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Fino al polo nord

La domanda di una ginecologa: ha sentito parlare di madri mostruose? Con la richiesta di aborto in mano e un desiderio nella pancia. Prima e dopo la grande spinta della meteora, una donna tutta intera

Nella vita, l’argomento maternità si affronta sempre all’improvviso e non è mai facile. Non lo è, ma si finge che sia la cosa più naturale del mondo. E paradossalmente lo è la cosa più naturale del mondo. Ma l’evoluzione/involuzione degli umani e del mondo fa sì che tante siano le ragioni per le quali essere madre sia sempre meno una cosa così naturale come vorremmo. Basterebbe desiderarlo. E il problema è questo. Almeno così mi disse un giorno una ginecologa illuminata (mai sposata e senza figli) quando mi presentai da lei con il risultato inconfutabile (linea rosa in evidenza su un diverso termometro) di essere incinta. Le dissi che l’avevo voluto, ma che era arrivato subito, e la cosa mi trovava impreparata. Scoppiò a ridere e mi rispose che era normalissimo. Non è facile decidere di voler un figlio e restare incinta pochi giorni dopo, si sarebbe sorpresa se il mio atteggiamento fosse stato diverso. E poi si mise a scrivere. Abbassò la testa e non si occupò più di me fino a che non terminò. Poi mi disse: “Qui c’è la richiesta di aborto”. “Non gliel’ho chiesta”, le risposi. “Certo, ma dato che non si aspettava di restare incinta così presto, che so, magari non si sente preparata e ci vuole ripensare”.

La guardai interrogativa e lei si mise a ridere di nuovo. E poi cominciò a spiegarmi la sua teoria. Mi disse che le madri più a rischio erano quelle che prima di restare incinte si erano sottoposte alle più atroci torture, e che il fatto di metterci tanto tempo facesse sì che il restare incinta fosse il traguardo definitivo, non diventare madri. La gravidanza era il centro, non quello che sarebbe accaduto dopo e avrebbe continuato ad accadere per la durata di una vita intera. Insomma, il centro era avere una pancia che cresceva, non che a un certo punto si svuotasse. Secondo lei, era anche probabile che il profondo desiderio di maternità nascesse addirittura dalla consapevolezza di non poter avere figli. Da una strana incompletezza del destino. Sì, perché ancora oggi e “per sempre” disse, una donna che non è madre è considerata una donna a metà. E allora il desiderio di esserlo può nascere proprio da questo voler essere una donna intera. Che non voleva dire proprio per forza desiderare un figlio.

E intanto che l’ascoltavo, davanti a me, sulla scrivania, c’era quella richiesta di aborto preventivo, così, nel caso ci avessi ripensato, perché visto che era stato così facile potevo riprovarci in un altro momento, quando fossi stata più sicura di volere questo figlio che era arrivato tanto in fretta. Guardavo quell’anodino foglio e guardavo lei che mi osservava, sempre sorridendo. Mi chiese perché volevo un figlio. Le dissi che non le sapevo rispondere. Era una domanda difficile. Poi azzardai a parlare di accudimento e le dissi dei miei cani. Non se ne stupì. Anzi, mi esortò a parlarne molto, mi chiese quanto contassero per me, cosa ero disposta a fare per loro. A chi li lasciavo quando andavo in vacanza? Perché avevo deciso di prenderne prima uno e poi addirittura un altro? E io continuavo a non saper cosa rispondere, tranne che i cani mi erano sempre piaciuti fin da bambina. Anzi, ero proprio nata in una casa nella quale c’erano un pastore tedesco e un cocker, e anche due colombe che giravano libere e spesso mi dormivano sulle spalle. Oppure non dormivano affatto, si divertivano a camminare con me, sempre sulle mie spalle, e a seconda dei miei passi aprivano o chiudevano le ali. Mi chiese se lo facevano per proteggere loro stesse o per proteggere il mio equilibrio. E ancora una volta dissi che non lo sapevo. Mi chiese se quei cani li avrei ripresi. E questo sì, lo sapevo, li avrei ripresi eccome. Anzi, se me li avessero portati via sarei andata a riprendermeli a piedi fino al polo nord. Ricordo perfettamente di averle risposto proprio così e che lei ha ripetuto a bassa voce: fino al polo nord. E poi mi ha chiesto: “Ci andrebbe anche per un figlio?”. Ho allargato le braccia e le ho risposto che se ero disposta a farlo per i miei cani, figuriamoci per un figlio. Ma non ho fatto in tempo a farmi ricadere le braccia addosso che mi ha detto: “Non ha mai sentito parlare di madri mostruose?”. Sono rimasta lì a guardarla, e lei è andata avanti chiedendomi se leggevo almeno ogni tanto un giornale, perché sui giornali, in cronaca nera, c’era scritto quello che a volte le madri facevano ai figli. E io sì, i giornali li compravo, e quelle cose orrende le avevo lette. Però come ogni fatto di cronaca, “ché sono tutti mostruosi, no?”. Ma nel momento in cui lo dicevo mi rendevo conto che in quei casi c’era qualcosa di diverso, di più mostruoso…O di diversamente mostruoso. Per me, davvero mostruoso era uccidere la madre, colei che la vita l’aveva data. Però era vero, darla e toglierla era altrettanto mostruoso, anche perché avere il potere di dare vita dovrebbe includere l’incapacità di poterla togliere. Almeno non a chi l’abbiamo data.

“Ci pensi”, mi disse congedandomi. E io me ne andai da quello studio assai confusa, con quella richiesta di aborto in mano. E tutta quella mostruosità nelle orecchie, ma solo un assaggio, perché era stata giusto nominata, non mi aveva fatto esempi. Quelli me li andai a cercare io già mentre scendevo le scale. Me ne vennero in mente un paio. E il giorno dopo, appena sveglia, andai direttamente all’ospedale San Giovanni con quella richiesta in mano, presi il numeretto, mi misi seduta su una panca di formica insieme ad altre donne e quando arrivò il mio turno dissi al medico che ero lì per prenotare l’aborto. Non mi chiese nulla. Solo mi diede un altro foglio con il quale mi dava appuntamento per il 29 di luglio e mi raccomandava di andare a stomaco vuoto, struccata e senza smalto sulle unghie. Mi aspettavo che mi domandasse perché volevo farlo, e invece niente, e così, uscendo me lo chiesi io e mi risposi che se per caso avessi avuto anche una sola possibilità su un miliardo di diventare una mostruosa madre…beh, allora tanto valeva che lo avessi eliminato subito il futuro figlio. Ecco, non che volessi proprio abortire, ma intanto me ne tornavo a casa con quel foglio ripiegato in tasca a memento. A memento di che? Mi ripetevo: a memento. E basta.

Strano, dal giorno in cui avevo scoperto di essere incinta, i miei cani mi trattavano diversamente. Quando tornavo a casa le loro feste erano più pacate, zampe sulla pancia non me ne mettevano, anzi, spesso la odoravano. Due settimane dopo dovevo andare in Francia in macchina per una breve vacanza, telefonai alla ginecologa e le chiesi se era rischioso fare tanti chilometri. Mi rispose che poteva esserlo come no. Che in genere, se stavo attenta, e se “la creatura si era attaccata bene”, non succedeva nulla. Sentì la perplessità nel mio silenzio, intuì e mi disse: “Così lascia decidere il destino”.

Mi stavo un po’ stancando di questo suo atteggiamento. Le avevo solo detto che ero impreparata. Era tanto difficile capirlo? I tempi erano cambiati. Mancavano le sicurezze economiche. Lavoravo tanto, andavo anche tutti i giorni fuori Roma in macchina, scrivevo libri, traducevo. Eppure non navigavo nell’oro, e il padre di mio figlio non viveva nemmeno a Roma e nemmeno mia madre. Sarei stata molto sola dopo il parto. Era tutta una questione sul sapersela cavare o meno. Non succede per tutte le cose nuove che dobbiamo affrontare? E un figlio nella pancia non era forse una cosa vecchia come il mondo ma nuovissima per ogni donna che la affrontava? Mi sembrava quasi che quella dottoressa volesse mettermi alle strette. Era un gioco? Una provocazione?

Una sera, seduta in giardino a guardare il mare dalla casetta affittata a Saint-Guénolé, pensai che mi sarebbe andata una sigaretta ma dato che ero incinta non potevo fumarla. Fu allora che andai in camera da letto e da una tasca della valigia tirai fuori quell’appuntamento per il 29 luglio e lo strappai.

Non cambiarono le cose, consapevolezze nuove non potevo averne, ma avevo accettato l’epopea, il nuovo corso. E lo facevo con lo spirito migliore, quello dell’avventura. Mi dissi che su questo non avevo dubbi, ero un tipo abbastanza avventuroso e di fronte a una simile, egiziaca incognita non mi sarei tirata indietro. Per mestiere scrivo, e chi scrive ama raccontare due cose: quelle che sa e quelle che vorrebbe sapere. E pensai che questa volta a scrivere sarebbe stato il mio corpo, ma che poi di tutte le sensazioni provate, chissà, magari un giorno avrei fatto carta.

Tornata a Roma, cominciai a leggere con altri occhi quei fatti di cronaca terribili e mostruosi. Mi scuotevano, mi rendevano apprensiva perché facevano proprio parte delle cose che chi scrive non sa ma vorrebbe almeno capire. In quale punto del cervello potevano andare a finire certi prolungati pianti notturni di un bambino? Cosa significava vedere il proprio corpo sformarsi senza avere la certezza che sarebbe tornato come prima? E la vita, quanto sarebbe cambiata? Faceva paura? C’era forse chi poteva essere madre e chi avrebbe fatto meglio a evitarlo? La maternità non era una questione di biologia, era un’altra cosa. Ma cosa? Quando la pancia cominciò a crescere, mi dissi che non l’avrei saputo mai. Mi abbandonai solo all’attaccamento, alla forza fisica che mi si stava raddoppiando, ai capelli che si infoltivano, alle unghie che si indurivano.

Mio figlio Rolando nacque come una meteora. Spingevo e non succedeva nulla, allora ci fu una spinta maggiore e con tanta di quella forza che le mani dell’ostetrica si sollevarono facendo come un arco. “Che è successo?” le chiesi. “L’hai fatto!” mi rispose. E poi me lo mise addosso ancora sporco e urlante. E io gli diedi un bacio nel buio vuoto di quella bocca spalancata. Era successo, avrebbe continuato ad accadere. Non avrei mai avuto la depressione post parto. Ne ebbi la certezza perché mi stavo proprio divertendo. Però volevo capirla. Ci doveva essere qualcosa che succedeva dopo e andava storto. O che succedeva prima e non si capiva in tempo. Nessuna donna, però, era mai a metà. Madri o non madri le donne erano sempre tutte intere. Su questo non avevo avuto dubbi prima e avrei continuato a non averne. Pur nella gioia, in quella magnifica avventura della quale, lo ammetto, un minuto dopo che era nato mio figlio non avrei mai più potuto fare a meno. La ginecologa lo sa e continuerà a saperlo.

Romana Petri (Roma, 1965), scrittrice e traduttrice. I suoi ultimi libri sono “La rappresentazione” (Mondadori, 2021) e “Mostruosa maternità” (Giulio Perrone Editore), ora in libreria.