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Ehi tu, cattiva madre, lo gireremo il mondo?

Faccio del mio meglio, nonostante il mio peggio. Ma insieme alla bellezza e alla speranza ci sono anche rabbia, lockdown, troppi calzini, e sempre la paura. A testa in giù nel tempo della maternità, cioè nel paese delle creature selvagge

“E tutto è sempre ora”.

T.S. Eliot, “La terra desolata”,

Quattro Quartetti

Mi sono resa conto per la prima volta che davvero desideravo un figlio mentre vedevo un film. Era il 2009, avevo 39 anni – era già troppo tardi? Il film era Nel paese delle creature selvagge capolavoro incompreso di Spike Jonze tratto dal libro culto di Maurice Sendak. La scena che mi aveva portato a ebollizione il cuore era quella della madre che è alla scrivania e deve lavorare, e il suo bambino, Max, sta sotto, sdraiato a terra a giocare in uno dei rari momenti di calma, allora la madre gli chiede di aiutarla a raccontare e cominciano una storia, insieme. Era vorticoso: davvero avrei potuto avere un compagno di giochi che comprendesse ciò che sentivo fino in fondo perché era una parte di me, generata da me? Certo, ciò che è generato da te ti appartiene un po’, col suo patrimonio genetico smezzato con un altro, ma appartiene prima a se stesso, con la sua individualità incoercibile che si incontra e scontra con la tua. Ho desiderato con forza e il desiderio ha fatto presto ad avverarsi. Non avevo calcolato che, siccome l’immaginazione e il desiderio contribuiscono a creare il mondo, stavo creando il futuro e nel mio futuro, come credo in quello di tutti i genitori, ci sarebbero state la bellezza, la speranza, ma anche le creature selvagge: paura, rabbia, senso di inadeguatezza. Da allora ho inventato e arredato case, vite possibili, giornate, ho costruito teatrini di cartone, ritagliato scatole di pandoro per fare maschere e corone, ho scelto e comprato vestiti, pupazzi, scarpine poi scarpe, ho disegnato, scritto poesie e inizi di fiabe, ho raccontato storie, pensato a gite, viaggi, vacanze, piccole cose belle di quelle che illuminano di una scintilla i giorni e naturalmente ho fatto anche tantissimi errori. Ho dilapidato e continuo a dilapidare il tempo che avevo e che ho e quello che non avevo e che non ho. Ho parlato troppo e troppo poco. Ho fatto del mio meglio, continuo a farlo, continuerò a farlo, nonostante il mio peggio. Delle volte mio figlio mi apostrofa, sollevando un sopracciglio, “Ehi tu, cattiva madre”, poi si mette a ridere e corre ad abbracciarmi. “Scherzavo,” mi dice, “sei la migliore”. Sono l’unica che ha, in effetti. Sono cattiva? Buona? Sufficiente? Sono una giocoliera del tempo, come tutte le madri e tutti i padri. A volte, da anni, io e lui discutiamo per iscritto. Conservo rotoli di invettive in due calligrafie diverse, botta e risposta di parolacce storpiate, discorsi serissimi e caricature: rabbie che così prendono una forma che riusciamo a controllare e che ci permettono di riderne, subito dopo.

È complicato da far comprendere a un bambino che mestiere fai se non è qualcosa che impiega il corpo e che è facile da vedere e interpretare. Io leggo, scrivo, traduco e insegno ad altre e altri a trovare vie per raccontare delle storie che hanno in mente. È un mestiere fragile che ha bisogno di tempi dilatati, lunghe ore di vuoto per arrivare al dunque: anche scrivere un pezzo di cinquemila battute può richiedere un tempo che un lettore esterno non riesce forse a immaginare. È un tempo che sottrai alla vita quotidiana, alle relazioni e anche a te stesso. La grande scrittrice americana Shirley Jackson diceva di scrivere mentalmente per tutto il tempo anche quando cucinava, faceva la spesa, lavava panni sporchi, portava i figli a scuola e andava a riprenderli: è così, chi scrive non smette mai di scrivere, nella testa, poi però bisogna sedersi e metterle nero su bianco da qualche parte, quelle parole, farle diventare tot numero di battute e farlo mentre qualcuno ha bisogno di mangiare, bere, chiacchierare, giocare, uscire, non è facile. Tu sei lì, non sei altrove, il tuo tempo e il tuo spazio non sono garantiti dal fatto che sali su una macchina o su un mezzo di trasporto pubblico e vai da un’altra parte a fare quello che devi per garantirti la sopravvivenza.

Abbiamo vissuto per mesi in apnea, gli schermi accesi, le paure condivise, e anche chi magari era abituato a stare sempre fuori si è reso conto di cosa significhi stare a casa, sempre, anche quando devi lavorare. Sei lì, seduto a un tavolo, come fai a far capire che no, non puoi farlo domani, il momento è questo, questo nel quale mi chiedi un uovo alla coque nella terza pausa merenda della Dad.

Il mio tempo anche prima era convulso e da due anni a questa parte è diventato ancora più complicato. Fare la spesa, cucinare, rassettare, raccogliere mutande e calzini, rispettare le scadenze e dunque lavorare, lottare contro l’entropia che si impadronisce di ogni spazio abitato dai bambini con il rimpianto di non aver saputo neanche conservare il barattolo con i denti da latte sottratti alla fatina. L’altro giorno, per caso, aprendo un cassetto, me ne sono fioriti in mano due. I piccoli sopravvissuti all’andirivieni di oggetti che vengono trascinati dalla marea e si depositano a riva con la risacca a distanza di settimane, o mesi, quando già li avevi dati per persi. A volte penso che potrei seppellirli nel giardino delle rose dove abbiamo passato le ore migliori del secondo lockdown, per essere certa che restino in un posto e non si muovano più, almeno loro.

Non ho segnato da nessuna parte il giorno esatto del 2020 in cui per la prima volta tutti i libri sono stati gettati dentro gli zaini e mandati fuori dalla scuola insieme ai bambini. Le aule dovevano essere sanificate ogni giorno, non era più possibile avere un armadietto di classe che contenesse i libri di testo, i manualetti di ripasso, le appendici delle appendici delle appendici: arte, inglese, religione, scienze, storia, geografia, tutti bravi in questo o quello, la scorta con i quaderni nuovi di ricambio, le cartelline di plastica colorate. Sono stati i giorni in cui d’un colpo abbiamo dovuto rivedere gesti quotidiani che parevano scontati e adattarci a un nuovo modo di esistere, resistere, per sopravvivere.

Nel frattempo abbiamo quasi tutti un po’ perso

il senso del tempo, anziani, adulti e bambini, e forse per i bambini è abbastanza normale, con due lockdown alle spalle, mesi di Dad, io invece di anni ne ho di più, e chissà, forse è abbastanza normale anche nel mio caso che cominci a perdere dei colpi. Non ho tenuto diari, nella convulsione dei giorni, né segnato sull’agenda questi eventi. Non lo facevo più da tanto tempo, in effetti; anche prima di questi due anni inconcepibili ricordo di aver osservato con invidia le altre donne che viaggiavano da sole, le volte che mi capitava di salire sui treni per correre da qualche parte per lavoro – sempre col fiato in gola, il senso di colpa e la testa fissa a quando sarei rientrata in casa. Quelle donne che sbirciavo in treno, secondo la mia visione distorta dalla stanchezza, non avevano figli piccoli. Lo presumevo perché non avevano la faccia ansiosa, nessun baffo o sopracciglio sfuggito allo strappo frettoloso dell’ultimo minuto mentre rigiri una frittata, cambi un pannolino o cerchi di pulire il pavimento dove si è ribaltata una poltiglia di qualcosa, meglio non chiedersi cosa. Quelle donne invidiabili avevano il bagno pulito, le borse e i portafogli in ordine perfetto, sfogliavano riviste di moda o di cucina con unghie limate e laccate e le pellicine sotto controllo. Scrivevano con calma appunti sulle agende. Ricordavano le date, avevano appuntamenti con la parrucchiere e con l’estetista. Non avevano paura, mi dicevo. Condizione esistenziale perenne quando si è genitori, soprattutto madri, credo, forse sbaglio, e soprattutto primipare attempate e ansiose come io lo sono stata, e sono, figuriamoci ora.

Quando all’inizio del settembre scorso sono andata a ritirare i libri di quarta elementare alla cartoleria Bice di Budrio, dove ce li fanno trovare già fasciati con la plastica protettiva trasparente pronti per essere messi nello zaino (senza quel tempo che io ricordo sghembo ma divertente a casa, con mia madre, sul tavolo di cucina, tra forbici, colla, scotch e pasticci) ho avuto uno scoramento profondo, ma così profondo che non riesco a trovare un altro aggettivo. Profondo e basta, profondo come una voragine generata dal peso di quei libri tutti insieme. Io poveretta, con le mie vertebre cervicali malmesse sarei stata schiacciata. Già, i libri, ma anche i quaderni, le penne, le matite, le gomme, l’astuccio, la squadra, il righello. Mi sono afflosciata in macchina insieme alla sporta trascinata a fatica dalla viuzza dove sta la cartoleria alla piazza centrale del paese dove avevo parcheggiato. Sono rimasta lì seduta, la testa un po’ anche al disco orario in scadenza – lo sai che i vigili non sono buoni! – a compiangermi e a rimuginare. Quella mole indecente di testi scolastici: venticinque, trenta, trentacinque, quanti erano davvero? Li avevamo contati, sbalorditi, poi anche il numero esatto è stato inghiottito e dimenticato nella foga dei giorni. Era l’inizio di settembre e no, non sarebbe accaduto di nuovo, non poteva accadere: quest’anno loro sarebbero rimasti buoni nell’armadietto di classe. Già quei volumi avrebbero dovuto essere sommati a quelli per lo studio del pianoforte e tutti quanti avrebbero dovuto ricominciare il loro peregrinare tra due case e una scuola. Avanti e indietro sui tavoli di due cucine, due camerette, due studi, sul tavolo di un soggiorno e su un banco di scuola. E ogni giorno poi, rifarlo, quello zaino, di qua e di là e che non manchi niente: la merenda nel suo sacchetto – a proposito, erano belli, i sacchetti che avevo preparato: di stoffa, uno con le ciliegie rosse ricamate, dove sono finiti? Mangiati da una lavatrice e mai più restituiti alla vita quotidiana delle cose che ti servono, che devono essere usate – la borraccia, le mascherine di ricambio, il gel disinfettante, i fazzoletti, la sciarpa e il cappello. Questa marea di oggetti vaganti, imprendibili, dispettosi, minacciosi, anzi proprio cattivi, ai quali ora si aggiungevano i libri. E un giorno, nel novembre scorso, i libri sono stati ricacciati nello zaino, tutti, e sono tornati a viaggiare.

È nel tempo vorticoso e insieme immobile del primo lockdown 2020 che abbiamo capito quanto una dimensione quotidiana che davamo per scontata ci è esplosa in faccia con tutte le contraddizioni, il represso, il non detto, il mai affrontato di prima. Le rappresaglie mute talvolta sono diventate un’ostilità aperta, uno squarcio. Questi due anni hanno messo alla prova tutte le famiglie che conosco, alcune si sono rafforzate, altre resistono a denti stretti, alcune si sono spezzate.

Penso che tutti i bambini vorrebbero vedere i genitori felici insieme, presenti, sempre con la barra del timone dritta, e invece capitano periodi in cui questo non è possibile. Magari i genitori non ci sono entrambi, magari una volta c’è uno e l’altro no. Ciascuno fa ciò che può, per come è, con quel che ha. Arrivati a questo punto di confusione quotidiana non possiamo fare molto altro che vivere nel qui ed ora, senza troppi progetti a lunga scadenza: si andrà a scuola domani? Sei positivo? Quanto dura la quarantena? La data per il prossimo tampone che ti permetterà di uscire di casa è disponibile tra quindici giorni, clic. Ho visto, fuori da scuola, in questo autunno-inverno da dimenticare, nonne e nonni invecchiati di botto che pur di arrivare in tempo all’uscita a prendere i nipoti avevano i calzini arrotolati e la maglia della salute fuori dalla cintura dei pantaloni, pullover al contrario e buste della spesa coi buchi, borse sotto gli occhi, zampe di gallina, doppio mento, i difetti che la mascherina rende ancora più evidenti e deforma, tutta gente spinta a calci in una nuova era. Le madri, la mattina, non sono più proprio tutte perfette e i padri neanche. Alcuni fanno finta di niente, e non so più distinguere se sono solo io a percepire quest’angoscia tremenda per il futuro, se tutti gli altri sono più bravi a recitare, oppure se non si fanno troppe domande per non soccombere. Spesso gli adulti non sono più forti dei bambini, e forse è vero che gli adulti dovrebbero essere i bambini dei bambini, come mi ha scritto mio figlio nella lettera di Natale. Abbiamo molto da imparare ancora, in questo mondo complicato in cui ci capita di crescere e invecchiare, insomma, di vivere. Un ritorno al tempo di prima è impossibile.

Guardo mio figlio con la sua mascherina stampata in faccia, mi sono abituata a riconoscere la sua espressione anche così, e penso che è un continuo rinascere madri e padri e figli, non c’è fine, non ci si può esimere, nonostante le promesse che noi non abbiamo mantenuto e neanche il mondo con noi.

Una ragazza che conosco da quando era bambina, poco prima della fine dell’anno ha attraversato il mondo due volte in una settimana, la prima per tornare a casa in occasione delle festività natalizie e la seconda per rientrare al college dove sta frequentando la quarta superiore come Exchange Student. Suo padre seguiva sul cellulare la rotta dell’aereo sopra l’Oceano Atlantico. Il tampone molecolare era risultato negativo, era potuta partire, il viaggio era andato bene. Doveva e voleva arrivare, era arrivata, questo è l’importante, adesso: tocca terra, ragazza. Tocchiamo terra, dove si può. Come si può. Pochi giorni prima, io e mio figlio avevamo viaggiato dal Congo al Canada sdraiati sul letto, due mappamondi che frullavano sotto i polpastrelli, plastica argentoblu e carta consunta in quello vintage di mio padre: “il nonno lo usava a scuola?” ,“non ricordo, può darsi”. Così avevo pensato a quale mondo immaginavano e quale hanno visto quelli che adesso sono vecchi, e che mondo invece immaginiamo ora noi spostando l’indice dal Dominio Cinese alla Cazacchia, e quale vedremo, domani. Menomale, la Groenlandia qui sul vecchio mappamondo ancora non s’è sciolta e gli oceani si chiamano allo stesso modo, vola vola aeroplanino attorno al globo. Lo gireremo il mondo? Intanto, lo abbiamo fatto senza muoverci da casa. I veri luoghi, scriveva Herman Melville, a proposito di una certa isola, non ci sono mai. E intendeva dire che non sono segnati nelle mappe, per trovarli bisogna molto viaggiare e faticare, come per arrivare in quelle città sognate insieme che sono fatte di ore. Le ore del tempo, che non è niente ed è tutto ed è sempre né ieri né domani, ma ora.

(Copyright Agenzia Letteraria Santachiara)

Simona Vinci (Milano, 1970), scrittrice e traduttrice. Ha pubblicato per Einaudi, tra gli altri, “Dei bambini non si sa niente” (1997), “In tutti i sensi come l’amore” (1999), “Come prima delle madri” (2003), “Rovina” (2007), “La prima verità” (2016, con cui ha vinto il Premio Campiello) e “Parla, mia paura” (2017). Per Marsilio nel 2019 ha scritto “Mai più sola nel bosco. Dentro le fiabe dei Fratelli Grimm”. Il suo ultimo romanzo è “L’altra casa” (Einaudi, 2021).