Cerca

Eccoti il sacchetto della salvezza

La Bestia è il treno lunghissimo, senza orari e senza stazioni, che dal Chiapas arriva al confine americano carico di migranti. Nel villaggio di Guadalupa las Patronas lanciano in corsa scatolette, acqua e pagnotte. È tutto pericoloso e rapidissimo, ma quando gli sguardi si incrociano cambia ogni cosa

Il suo latrato è l’avviso del suo passaggio. È un fischio poderoso, profondo e nel buio della notte sembra che debba ferirti la pelle. È la Bestia. Lo chiamano così, questo immenso treno merci di due chilometri di lunghezza, che dal Chiapas, dal sud del Messico, una o piu volte al giorno e senza orari definiti, arriva al confine con gli Stati Uniti, dopo sei giorni di viaggio. Ogni giorno sulla Bestia salgono decine o centinaia di migranti: stanno in piedi tra i vagoni oppure sul tetto, provengono soprattutto dall’America centrale o da alcuni paesi dall’America latina. Vogliono giungere al confine e chiedere asilo.

Se ci arriveranno.

Gli ostacoli sono tanti e pericolosi. Alcuni si addormentano e cadono, rischiando d’essere mutilati dal treno o di morire sul colpo. Alcuni vengono intercettati dalla polizia. Altri vengono sequestrati – e le donne violentate – dai narcos che controllano l’intera “filiera” dei flussi migratori e che pretenderanno una ricompensa, in soldi o in legittimazione. Altri ancora muoiono nel Rio Grande, o vengono rispediti indietro una volta arrivati al confine. Eppure, nonostante questo bagaglio immane di rischi, sono sempre di più gli indocumentados, come vengono anche chiamati i migranti, che giorno dopo giorno e anno dopo anno tentano di giungere in Texas, un passo oltre il confine, sul suolo americano. Si parla di mezzo milione di persone l’anno soltanto sulla Bestia. Ma ci sono anche tutti gli altri, quelli che il viaggio lo fanno a piedi o via mare.

La Bestia compare nelle fotografie, nei documentari, nei libri e nelle canzoni di chi ha raccontato questo flusso continuo di persone. Poi ci sono “las Patronas”, le contadine – a loro piace chiamarsi “comunità” – che vivono in una fattoria a una ventina di metri dal binario sul quale transita la Bestia. Si trovano a Guadalupa, un minuscolo villaggio a trecento chilometri a sud-est di Città del Messico, nello stato di Veracruz. Iniziarono per caso. Un giorno, tornando dalla spesa, Norma e Julia, le fondatrici della comunità, incontrarono due migranti lungo la strada (tra quelli che compiono il percorso di migliaia di chilometri a piedi) che chiedevano da bere e da mangiare. Diedero loro quel che avevano appena acquistato. Da allora quello slancio immediato e spontaneo di generosità è diventato un gesto quotidiano di volontariato o, come preferiscono dire las Patronas, di “umanità”. Non hanno più smesso. Nel tempo si sono unite a loro altre donne, amiche, parenti, ragazze del villaggio. Hanno cominciato a cucinare per sé stesse e per i migranti. Preparano dei sacchetti – che devono essere sempre pronti perché il treno può passare da un momento all’altro – con dentro quattro o cinque pagnotte e cibi salati in busta o in scatola. Altri sacchetti invece contengono i cibi dolci. I sacchetti sono controllati ogni giorno per assicurarsi che il cibo rimanga integro, e quando il latrato avvisa del passaggio del treno, si afferra tutto alla svelta, si corre al binario a lanciare o porgere cibo e bottiglie d’acqua. Il treno non si ferma, non c’è nessuna stazione. Avviene tutto in corsa. Negli anni, las Patronas hanno adattato due grossi stanzoni a dormitori, dove possono riposare i migranti che si buttano dal treno in corsa perché stanchissimi, e riprendere il viaggio uno o due giorni dopo gettandosi su uno qualunque dei treni successivi.

Ma perché si chiamano così? In Messico “las Patronas” sono le donne che incutono rispetto negli altri perché si prendono cura di persone che hanno bisogno di aiuto. Mi hanno dato la possibilità di trascorrere qualche giorno e qualche notte con loro. Ho ascoltato, domandato, fotografato, ripreso, aiutato a cucinare, e ho dormito assieme ai migranti. Al gruppo originale si sono aggiunte oggi tre volontarie: Tita, che è un’avvocatessa messicana qui da due anni, Jone e Maria, che arrivano dai Paesi Baschi. Sono giovani, capaci, intraprendenti, e corrono veloce.

Norma e Julia hanno invece un’altra età, sono appassionate e hanno un gran senso dell’umorismo – ho capito nel giro di poche ore quanto la loro ironia sia essenziale per stemperare la tensione che quel convoglio carico di vita e di mondi porta con sé, a ogni suo passaggio. In questi anni las Patronas hanno ricevuto molto aiuto, morale e materiale, ma anche molte critiche, e non sono mancate le minacce: il business delle migrazioni, per i mercanti di esseri umani, è uno dei più floridi al mondo.

Una sera Norma è arrivata a casa dopo la cena. Si è preparata una zuppa e si è seduta accanto a me, nella grande tavolata sotto al portico. Era stanca, sudata, quel giorno si erano toccati i 39 gradi. Norma è una donna vigorosa con cui si ride di gusto, è appassionata e sensibile, è in grado di percepire il disegno di ogni gesto, l’ipotesi di mondo che vi sta dietro. Qualcuno, mentre lei mescolava la zuppa col cucchiaio, le ha riportato l’ennesima critica giunta alle orecchie di una di loro. Stavo per domandarle come si sente, in questi momenti, ma non ce n’è stato bisogno. Stava già rispondendo, parlava alle ragazze spostando lo sguardo di tanto in tanto su me: «In questi anni quante cose abbiamo visto? Abbiamo visto persone morire, persone cadere, persone mutilate dal treno, bambini, donne violentate, donne incinte partite quando la gravidanza era iniziata da poche settimane perché non pensavano che il viaggio sarebbe durato mesi, qualcuna avrà partorito sulla Bestia o chissà dove, prima di arrivare, se mai saranno arrivate. Abbiamo ascoltato i sogni di persone su persone, li abbiamo visti viaggiare assieme a loro, abbiamo visto piangere, arrendersi, incamminarsi a piedi migliaia di fratelli. Noi da anni non facciamo altro che dare da mangiare, da bere e da dormire a persone come noi. Perché la terra che coltiviamo ci dà abbastanza per vivere. Ma la terra è di tutti, e allora proviamo a ricambiare. È la cosa più bella che abbia fatto nella mia vita. Alla nostra tavola non ci sono confini. Qua si parlano tutte le lingue che passano. E quindi, in quale punto del discorso sta il problema? Quale sarebbe stato mai questo problema? Va bene così. È a noi stesse che dovremo rispondere, tutte quante, prima o poi».

Fa buio.

Quando, uno a uno, tutti si sono ritirati, rimaniamo io e Tita. Il viso imperlato, si fa aria con un ventaglio. La stanchezza comincia a velarla. È lei che al mattino raccoglie i dati dei migranti, che ripete e spiega ogni giorno le regole, ferree, del posto. È lei che si occupa di una grande quantità di faccende. Le domando se non sia emotivamente stressante ciò che fanno. Risponde che le emozioni sono all’ordine del giorno, ma che mentre lavori non devi lasciarle prevalere. Quando sei sul binario e stai aiutando qualcuno a scendere (o a salire) dal treno, la mente deve essere preparata a ogni evenienza, devi poter prestare soccorso, chiamare un’ambulanza in pochi secondi, essere vigile. Mi racconta la storia di due ragazzini del Ghana. Avevano trovato riparo da loro per due notti. Non conoscevano una parola di spagnolo né di inglese. Nessuno era riuscito a capire neppure se fossero fratelli. Ripresero il viaggio in due giornate diverse. Il secondo ebbe un problema al momento di afferrare il convoglio. Mi racconta che l’istinto la stava portando a mettersi le mani sul viso. Ma non lo fece e cercò di sostenere il ragazzino, stando attenta, al contempo, a non farsi trascinare dal vagone.

Quando torni qui, dice, assieme alle altre, o sei a letto, capita di ridere o piangere per qualcosa di bello o di tragico che è capitato. Va bene così, è naturale, umano. Eppure, ribadisce anche lei, questi due anni sono i più belli che abbia vissuto.

La notte non chiudo occhio. In camerata non c’è un filo d’aria. Ogni tanto mi alzo e vado fuori, in giardino, dove i cani abbaiano nervosi, ma dove ogni tanto c’è un filo d’aria. Nella parte inferiore di uno dei letti a castello sto seduto a mettere insieme immagini e informazioni. Quella notte la Bestia passa tre volte. Il suo latrato è insopportabile, sembra sfondare la parete della camerata. Là sopra possono esserci delle persone, ma la notte non si esce, le regole sono chiare, è troppo pericoloso. Il cuore rimane in gola fino a che il treno non si allontana.

Apro la mappa del confine, cerco il disegno di sangue del Rio Grande: El Paso, Ciudad Juárez, Eagle Pass, Piedras Negras, Metamoros. Mi torna alla mente l’immagine dei salvadoregni Oscar Alberto Martinez e di sua figlia Angie Valeria, di due anni, riversi a faccia in giù nel fiume mentre tentavano quello che tentano milioni di esseri umani da millenni, di vivere di qualcosa di più. Metto gli auricolari e ascolto Matamoros Banks e The ghost of Tom Joad. Penso a Steinbeck, al finale immenso di Furore, mi faccio aria in viso con una mano, il caldo è un macigno. Si riaffaccia alla memoria la scritta sul muro di confine a Tijuana: «Anche da questa parte del muro abbiamo dei sogni». All’alba davanti ai bagni i migranti parlano tra loro, dei tempi del viaggio, delle città da cui sono partiti, di soldi, di quanto gli è stato chiesto da un trafficante, e di paura. Trovano sempre – non so come – lo spazio per una battuta. Sono tutti giovani o giovanissimi.

Secondo la Monmouth University, i paesi da cui proviene la maggior parte degli immigrati che sono entrati dal confine col Messico nel triennio 2020-23 sono: il Messico stesso (2.800.000), il Guatemala (895.200), l’Honduras (867.700) e il Venezuela (744.000). Le persone fermate dalla Customs and Border Protection al confine col Messico sono passate da 458.088 nel 2020 a 2.542.074 nel 2023. E le cifre, a livello globale, non potranno che aumentare. In tutti questi gruppi sono compresi anche i migranti africani. Già, perché le cosiddette rotte dei migranti divengono giorno dopo giorno più sterminate, e spaventose. Qualche giorno prima, sulla costa del Pacifico, all’altezza di Oaxaca, sono stati trovati otto cadaveri (sette donne e un uomo) di nazionalità cinese che tentavano anche loro di risalire il Messico, compiendo una circumnavigazione quasi illogica. Negli ultimi mesi, è aumentato sensibilmente il flusso di migranti africani che tentano la rotta sudamericana per entrare negli Stati Uniti e chiedere asilo (58 mila solo nel 2023). Subito si è oliato il sistema dei trafficanti di esseri umani che in Nord Africa da qualche tempo pubblicizza voli per il Nicaragua, l’Honduras e il Messico. Il Nicaragua, per esempio, ora rilascia ai migranti africani un permesso di soggiorno temporaneo per entrare e proseguire da lì il viaggio per gli Stati Uniti. Attraversare il Mediterraneo può costare duemila euro (o molto più), e sono in tanti ormai a ritenerlo più pericoloso, soprattutto da quando i governi europei si sono messi a firmare memorandum d’intesa con la Libia, e più recentemente con la Tunisia, finanziando, di fatto, campi di concentramento dove quotidianamente ci sono torture, stupri e violazioni dei diritti umani.

A proposito di questi sistemi di “gestione” dei flussi, si parla di «esternalizzazione delle frontiere». È un metodo che l’Unione europea adotta da molti anni e che gli Stati Uniti hanno iniziato a utilizzare più di recente, anche se in maniera più rudimentale. Per fare un esempio, con il presidente Joe Biden alla Casa Bianca, Greg Abbott, il governatore del Texas, ha deciso di «portare la frontiera» al nord, nelle città che lui ritiene liberal, che fanno politiche di accoglienza, come New York, Chicago e altre. A New York sono arrivati 180 mila richiedenti asilo negli ultimi due anni trasportati su autobus pagati dallo stesso Abbott. Moltissimi sono stati accolti, per un numero limitato di giorni, a Randall’s, un’isola nella parte nord dell’East River. Ma la situazione è a rischio collasso. Fino a quando i governanti, e con loro le opinioni pubbliche, potranno permettersi di affrontare l’immensa e millenaria questione delle migrazioni come un fatto di ordine pubblico, di gioco elettorale, di sciatto scontro razziale, anziché prendere atto, con uno scarto etico e storico enorme, della complessità e della irrimediabilità di una epopea che è parte integrante, fondante, del nostro stare al mondo?

L’ultima immagine che ricordo della ferrovia è quella di un ragazzo solo, con il cappellino messo al contrario e lo zaino: è sul binario ma va a piedi, per chissà quanti chilometri, mentre la Bestia lo precede e si allontana. I nostri occhi si erano incrociati poco prima. Voleva dirmi qualcosa, forse chiedermi qualcosa. Poi il trambusto del treno, il lancio dei sacchetti, le mani tese. Quando mi sono voltato aveva ripreso a camminare. So, anche questo lo ricordo bene, che non avrei saputo cosa rispondergli.

Cristiano Denanni (Torino, 1975), insegnante, reporter e fotografo. Ha pubblicato il romanzo «L’atlante dei destini» (Autori Riuniti, 2018).