprono la portiera solo se al passeggero sta venendo un infarto e vogliono sbrigarsi a far intervenire gli infermieri e a prendere una nuova corsa; ma io lo faccio perché stare lì immobile – non sfiorare la maniglia, con la convinzione di dover essere servita della nobildonna cui il mondo deve reverenza – era quel che faceva mia madre, e l’impegno principale della mia vita adulta non è stato vincere il Nobel per la Letteratura, o continuare a entrare nei jeans dei trent’anni, o imparare a fare la lavatrice prima che non ci sia più niente di pulito: l’impegno principale della mia vita adulta è stato non diventare mia madre.

Un’amica di recente mi ha fatto notare che “è proprio mia madre” è un insulto che uso in maniera troppo ampia. Qualcuna è determinata a farsi mantenere invece di lavorare? È proprio mia madre. Qualcuno promette che ci pensa lui a risolverti un problema che non è minimamente in grado di risolvere? È proprio mia madre. Qualcuna s’ostina a mettersi lo smalto rosso nonostante le mani tozze? È proprio mia madre. Qualcuno millanta grandiosità senza rendersi conto che ci vogliono cinque secondi a verificarne l’infondatezza? È proprio mia madre. Blanche DuBois non è in grado di badare a sé stessa e fa conto sulla gentilezza degli estranei? È proprio mia madre (in genere a quel punto il vicino di poltrona bisbiglia: ma no, è Tennessee Williams).

Sì, ma sono tutti così, ha obiettato l’amica. Tutta Roma, tutta Bologna, tutta Napoli sono fatte di mitomani che giurano di pensarci loro (Milano un po’ meno, ma ci arriverà: la normalizzazione è inevitabile). Tutti gli studi legali sono pieni di clienti determinate a farsi mantenere a vita dagli ex mariti. Tutta la tv è piena di smalti rossi, tutta l’Instagram è piena di tizie che più hanno mani orrende più le tengono in primo piano. Non sarà che tua madre era come tutti?

È stata la seconda conversazione più traumatizzante della mia vita. Fossi Woody Allen, mi chiederei perché ho buttato trent’anni d’analisi perché poi m’illuminasse un’amica. Purtroppo non sono Woody Allen, e per fortuna nel non esserlo non ci ho solo rimesso in talento ma anche guadagnato in investimenti: invece di comprare la casa al mare a un analista, ho comprato intere collezioni di Miuccia Prada in taglie che non mi entreranno mai più. Ci ho messo quarantanove anni di conversazioni che parlavano d’altro per arrivare a: non è che non volevi essere tua madre, è che non volevi essere come tutti.

Ero così impegnata a non diventare mia madre, che sono diventata Alba Parietti. Ricordo un’intervista in cui diceva di non essersi mai innamorata di uomini di successo, di uomini con una carriera, di uomini con vite ingombranti: lei voleva uomini che avessero molto tempo per lei. Quel che non diceva è che ci s’innamora di uomini dalle carriere (e quindi dalle vite) non ingombranti perché si vuole ingombrare in proprio. Se mi sono sempre innamorata di uomini d’insuccesso non è perché li volevo sempre intorno: è perché volevo essere quella che sbuffava se le stavano troppo intorno, quella che diceva insomma, non lo capisci che non ho tempo e devo scrivere, quella le cui priorità erano sacre. La protagonista. Le altre sospiravano su Nora Ephron che c’incitava a ritagliarci il ruolo d’eroine nelle nostre stesse vite, e io non capivo che bisogno ci fosse che ce lo dicesse lei: c’era un’alternativa? Esistevano tizie che non pretendevano il ruolo della protagonista in casa propria?

Ero così impegnata a non diventare mia madre, che sono diventata mio padre.

Me ne accorgo ogni volta che si parla di ex verso i quali si ha un mai sopito rancore, e io dei miei ex spesso neppure mi ricordo i nomi, di sicuro non mi ricordo cosa m’abbiano fatto di male (al massimo cos’ho fatto io a loro: “m’accorgo innanzitutto di me, non posso farci niente”, diceva Vittorio Gassman). Se anche me ne ricordo, non me ne frega mai abbastanza da avercela con loro dopo anni. Non penso a vendicarmi di quello che per rivalsa mi ciancicò tutto il nastro della musicassetta di Whitney Houston; di quello che mi scavalcò ed entrò in casa con un’altra all’una di notte mentre lo aspettavo seduta sui gradini; di quello che m’ingiungeva d’andare a casa sua e poi non m’apriva la porta. Ma porterò rancore eterno e montecristico a quello che si dimenticò di togliere la sveglia che aveva puntato all’alba per la mattina precedente, sveglia che mi perforò le orecchie la mattina della notte trascorsa a casa sua, e lui si voltò dall’altra parte e si riaddormentò, e io lo maledii da allora e per sempre per quel peccato imperdonabile che è il violare la sacralità del mio sonno.

Mio padre faceva due sontuose ore di pisolino ogni pomeriggio feriale, e non si poteva stare in salotto perché era diviso dalla sua camera da una doppia porta, non sufficiente a garantire la sacralità del suo sonno; e non potevo stare in quella che fino alle elementari fu la mia cameretta, perché anche quella era separata dalla sua stanza da un’insufficiente doppia porta; e quindi la me in età da asilo in quelle due ore doveva essere portata fuori dai coglioni, in cucina, in studio, negli appartamenti della servitù, ai giardinetti, in un qualunque luogo che non disturbasse il marchese del Grillo di casa nostra. Ma un pomeriggio sfuggii ai controlli adulti e mi misi a giocare in salotto, ed essendo una bambina già mitomane parlavo tantissimo da sola e a voce altissima, e insomma rumoreggiai abbastanza da svegliarlo e apriti cielo, scaténati furia, e poi per forza sono diventata mio padre: c’è uno spettacolo più aspirazionale che essere quello di cui tutti in casa devono rispettare il sonno?

Passai il mio quattordicesimo compleanno in collegio. Probabilmente l’ho già raccontato: quando hai pochi traumi in repertorio, devi spremerli ben bene. Non ricordo la festa di ripiego, ma benissimo la telefonata con cui mia madre mi annunciò che avremmo dovuto anticipare il mio ritorno a Bologna per festeggiare con le amiche il weekend prima di quello giusto. Il weekend del mio compleanno, mi spiegò tutta seria, papà aveva prenotato per la Sardegna, accorgendosi solo dopo che la data era quella del mio compleanno; mi raccomando, digli che sei tu che vuoi festeggiare la settimana prima, mica vorrai farlo sentire in colpa, già ha così pochi svaghi. Come si fa a non voler diventare uno che se ne fotte degli altri abbastanza da non ricordare il compleanno della sua unica figlia, uno che è abbastanza bravo a manipolare chi gli sta intorno da sembrare vittima invece che carnefice, uno che passa il tempo a scoparsi una ventenne e riesce tuttavia a essere considerato dalla moglie uno che lavora e basta, uno la cui stronzaggine gli altri si preoccupano di non rinfacciargli, impegnàti come sono a ritenerlo uno che si sacrifica. Meno male che sono diventata mio padre, sospiro nei momenti di lucidità (sempre più rari).

Qualche anno fa ho conosciuto una mia coetanea che non aveva mai lavorato. Non ne avevo mai incontrata una, ne sapevo l’esistenza dai racconti dei divorzisti, dai gruppi di paese reale che spio su Facebook, dal cinema e dai romanzi; ma avevo incontrato, tra le donne della mia età, solo quelle con un qualche impiego. Cui assolvevano più per preservare la propria sanità mentale che la propria realizzazione o il proprio reddito: a stare tutto il giorno a casa coi figli si dà di matto. Non avevo mai incontrato nessuna col livello di mitomania di mia madre: nessuna che riuscisse a concepire di non avere un lavoro e di non fare neanche la madre; di avere tutto il personale di servizio necessario a gestirti casa e prole come tu fossi molto impegnata, essendo tuttavia nient’affatto impegnata. Non ne avevo mai incontrata una, fino alla donna dell’uovo.

Davanti a due bicchieri di Franciacorta, la signora mi diceva senza mettersi a ridere che i figli erano così impegnativi, come avrebbe potuto lavorare. Oddio, pensavo, tua nonna probabilmente arava i campi e lavava i panni al fiume allattando l’ottavo, e tu con due liceali che ti scanseranno mirando a non incrociarti per intere giornate non hai tempo per un parttime da commessa, ma mica voglio fare la figura dell’antifemminista dicendotelo, per carità, t’hanno raccontato che hai diritto di realizzarti come credi, anche non facendo niente di niente dalla mattina alla sera, e chi sono io per contraddire il dogma che tutte-lescelte-hanno-pari-dignità e dirti che se poi ti vuoi separare come diavolo ti mantieni, figurarsi: un altro canapé?

Davanti ad altri due bicchieri di Franciacorta, la signora mi svelava che in effetti intendeva separarsi; ma suo marito, quell’essere orrendo, le aveva detto “sia chiaro che i miei soldi sono miei e se te ne vai non ti do niente”, e mi rendevo conto, che mostro, che bruto, che ingrato, con tutto quel che lei aveva fatto per il lavoro di lui. Pensavo tantissimo a mia madre, che straparlava d’intessere pubbliche relazioni utili alla carriera di mio padre, neanche lui fosse una popstar o un ambasciatore, e facevo uno stremante sforzo su muscoli che non sapevo d’avere per non ridere mentre le chiedevo ma tipo cosa?, e lei rispondeva che, insomma, era lei che teneva in ordine il conto corrente congiunto.

Cioè quello su cui lui versava e dal quale lei prelevava, ristabilendo l’ordine cosmico della differenza di genere. Mi veniva in mente la serietà con cui mia madre mi spiegava d’essere molto più emancipata dell’amica a bordo della cui piscina avevamo trascorso la domenica, giacché l’amica, se voleva fare qualche grosso acquisto, doveva farsi firmare gli assegni dal marito, lei invece poteva firmare in proprio, sperperando impunita in stronzate i soldi che guadagnava papà, come fossero suoi. Un po’ cercavo di non ridere, un po’ ringraziavo il dio degli enzimi per il mio sovrannaturale metabolismo dell’alcol: tutti gli aperitivi del mondo non avrebbero impedito ai miei quattro neuroni d’immagazzinare dettagli della vita di questa mia-madre-in-sessantaquattresimo che il destino m’aveva mandato per chiedermi cos’aspettassi a scrivere il Grande Romanzo Famigliare. In corrispondenza del terzo Franciacorta, tamponato con qualche formaggio invecchiato perché fidarsi degli enzimi è bene ma non fidarsi è meglio, la signora era arrivata al movente per cui voleva separarsi, caratterizzato da un dettaglio che non credevo esistesse dai tempi di Jane Austen. Certo, era innamorata.

Certo, per quest’amore senile voleva lasciare il marito (se solo egli non fosse stato così villano da prospettarle l’indigenza). Ma – mia madre in purezza – non si era mai congiunta carnalmente con la ragione per cui considerava di concludere il proprio matrimonio.

Ho quasi sputato il formaggio. Mi sono strozzata col Franciacorta. E, mentre tossivo dando la colpa al reflusso e non all’essere davanti al più clamoroso caso di “è proprio mia madre” che mi capitasse da anni, le ho chiesto di ripetermi lentamente la ragione per cui lei e il suo oggetto di crisi di mezz’età non avessero fatto quella cosa che Ella Fitzgerald ci ricordava facessero le api, i passerotti, persino le pulci più istruite e i lituani e i lèttoni: accoppiarsi.

E la sventurata ha ripetuto, con la serietà con cui l’avrebbe detto allo psicoterapeuta e al docente di yoga (certo che li aveva entrambi: era mia madre, ma in un adattamento scritto in questo secolo), che no, non l’avevano mai fatto, giacché lui era “chiuso come un uovo”.

Ho pensato a tutti i corteggiatori immaginari di mia madre. Ai fiori che si mandava da sola. Agli uomini che avrebbe potuto avere, raccontava a sé stessa e a me. Al miliardario di cui mio padre era un ripiego, così m’aveva raccontato lei per tutta l’infanzia: quando il miliardario s’era disperatamente innamorato di lei, era già sposato, e in Italia non esisteva il divorzio. Scusa che resse per un po’ – il divorzio in Italia divenne legale sei mesi dopo le nozze dei miei – ma barcollò quando il miliardario in questione si sposò con un’altra tizia. Divorziando dalla prima moglie, il suo primo pensiero non era stata mia madre.

(Nell’inverno dei miei tredici anni, a letto con l’influenza, ricevetti in dono materno Come sposare un miliardario, guida con tanto d’elenco di scapoli plutocrati che scrupolosamente memorizzai. Quando ne avevo venti, il mio allora fidanzato estivo mi presentò il suo migliore amico. Riconobbi il nome: tu eri in Come sposare un miliardario. L’estivo chiese cosa fosse. Il plutocrate rispose: un manuale per zoccole).

Tornando all’origine del mondo (l’uovo, o la vagina). Diversamente dal fenomeno che avevo di fronte, mia madre non era mai stata così brava da concepire una scusa quale “è chiuso come un uovo”; non è un demerito suo, povera, le circostanze non la aiutavano: era adulta in un’epoca che precedeva la psicanalisi un tanto al chilo, l’infinito portato a livello dei cani, l’abolizione del senso del ridicolo usando Freud in versione da Baci Perugina.

Al quarto Franciacorta, ringraziando l’universo di non avermi fatta mia madre, ho fatto quel che avrebbe fatto mio padre: sono andata alla cassa. Lei, proprio come avrebbe fatto mia madre, ha finto di voler dividere (cioè: di voler pagare con soldi non suoi), tenendo il portafoglio in mano e un’accurata distanza di sicurezza dal cassiere. Poi, quando ha visto la ricevuta nelle mie mani e si è sentita al sicuro dall’ipotesi d’una qualsivoglia emancipazione, ha abbassato gli occhi e ha detto, con quella femminilità ancestrale che o ce l’hai o mica la puoi simulare: ma non dovevi. Era proprio mia madre.

“Sai, è che la mamma non ci arriva subito” mi disse mio padre quando, ventenne, ero offesissima per lo scarso entusiasmo dimostrato da lei quando ero stata ammessa in una qualche scuola di recitazione. Persino scema come la ventenne che ero, capii che era un momento seminale. Quello in cui mio padre mi lasciava capire che lui lo sapeva, d’essere sposato con una cretina. Che, certo, lui non era un fulmine di guerra, ma era abbastanza sveglio da essere dotato di sarcasmo, mica come lei che davanti a una battuta sembrava Margherita Buy in Caterina va in città (questo non lo pensai, giacché quel film non esisteva ancora; questo è senno di poi: l’unica chiave di decodifica del mondo che abbiamo).

Forse fu allora che decisi che era meglio rischiare di diventare mio padre. Meglio il cornificatore che la cornuta. Meglio l’anaffettivo che la vittima. Meglio quello che si sveglia alle sei per andare in sala operatoria che quella che spende soldi non suoi. Meglio quello che fa battutacce che quella che non le capisce.

Sono stata certa della solidità della mia scelta fino a quando, cinque anni e mezzo fa, sono uscita dall’anteprima d’un altro film di Paolo Virzì, La pazza gioia. La protagonista è una che millanta qualunque cosa: titoli nobiliari, conoscenze importanti, ricchezze, uso di mondo. Ho riacceso il telefono e mandato un messaggio a Francesca Archibugi, che aveva scritto la sceneggiatura. È stata la conversazione più traumatizzante della mia vita.

“Ma non m’avevi detto che stavate facendo un film in cui la protagonista era mia madre”. “Beh, più che altro sei tu”.

Quindi, con tutta la fatica che avevo fatto, mi vedevano comunque mia madre. Quindi era inutile sforzarsi. Per un paio di minuti fui indecisa: chiamare una macchina con autista per buttarmici sotto e mettere fine alle sofferenze d’una natura cui non potevo sfuggire, o chiamarla per restare impalata davanti alla portiera finché il poverino non fosse sceso ad aprirmela? Il cinema era a duecento metri da casa. Li feci a piedi. Mia madre duecento metri a piedi non li avrebbe fatti mai. Cosa vuole saperne Archibugi, tzè.

Guia Soncini (Bologna, 1972), scrittrice. Ha pubblicato, tra gli altri, «I mariti delle altre» (Rizzoli, 2013, Premio Forte dei Marmi), «L’era della suscettibilità» (Marsilio, 2021) e «L’economia del sé» (Marsilio, 2022). Il suo ultimo libro è «Questi sono i 50» (Marsilio, 2023).