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È un anno e mezzo che sono sveglia

Delirio notturno di un’insonne, tra il rifiuto di mettere la sveglia e Google che mangia la memoria. Voi strisciate sedie, voi vi preoccupate solo che il mio cadavere non entri in una 42, voi siete Guantanamo. Eppure un tempo dormivo
di Guia Soncini
illustrazioni di Makkox

Devo struccarmi. No dai, ormai domani. E se poi mi si rovina la pelle? Ma cosa vuoi che si rovini, mi trucco tre volte l’anno, otto ore in più o otto in meno. Oddio, otto: ormai saranno le – no, non guardo, se illumino il telefono mi sveglio del tutto. Certo però ormai potrebbero essere anche le tre. Vuol dire che devo alzarmi tra tre ore. Magari, se mi porto avanti a struccarmi adesso, domattina bestemmio meno. Ma forse devo mettere la sveglia? Come se non mi svegliassi comunque alle cinque e mezza ogni mattina di questa vita balera, ogni mattina da fornaia mancata. Però se la metto magari dormo. Devo trovarmi un analista solo per chiedergli perché le uniche mattine in cui dormo con la profonda beatitudine di chi tirerebbe fino alle dieci sono quelle in cui ho un aereo, un avvento, un abigeato qualunque per il quale per prudenza abbia messo la sveglia. Le uniche mattine in cui quella cafona squilla facendomi sobbalzare nel bel mezzo d’un sogno in cui su Amazon si vedono in tempo reale le copie che sta vendendo ognuno. Devo trovarmi un analista solo per sentirmi dire che sono ossessionata dalle copie degli altri, fanno centocinquanta euro se non serve fattura, ci vediamo martedì prossimo. Eppure un tempo dormivo, me lo ricordo, non era tantissimo tempo fa, un anno e mezzo, era aprile, l’inizio della clausura da virus, il mese in cui non dormiva nessuno. Tutti ti parlavano della loro ansia, e io omettevo le mie nove ore da liceale. Finalmente non dovevo trovare scuse per non uscire. Finalmente nessuno mi proponeva di presentare libri, fare conferenze, presenziare a convegni non retribuiti. Finalmente l’isolamento forzato, quello che tutti ti dicono poverina, ma come fai, neanche un figlio un cane una piantina di basilico, hai bisogno di conforto, c’è qualche legame di prossimità, un congiunto entro i duecento metri che ti faccia compagnia, così sennò impazzisci. E tu a sorridere magnanima, a simulare invidia per chi s’era messo estranei in casa, a fingere rimpianti. Era bellissimo, era così rasserenante, poi per forza dormivo dalle dieci alle sette. Poi è finita. Non ricordo quando, ma ricordo benissimo quando. Già da un po’ non si trovavano consegne libere al supermercato. C’era la borsa nera degli orari, la leggenda diceva che alle sei riuscivi a far la spesa, anzi alle quattro, anzi – ho iniziato a sperare in un’insonnia risolutiva che mi permettesse di comprare l’ammorbidente, ma niente. La sveglia mi rifiutavo di metterla, figuriamoci, il primo mese della mia vita adulta in cui dormo come una pupa, non spezzerò l’incantesimo. Finché una notte mi sono svegliata di soprassalto. Avevo comprato dei kiwi da quattro euro l’uno. Servivano a decorare la festa di lancio del romanzo del mio amante. Senonché l’amante era morto, e la moglie si rifiutava di organizzare un funerale a base di kiwi. Mi sono svegliata chiedendomi cosa me ne sarei fatta di quattrocento euro di kiwi e un cadavere già ipotecato, a me i kiwi neanche piacciono, e non ho mai più dormito: è un anno e mezzo che sono sveglia. Il mio anno e mezzo di poco riposo e molto oblio. Chissà se questa cosa di non ricordarmi più niente dipende dalla mancanza di sonno. Secondo me è Google. Google ha tutte le colpe del mondo, compresa quella di mangiarmi la memoria. Prima di Google le telefonate che facevo non avevano tutte lo stesso svolgimento. “Dimmi”, “Non mi ricordo perché ti ho chiamato”. Meno male che questa infermità m’è venuta tardi, negli anni sentimentali l’avrebbero presa per una balla: voleva chiamarmi, poverina, ma è timida e non ha saputo trovare una scusa. Adesso lo sanno che sono neuroni smozzicati, sinapsi lasche, pescerossismo cronico. Sapevo esattamente cosa volevo dirti, quindici secondi fa. Mi tornerà di sicuro in mente, tra quindici giorni. Chissà che ore sono. A un cert’ora conviene alzarsi, ormai non dormi più, e se dormi è peggio, suona la sveglia mentre sei nel più profondo dei sonni, e poi sei di malumore tutto il giorno, e fai il resoconto dell’insonnia a chiunque abbia la sventura di chiedere “come stai”. È d’altra parte vero che uno che chiede “come stai” si merita tutto, ma fatevi i cazzi vostri, forse che io vi chiedo mai come state, quelli che chiedono “come stai” sono quelli che sghignazzano quando leggono “resilienza” ma poi dicono tutti seri “sono molto empatico”.

Se fossi empatico staresti sveglio al posto mio, imbecille. Anzi, ora accendo il telefono e mando mail di insulti all’idraulico che aveva “empatia” tatuato sul polso, sono stata un mese senza poter usare il lavandino della cucina, te la do io l’empatia. Quando si è accorto che gli fissavo con disgusto il polso – cioè del disgusto non credo si sia accorto, avrà pensato stessi per chiedergli il numero del tatuatore – ha ritenuto di spiegarmi che, con la figlia, si sono fatti due tatuaggi gemelli. “Ah, la prossima Erika De Nardo”. Mi ha guardato con aria non tanto sveglia, chissà se dopo ha guglato. Sonni Boy ha disegnata sulle braccia la mappa delle stelle, e di notte guarda le amiche della figlia su TikTok. Forse se mi apro un TikTok la notte mi passa il tempo. Oddio, pensa te cosa mi viene in mente. Sarà l’andropausa? Menopausa, santiddio, menopausa.

Chissà cosa direbbe l’analista che dovrei trovarmi. Se mi rispondesse “si scrive Freud ma si pronuncia fruà” resterei in analisi tutta la vita, lo pagherei in nero, m’inventerei sogni per intrattenerlo, ma figurarsi. Non solo non la direbbe ma non la capirebbe se gliela dicessi io, e a quel punto per la delusione sarei costretta a trovarne un altro, diventerei una di quelle che vagano tra un analista e l’altro con una turnazione tipo quella dei miei fidanzati dei vent’anni. Come si chiamava quel film di Woody Allen in cui la moglie era un’analista e si urlavano insulti perché lui si era scopato una paziente di lei mentre due stanze più in là un paziente sul lettino frignava per non so quale irrilevante problema che lui percepiva gigantesco. Gli analisti sono come i direttori dei femminili, il loro lavoro è non dire mai “ma che stronzata, ma non ce l’hai un problema serio” alle lettere delle lettrici o alle lagne dei pazienti. Mentimi, dimmi che ho dei problemi seri, magari è la volta che ci dormo su. Quando sei insonne non sei mai addormentato ma non sei neanche mai sveglio, che dirò a tutti che la so perché ho letto Fight Club ma come tutti ho visto solo il film, e come tutti ho trovato insensato che Norton e Pitt fossero la stessa persona, ma sono l’unica che lo ammette. Ah ne so anche una di Faulkner, sebbene facessi sempre sega quando quella di letteratura americana, chissà come si chiamava, interrogava su Faulkner, sebbene di Faulkner sappia praticamente solo che scriveva di poveri e che piace a Baricco. La so, fa tipo così: domani notte non è altro che una lunga lotta insonne con le omissioni e i rimpianti di ieri. Devo dire che non l’ho capita benissimo: con le omissioni e i rimpianti di ieri non dovresti vedertela questa notte? Perché aspetti quella di domani? Mica stanotte avrai dormito. Beatatté. Le so tutte non perché abbia letto gli scrittori ma perché dal 2012 sulla sponda del mio letto c’è un quadernetto che ho comprato da Strand, la libreria di New York dove gli altri comprano letteratura e io compro balocchi. S’intitola I Can’t Sleep, è un diario dove dovresti annotare le ragioni per cui non dormi ogni notte in cui, appunto, non dormi. Ovviamente non ho mai annotato niente, altrimenti dal 2012 l’avrei finito trecento volte. Non ho mai annotato niente perché io mica lo so perché non dormo. Una volta volevo andare in un centro per l’insonnia, ma mi hanno detto che ti prendono solo se non dormi venti notti di fila. Ho chiesto se contassero i pisolini pomeridiani, e mi hanno cacciata con ignominia. Sentite, cari dottori dell’insonnia, adesso io capisco la gara a chi ha il problema più grosso, ma se non dormi venti notti secondo me muori. Se non dormi venti notti io non ci credo che il pomeriggio non crolli. Forse quelli che a pranzo bevono tè verde invece del prosecco, ma secondo me persino a loro a un certo punto viene la cecagna – la perfezione del romano sulle volgarità, imbattibile, quasi piango per la bellezza di certe parole spicce. O forse piango perché ormai chissà che ora è. La donna senza sonno. Che poi coso, come si chiama, quello che aveva fatto quel film in cui non dormiva, non l’ho mica mai visto – già c’ho la mia vita da guardare – ma mi ricordo queste foto di scena in cui gli si vedevano le costole, pesava tipo trenta chili, e invece tutte le mie amiche feticiste della magrezza continuano a dirmi preoccupatissime che a non dormire s’ingrassa. Io che qui sto morendo, e loro che si preoccupano che il cadavere non entri in una 42. Nel quadernetto di Strand le frasi migliori sono dei cantanti, che evidentemente sono i migliori insonni. Il migliore tra i migliori è ovviamente Leonard Cohen, che d’altra parte alle quattro di mattina a fine dicembre stava lì a scrivere lettere al tizio col famoso impermeabile blu, quello che gli aveva provvisoriamente arrubbato la moglie, e le sue quattro di mattina mica eran le mie, eran così serene che gli diceva “mi sa che mi manchi, mi sa che ti perdono, sono lieto che tu ti sia messo in mezzo”, che neanche nelle commedie francesi son così disinvolti – ma poi se sei cornuto e ci fai su la più bella canzone del mondo sei cornuto davvero? Leonard, grazie di tutto, ma soprattutto di quella frase sul quadernetto, quella su noialtri insonni che ci sentiamo superiori rispetto a quelli che dormono. Adesso quasi quasi prendo il telefono a rischio di svegliarmi del tutto, solo per controllare l’ultimo accesso WhatsApp di una qualunque delle amiche con cui facciamo a gara a chi s’è svegliata prima, sembriamo una replica di Quelo. E quella volta l’anno scorso che il mio editore mi stava raccontando delle stronzate su qualche inadempienza e io gli ho detto “ma tu lo sai a che ora mi sono svegliato io stamattina, alle sette meno un quarto, la bambina ha vomitato”, e lui ha detto “ma io non sapevo avessi figli”? Cioè io dico la gente che non sa a memoria Corrado Guzzanti cosa sa a memoria? La cavallina storna o neanche quella perché hanno i neuroni più bolliti dall’insonnia dei miei? Comunque è colpa mia che telefono, bisogna conversare solo per iscritto, così quando una, cioè io, ti dice una frase che non sai, la gugoli e bluffi, invece di farle venire il nervoso con la mole inaffrontabile delle cose che non sai. Che poi fossi almeno giovane, avessi l’età di quando non credi all’insonnia. Me la ricordo quella vacanza dei diciott’anni con cosa, lì, come si chiamava, la sorella di coso. Veniva fuori dalla sua cabina a mezzogiorno, facevamo in tempo a star facendo il bagno in prossimità d’un’altra isola rispetto a quella vicino alla quale avevamo dormito, si alzava a mezzogiorno e diceva che era insonne. E la me spietata diciottenne diceva è come mia madre, si fingono insonni ma quel che intendono è che dormono dalle tre a mezzogiorno, mica è insonnia, è andare a letto tardi. La me diciottenne pensava che, se ti alzavi alla tal ora, l’ora in cui ti eri addormentata fosse nove o dieci ore prima. La me diciottenne non sapeva un cazzo di niente, poggiava la testa sul cuscino e dormiva, priva d’inconscio come solo gli adolescenti e i bovini. La me diciottenne non lo sapeva che trent’anni dopo sarebbe stata qui a pensare che forse non c’è proprio tutto ’sto bisogno che vada a ’sta riunione, se mando una mail dicendo che c’è l’invasione delle cavallette sento che mi addormenterò e dormirò il sonno dei giusti fino all’ora di pranzo, come le domeniche del liceo. Quella volta del concerto di Amnesty International, quello al quale c’erano Springsteen e Baglioni, che quando mai più staranno su un palco assieme, quando avevo un treno per Torino all’ora di pranzo e la sveglia squillò a mezzogiorno e io pensai “ma col cazzo” e tornai a dormire, e il biglietto del concerto sta lì intonso, nelle mie scatole dei ricordi, trentatré anni dopo, col suo bravo talloncino mai strappato perché ero andata a letto tardi e mezzogiorno era traumaticamente presto. Mica come adesso, che se anche dormissi fino a mezzogiorno cosa sarebbero, sei ore? Mica come adesso che se non dico squilla la sveglia ma anche solo se quello del piano di sopra fa cadere una matita non mi riaddormento mai più e invece delle pecore conto i mali di cui devono morire, lui e la sua matita. Chissà che fine hanno fatto quelli dell’Angoscia del quarto piano, che una domenica mattina andai su alle nove urlando come una pazza furiosa che dovevano smetterla di spostare sedie, dovevano comprare dei feltrini per quelle cazzo di sedie, io era dalle tre che cercavo di riaddormentarmi e ora ci stavo quasi riuscendo e quelle loro cazzissime di sedie mi avevano svegliata e come avrebbe detto Katia Ricciarelli al pubblico della Scala dio vi maledica, e loro secondo me non avevano mica colto il riferimento ma mi avevano comunque fatto entrare con la calma serafica di Charles Boyer in Angoscia e mi avevano fatto vedere che nella stanza sopra la mia camera da letto non c’era niente, “non abbiamo sedie”, si è mai vista una casa senza sedie, non siete neppure giapponesi, non mi farò convincere che sono pazza come Ingrid Bergman, voi strisciate sedie, voi attentate al mio sonno, voi siete Guantanamo. Eppure un tempo dormivo persino in case in cui ci fossero altri esseri umani, persino sugli aerei, da piccola dicono persino sul pavimento del corridoio del treno, quando i treni avevano scompartimenti le cui porte si chiudevano e i tuoi genitori potevano non cagarti per l’intero Bologna-Termoli tanto tu dormivi per terra in corridoio, che oggi ti denuncerebbero per abbandono di minore o almeno per omissione d’intrattenimento del minore stesso. O forse è una leggenda famigliare, forse ero insonne anche allora e a forza di non dormire ho rimosso questo dato di realtà insieme ai confini dell’Umbria e a tutto quel che avrei dovuto imparare da piccola se solo avessi dormito evitando alla mia amigdala di sfrangiarsi. Vabbè, dai, do un’occhiata al display, tanto ormai. Ma come le sei e quaranta, avevo deciso di cominciare da stamattina ad andare a correre, adesso non faccio più in tempo prima delle riunione delle nove. Forse giusto se poi faccio solo doccia e no capelli. Ma non sarò troppo severa con me stessa, se non porto giù la spazzatura guadagno due minuti, tanto non fa più così caldo da bastare un giorno per farla marcire, e poi potrei rimettermi i vestiti di ieri che li trovo subito sul pavimento del bagno, senza perder tempo a esplorare gli armadi, e tutto sommato non c’è davvero davvero bisogno che mandi quell’articolo alle sette di mattina, dai, su, tanto dormono tutti, posso finire di scriverlo durante l’inutile riunione e va benissimo lo stesso, vedi che come al solito ho esagerato a pensare di dovermi svegliare così presto, anzi guarda, indulgenza, non mi strucco, tanto ormai il fondotinta è rimasto tutto sul cuscino, mica serve davvero lo struccante, è una truffa delle multinazionali dei cosmetici, sì, ecco, se neanche mi strucco magari mezz’oretta posso dormirla, così arrivo lucida e riposata, come si fa a mettere la sveglia tra mezz’ora su ’sto telefono, uh, guarda, ci sono gli sconti di Gap, controllo solo se c’è quel top che mi piaceva, ancora cinque minuti poi dormo.

Guia Soncini (Bologna, 1972), scrittrice. Ha pubblicato, tra gli altri, «I mariti delle altre» (Rizzoli, 2013, Premio Forte dei Marmi), «L’era della suscettibilità» (Marsilio, 2021) e «L’economia del sé» (Marsilio, 2022). Il suo ultimo libro è «Questi sono i 50» (Marsilio, 2023).