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È stata la (seconda) mano

Monetizziamo le mutande fuori moda sentendoci migliori, pronti a salvare il pianeta e pure gli afghani. Poi con questi soldi compriamo altri vestiti, e tanti saluti alla lotta al consumismo. I tre sacconi “da dare ai poveri” sono ancora qui

Il momento “butta tutto quello che non ti dà gioia” è passato velocissimo e sembra assai lontano, superato a destra da quello “vendi tutto quello che riesci”. Oltre a darti gioia e a svuotare l’armadio e dunque la mente, adesso ciò che non serve più, soprattutto i vestiti, deve servire anche a un fine più prosaico: monetizzare la mutanda fuori moda.

Sarà il Covid, sarà che ne stiamo uscendo decisamente peggiori, ma è un periodo d’oro per chi si vuole vendere la roba che non mette più, e invece che farlo di nascosto, come una volta si andava a impegnare l’orologio di nonna al banco dei pegni, l’ha trasformato in un’attività chic e moralmente apprezzabile come lo yoga o la produzione di kombucha casalinga.

È il trionfo infatti dei siti e delle app dedicate: Wallapop, Vestiaire collective, Vinted, Depop, e poi il classico Subito.it. Negli Stati Uniti la moda di seconda mano vale 24 miliardi di dollari e nel 2023 arriverà a 51. Nel 2028, il mercato dell’usato supererà il famigerato fast fashion, nemico ormai numero uno del secolo, dopo le sigarette e i grassi idrogenati. 84 miliardi di euro. In Italia invece, secondo uno studio sulla Second Hand economy realizzato da Doxa, si arriva a 23 miliardi di euro, con una crescita del 28 per cento in cinque anni.

Ma non sono solo le fredde cifre: oggi a vendere online ci si sente anche tutti molto buoni, soprattutto ecologisti. Secondo le Nazioni Unite, la moda inquina più degli aerei (vabbè): per fabbricare un paio di jeans servirebbero 7.500 litri d’acqua. Così adesso riciclare serve soprattutto al pianeta. “Vogliamo contribuire a cambiare le abitudini all’acquisto”, ha detto prontamente la responsabile comunicazione di Vinted Francia al Monde. “Che si comprino capi di migliore qualità in un’ottica di economia circolare”. Già, ma se è una questione ambientale, allora vogliamo gli incentivi. Se per una Panda elettrica lo stato ti sovvenziona usando le tasse del tuo vicino, per una caldaia controllabile col telefonino pure, perché Draghi non ci dà un bonus anche per un doppiopetto Loro Piana? Non sarebbe difficile così convincere anche i meno ecologisti a dotarsi di cachemirini e tailleur Armani e borsette Prada piuttosto che tute Liu Jo e spolverini Mango e mutande H&M che si polverizzano dopo il primo lavaggio. Il doppiopetto Loro Piana (possibilmente Solaro, grazie) fiscalmente detraibile al 110 per cento migliorerebbe tra l’altro anche l’estetica, oltre che l’umore, di un popolo che si è molto imbruttito, pigiamato, intutato in questi due anni. Siamo più importanti noi delle facciate, o no?

A chi poi è boomer o tardo-millennial, la scusa dell’ecologia pare balzana, provenendo da famiglie che l’economia circolare del maglioncino e della felpa tramandata fino a completa transustanziazione del capo l’hanno da sempre praticata (ma non sembrava molto cool, piuttosto era un’altra ragione per scappare e andare a vivere da soli). Erano case dove generalmente non si buttava mai niente, dove i vestiti passavano di generazione in generazione, magioni famose per armadi colmi di maglioni infeltriti e Lacoste risalenti alle crisi petrolifere, fino ai cassetti con la dicitura “elastici troppo corti per essere utilizzati”, con turaccioli e carte veline di pasticcerie e qualunque tipo di involucro che rimaneva lì nei secoli (infatti poi i traslochi, e le morti, una tragedia, da camion Gondrand, da esaurimento nervoso, con anni di lavori di smistamento, che portavano al decesso dello smistatore o meglio della smistatrice, perché questa pratica era sempre affidata alle donne, in un altro tipo ancora di economia circolare).

Queste case prevedevano la fuoriuscita dal ciclo familiare del capo pregiato o anche no solo come liberalità o regalia o appunto in caso di decesso: i vestiti dei bambini che si sa, crescono di mese in mese, alla cugina incinta, il cappotto al vicino o al portiere, la pelliccetta (di coniglio) alla donna di servizio, e così di generazione in generazione. Si stabilivano anche legami affettivi e morali: chi scrive ha un tenero ricordo delle camicie che uno zio dandy e omonimo oltretutto con cifre semi-araldiche sul taschino regalava, a dozzine, perché appunto dandy. Però certo, lo zio Michele ancor oggi elegantissimo sarebbe morto piuttosto di rivenderle online: inconcepibile e immorale, al pari di buttare il cibo avanzato (Gesù è sceso da cavallo per una mollica di pane, diceva invece la nonna Rina, i cui impermeabili Burberry sono ancora lì, intonsi. Non sono infatti mai andati bene a nessuno, era piccoletta. Ogni tanto qualcuno se li prova, ma niente, resteranno negli armadi fino a quando la pianura padana sarà sommersa dall’innalzamento dei mari).

Sicuramente il cambio di attitudine e mood verso la rivendita delle povere care cose ha a che fare col mezzo: la transazione online nobilita il gesto (così come comprare su Amazon è molto più ganzo che non su Postalmarket, come facevano sempre le vecchie nonne, non consapevoli di compiere un atto cool). Poi c’è il fatto social, perché questi Vinted e derivati alla fine parlano di noi, vogliono una foto di noi, ci mettono in collegamento. Ci si scambiano commenti e like e recensioni. Riempie la solitudine. Poi naturalmente c’è l’appello all’ecologia: siamo tutti un popolo di “deconsumeristi”, dice sempre il Monde, consumiamo sempre meglio, e possibilmente ricicliamo, e questo ci fa stare bene (a patto ovviamente di dirlo, facendolo sapere a tutti). Anche se il ricavato non è che va alla lotta sul cancro: il 70 per cento va per l’acquisto di vestiti nuovi, dice una ricerca di Boston Consulting. E si capisce che forse è diventato proprio un lavoro, ripulire gli armadi, impacchettare, spedire, incassare, e la gente che vediamo in fila alle Poste non sta lì a prendere la pensione o fare le rapine bensì a spedire dall’altra parte del mondo la canottierina Dolce&Gabbana ormai stretta che ha precedentemente imbustato (ma la Co2 di tutti questi trasporti qualcuno la calcolerà? Non sarà un controsenso?). Forse i deconsumeristi sono tra noi, non li vediamo, forse alligneranno tra tutti questi giovani che si licenziano, per trovare “un posto migliore”, come dicono le cronache: come una volta, di nuovo, alle Poste, ma dall’altra parte dello sportello, a vendere. Però tornare al vecchio mondo pare difficile. Nessuno vuole infatti più niente in regalo, e disfarsi di vecchie robe senza fine di lucro è diventato impossibile, forse anche disdicevole. E qui, esperienza di vita vissuta, si sono accumulati da anni tre gran sacconi di vestiti “da dare ai poveri”, che ormai ingombrano l’unico angolo di cantina rimasta a Roma. Forse è proprio questo “dare ai poveri” sintomo e simbolo del più corrivo patriarcato, questo sentirci superiori, questo voler rifilare la maglietta bucata sentendoci pure migliori.

Comunque, in uno di quei rari momenti di entusiasmo, e anche con l’inverno alle porte, si era deciso di portarli, questi sacchi, a questi benedetti poveri. Prima, si era proposta una selezione a un’amica che ha figli in età scolare già provati dalle Dad, se per caso voleva una serie di magliette Polo in regalo, visto che non vanno più bene, si sono ristrette loro, ci si è allargati noi, ma quella faceva dei gran “mah”, insomma si capisce che era molto imbarazzata, e io mi sono imbarazzato ancor di più (forse è diventato una roba da maniaci regalare roba usata, come telefonare; forse non si era in confidenza abbastanza, però in fondo erano magliette, e in ottimo stato, non mutande).

Viene in mente allora un’altra soluzione, quell’altra amica molto attenta alla causa afghana che raccoglieva abiti proprio per la comunità di profughi a Roma. Adesso, con la tragedia talebana, ce ne saranno ancora di più (mi sento subito meglio, moralmente, quando penso di donare i miei sacconi agli afghani; mi sento nobile e altruista, altro che i deconsumeristi). Ma lei non risponde, né ai messaggi, né a whatsapp, niente. Mi dicono che non abiti più a Roma. Forse è proprio andata in Afghanistan. Pazienza. Decido di affrontare da solo gli afghani (anche se lei era così comoda, veniva a prenderseli e li portava, rendeva il mio sentirmi nobile e generoso molto più pratico). Cerco allora su Google profughi+afghani

+Roma, e mi escono una serie di indirizzi. Il primo risultato che mi esce è un articolo del Tempo: “Le suore chiedono aiuto per i 52 profughi afghani ospiti dell’ostello Villa Monte Mario a Roma. E subito si scatena il tam tam sui social”. Bene, penso, ah, che bella gara di solidarietà, a cui voglio anch’io contribuire. Però certo Monte Mario, dall’altra parte della città…ma soprattutto leggo: “Centinaia di persone arrivano a portare giocattoli e biancheria. E’ una bella storia di solidarietà quella che vede protagonisti i romani ma che ha provocato l’intervento del Forum del Terzo settore del Lazio, che ha dovuto fermare la gara di solidarietà perché, con le precauzioni Covid, si rischiava di prolungare la quarantena dei profughi”. Ah. La gara di solidarietà s’è fermata. Mannaggia. Tocca trovare altri afghani (che poi, non devono essere per forza afghani, va bene anche qualche altra etnia sofferente, non andiamo per il sottile. Però gli afghani darebbero quel tocco di attualità). Trovo allora: “Dal 26 agosto, nella sede della Casa del Municipio Roma I in Via Galilei, dove si trova anche una Casa del Volontariato di CSV Lazio, si raccolgono vestiti, giocattoli, pannolini per le famiglie afghane accolte dalla Regione Lazio a Roma (ora servono soprattutto intimo e vestiti per adolescenti e adulti)”. Fantastico! Via Galilei! Dietro casa.

Mi armo dei sacconi e cerco l’indirizzo, un sabato pomeriggio. Nessuno risponde. Poi al terzo squillo un signore guardingamente mi apre. Dietro, si vede che sono in tanti, e io mi sento subito meglio: sto aiutando questi afghani! Il signore mi guarda sospettosissimo, penserà che sono di CasaPound e voglio dargli fuoco, chiarisco, sono un cittadino del quartiere, con una spiccata coscienza civica ed ecologica, e vorrei liberarmi donare questi abiti visto che l’inverno è arrivato e immagino che ne abbiano bisogno. Ma nessun sorriso riconoscente si issa sul volto del buon uomo (che più che afghano sembrerebbe sudamericano, ma non è questo il punto). Siamo a Roma, e dunque più del freddo poté la burocrazia. “Chiami il numero!”, dice. Quale numero? E mi indica un numero, quello del CSV Lazio, e mi saluta. Chiamo il numero, un po’ deluso da questo contatto col prode rifugiato, e di dovermi riportare via i sacconi, questi afghani mi stanno rovinando il weekend, e risponde un centralino: siamo aperti tipo dal lunedì al martedì ecc. ecc. Richiamo il lunedì: una solerte signora dice che lei non ne sa niente. “Ma è sicuro? In via Galilei?”. Niente. Ma ormai sono ingaggiato nel mio deconsumerismo etico, niente mi può distrarre da questa missione. Al diavolo gli afghani. Vado avanti nelle ricerche. Sempre in zona Esquilino, in via Vittorio Amedeo, c’è un altro centro. Vado. Chiuso sbarrato. L’ultima spiaggia sarebbero i vecchi contenitori gialli per i vestiti usati, quelli per strada. Ma sono circondati da una fama sinistra, si vuole che poi i vestiti vadano alla camorra, alla mafia, a QAnon. Sarà una leggenda metropolitana come quella dei parcometri che erano di Rutelli?

Provo con la Caritas. Sul sito mettono in chiaro: non sappiamo più dove mettere la roba. Se volete, mandate soldi. Ah, ecco. Stremato, alla fine – sono i giorni della rielezione di Mattarella – ecco l’idea geniale. Durante l’elezione del Quirinale salta fuori a un certo punto il nome di Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio. Ma certo, Sant’Egidio! Non afghano ma ugualmente chic. La piccola Onu di Trastevere. Guardo il sito e vedo che, urrà, accettano persino beni usati che non siano soldi. Bisogna portarli alla “città ecosolidale”, a Roma, all’Ostiense. Fantastico. Quando potrò andare? Gli orari sono: mercoledì e sabato dalle 9:00 alle 13:00. Sembra quel vecchio sketch di Avanzi: “L’ufficio è aperto dalle otto alle otto”. Un mercoledì mi preparo coi borsoni ma poi arriva il diluvio. Sabato mattina non riesco, ho palestra. Il mercoledì dopo ho da fare. Alla fine, rinuncio. Forse, tutto sommato, quelle polo le potrei piazzare su Vinted. Faranno anche ritiro a domicilio?

Michele Masneri (Brescia, 1974), scrittore e giornalista del Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui” (Adelphi, 2020) e “Stile Alberto” (Quodlibet, 2021).