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Fuori, la festa. Dentro, la febbre

La voglia pazza di andare tra la gente, di essere una persona che parla: essere adeguata. Poi i mesi di malattia e di assenza. Pretese di onnipotenza o sollievo di stare in disparte: le grandi scrittrici che hanno detto no al mondo. Sono diventate più forti nei libri grazie alla loro debolezza? La fragilità che spazza via tutto, tranne Shakespeare e noi

Quando si è bambini è facile essere presi e spostati, fatti sentire compatti e solidi, come valigette, come borse per la palestra. I grandi sempre possono arrivare e muoverti, scegliere dove portarti e spesso decidono di rompere i tuoi idilli, le tue piccole soddisfazioni. Mentre giochi, per esempio, e hai gli occhi illuminati dalla corsa, dalle navicelle spaziali, dalle altalene e loro usano il richiamo alle cose comuni, ai pasti, alle incombenze. Basta un: vieni via; per rompere tutto. Eppure, gli altri sono ancora lì. Il cerchio magico dei bambini restanti che continuano il gioco, che tu hai dovuto abbandonare. Con gli occhi acquosi fissi le giostre farsi liquide e le luci tremare, intanto le grida degli altri s’alzano alte, sembrano persino più alte di prima, come a voler intonare la gioia dell’essere rimasti e motivare l’invidia, il dolore. Il rumore dei giochi che siamo costretti a lasciare, “i suoni della festa struggenti come una giostra che si ode in lontananza”, così Virginia Woolf minuziosamente descrive la posizione del fragile e del malato, rispetto al resto del mondo. Fuori le luci, gli specchi, le alte voci, dentro la febbre, la tosse, la malinconia, l’impotenza. Una condizione che alcuni vivono per pochi giorni, che altri invece accolgono nella loro vita, diventano i sedentari e gli esclusi, sentono nei corridoi muoversi i passi d’altri e tendono le orecchie: se il fuori esiste è perché è vivo.

Da quando la scrittura per me è diventata un fatto serio e di vita, la vita ha cominciato a perdere pezzi, una persona qui, l’altra là, un progetto qui e un incontro là, chi resta di solito è un personaggio e posso scriverlo e riscriverlo quanto voglio, gli cancello i capelli e poi le gambe, gli tolgo un dente e una vergogna.

Ho fatto una cronologia breve della me che scrive e ho notato con facilità che a ogni libro pubblicato, a ogni nuova esposizione in libreria è arrivata una malattia, un malanno vero, finto, immaginato, doloroso, tragico, debilitante. Prima gli svenimenti e il sangue dal naso, poi l’incapacità di stare sotto al sole, prima i giramenti di testa e poi i dolori alle gambe: la letteratura è tutta mente, dice Woolf, ma “il corpo interviene giorno e notte”. Su questa linea io procedo a fisarmonica, aperta e chiusa e poi chiusa e aperta, se sto troppo nel mondo mi brucio e ho dolore, se mi ritiro troppo mi sento come quel bambino, gli altri sono fuori a giocare pazzamente e io? Così giovane e così ferma, io funziono male, sono a metà.

Quando stiamo male pensiamo d’essere gli unici a provare quel male, e sentiamo premere da fuori ciò a cui non riusciamo ad arrivare, le cose facili per gli altri, che passeggiano, viaggiano, ballano, stappano tre bottiglie di rosso da tavola.

Mi è capitato, quando ho chiesto ai bambini chi è secondo loro una persona che scrive di ricevere sempre le stesse risposte: chi scrive sta nel bosco, chi scrive sta in campagna, chi scrive sta molto da solo, chi scrive è un eremita felice, chi scrive è giustificato se è sempre assente perché l’assenza gli appartiene. Ma poi lasciando da parte i bambini – come spesso ci tocca fare – ecco la verità di cosa vuole dire scrivere oggi e allora la necessità di spiegare a chi non lo sa che i libri vanno scritti e poi vanno portati a giro, come i cani incontinenti, in tutti i giardini a battezzare, radice per radice, tombino per tombino, fino all’ultima goccia.

All’inizio, il primo libro, i primi mesi, mi ha investita la voglia pazza di girare e girare, attraversare l’Italia tutta, incontrare chiunque volesse ascoltarmi, in qualsiasi luogo, non importava più cosa avevo scritto ma come ne sapevo parlare. Volevo a tutti i costi farmi notare, risultare adeguata, così una volta usciti dalla libreria, con lo scontrino in mano, tornando a casa con il mio libro nella borsa si sarebbero detti – forse due amanti – che bella serata è stata, a sentire parlare quella Giulia Caminito, quella che vorrebbe farsi chiamare scrittrice.

E poi c’è il fatto che ti sembra una missione quella di parlare di libri, di visitare tutti gli altri che parlano di libri per non farci sentire che questi libri valgono sempre meno tra chi è più numeroso e più potente, e quindi almeno tra noi ha senso vedersi, stringersi le mani, dirsi tutto.

Ma a lungo andare ti pare che il libro quasi non esista più, che ci siano solo i tuoi discorsi sul tuo libro e le domande sul tuo libro e i commenti sul tuo libro. A un incontro sul mio secondo romanzo un signore si alzò e disse che c’era un errore, i fatti di Villa Rossa, come io li avevo chiamati, erano i fatti di un’altra Villa; quindi, tutta la mia parabola della Casa dei repubblicani dove si trovavano anarchici e socialisti e i due ragazzi sparati, ecco non era avvenuta là. E io mi sono sentita colpevolissima, subito, ho risposto che pensavo di avere ragione, ma dentro sentivo d’aver dimenticato tutto, il libro era di qualcun altro, forse del signore, forse di nessuno: il libro era sparito.

E così anche tu non ti senti più una persona che scrive, ma una persona che parla e che gira e che si mostra, che fa mostra di quello che sa, del suo impeccabile eloquio e nel mio caso, questo far mostra, alle prime, risulta un grande aiuto al mio ego e poi diluisce nello sconforto, nella fatica e alla fine, con addosso il senso di colpa di non farcela più, il mio corpo torna a parlare e dice basta, chiude la festa, come le mamme all’ora del coprifuoco.

Nei mesi di malattia e di assenza ho ripensato allora al senso e ho scorto sempre questa doppia anima della scrittura: quella intima e quella mondana, quella della stanzetta e quella del salotto, quella della posizione supina e quella della conferenza. E io mi sono via via trovata accanto ai supini e ai malinconici, a quelli che vorrebbero fare tutto e poi non riescono a far niente, a quelli con le coliti e con le neuropatie, a quelli con la testa in fiamme.

La malattia ha fatto parte di molte vite, soprattutto delle ultime fasi della vita di tante scrittrici, come di tanti scrittori. Di recente, studiando le biografie di alcune scrittrici nordamericane, mi sono resa conto che sono morte quasi tutte o per un attacco di cuore o per un cancro al seno – Sarah Orne Jewett, Mary E. Wilkins Freeman, Charlotte Perkins Stetson Gilman, Alice Dunbar Nelson – cuore e seno, cuore e seno, che sono cosa unica e possono dolere insieme. Oppure, ed è il caso che più degli altri mi è indimenticabile, sono morte malate, povere, ignote, sepolte con una colletta di quartiere in una tomba senza nome. E’ infatti il 1973 quando Alice Walker individua una tomba tra le erbacce per farla rinominare e dire: qua sta la morte di Zora Neale Hurston, scrittrice nera del Rinascimento di Harlem, finita così perché i suoi editori non le pagavano i diritti e l’hanno lasciata sola.

Ma non è tanto questa ultima fase della vita e della malattia di cui mi voglio occupare qui – seppur è quella che più mi mette spavento – ma dei malanni lunghi, compagni di vita e presenze ingombranti delle ore dedicate alla scrittura.

Molte delle scrittrici che mi sono più care erano di quelle che vivevano in disparte, che si sono sottratte al rumore della vita, che hanno trovato barricate nella scrittura. Ho scoperto la scrittura con loro, la lettura con loro, a ognuna collego una fase di vita, di tribolazioni. Quando leggevo Jane Austen per esempio ero ragazzina, scoprivo Mr. Darcy e mi innamoravo del suo piglio altero, percepivo molta distanza dai miei compagni e dalle mie amicizie, già l’unica a vivere in una casa stracolma di libri che quasi era un peccato dirlo. Per molto tempo si è creduto che Jane Austen fosse stata in ottima salute – anche io la credevo con la sua cuffietta intenta a sorridere e scrivere, forse in un bosco, come direbbero i bambini – fino ai suoi quaranta anni, ma non era così. Da sempre suscettibile a infezioni, venne colpita anche da congiuntiviti molto gravi che non le permettevano di fare la cosa che più amava e cioè scrivere. Ai tempi della pubblicazione di Orgoglio e pregiudizio, già soffriva di immunodeficienza e per un linfoma che probabilmente la uccise anni dopo. Austen combatté contro la sua salute debilitata per scrivere altri quattro romanzi e verso la fine la sua disillusione e le tinte più cupe arrivarono anche alla stesura di Persuasione, così lontano dai frivoli e divertenti romanzetti epistolari che scriveva da bambina e che vedevano damigelle svenire troppo spesso sui divani altrui. Vicine per me a Jane, caposaldo della mia adolescenza, vi sono state sempre le sorelle Brontë, con le pagine sgualcite di Jane Eyre e Cime tempestose e la ostinata voglia di trovare qualcosa da scrivere anche io, che fosse potente la metà di Heathcliff. Tutta la famiglia Brontë, è risaputo, soffrì a causa della tubercolosi, arrivata tramite il collegio a cui andarono le sorelle minori, quel collegio che fece da modello per la triste scuola di Jane Eyre: la bambina che scopre la morte troppo presto, negli occhi vuoti della sua compagna ammalata. Tutti in famiglia soffrivano, pare, di crisi depressive e di ansia sociale, come Emily, che creò il suo mondo tempestato e tempestoso in Heathcliff e nel suo non avere dimora se non nel perduto.

All’università mi appassionai di letteratura americana, lasciando da parte il lungo periodo inglese, con qualche passaggio in terra russa, e scoprii Il cielo è dei violenti e Flannery O’Connor. Dal romanzo mi staccai per regalarlo a un rugbista, visto una volta per un caffè su una panchina, troppo sportivo per i miei crolli di nervi e la fiacchezza. Ma da lei no, e cercai le sue lettere, le sue lezioni di scrittura. Scoprii così cos’è il lupus, la malattia che la costrinse alla fattoria di campagna con la madre e con numerosi pavoni. O’Connor non poteva fare le scale per dormire al piano di sopra, aveva il volto sfigurato dalle medicine ma ogni mattina, sette giorni alla settimana, scriveva e molti credono senza quella malattia lei non avrebbe scritto ciò che ha scritto, molti credono che la vita di Flannery O’Connor sia perfetta per un romanzo di Flannery O’Connor. A me la sua potenza e lucidità hanno sempre messo paura, vi ho visto del fuoco dentro, di chi potrebbe esplodere da un momento all’altro e scoperchiare la casa, buttare giù la città.

Ci ho messo un po’ ad avvicinarmi alla letteratura italiana, non quella studiata, ma quella scoperta e ci ho messo un po’ ad arrivare a Fabrizia Ramondino, che in comune con queste donne ha ben poco, e anche in comune con me perché sì, lottò a lungo contro sé stessa, e sì, rimase molto sola nell’ultima parte della sua vita, quasi isolata, ma per il resto si mosse tanto e tanto fece, con il volontariato, con l’attività militante, con le lotte. Eppure, nel suo caso, più che mai, mi sono chiesta: e se lei non fosse stata la donna dei ricoveri e del rapporto con l’alcool, se lei non fosse stata complicata, fragilissima e fortissima insieme avrebbe scritto L’isola riflessa? Avrebbe scritto Passaggio a Trieste? E’ la debolezza che ha reso forte la scrittura o è la scrittura che rende deboli, che tira fuori dal mondo a forza e toglie peso alla realtà, alla carne e alle ossa?

Me lo chiedo guardandomi intorno in quello che a volte mi sembra un movimento vorticoso, dove l’esserci col corpo sembra necessario, dove scrivere è una performance da rinnovare di volta in volta, dove chi scrive deve avere sempre la cosa giusta da dire, paladino di una società a cui servono riferimenti, esimi comportamenti. Chi scrive è porta bandiera, si erge, si dichiara infallibile e su tutto predica, di tutto sa. A me questo potere mette addosso terrore, questa pretesa di onnipotenza, questo doversi dimostrare adatti a ogni circostanza e capaci di fare ogni cosa, di reggere ogni ritmo. Il doversi scusare se invece vogliamo scrivere, avere il tempo per farlo, se ci dichiariamo impossibilitati, fuori dai giochi, disperati. Perché come dice Woolf nella condizione malata c’è la condizione infantile, c’è lo spazio per dire tutto, c’è l’assenza di pudore e c’è l’incoscienza. La posizione supina o distesa è quella di chi fantastica, di chi proietta nel famoso corridoio le voci distanti e alle voci dà dei volti e ai volti dà storie e di quelle storie fa pensiero fisso, finché non trova un pezzo di carta e scrive.

La malattia mette tra parentesi tutto e fa cadere i vezzi e le pose, ci fa scrivere anche di quello che non potremmo mai scrivere, ci leva i pudori e ci fa provare emozioni radicali, in contatto con tutti i radicali che ci hanno preceduti, e sempre per dirlo con le parole di Virginia Woolf: “La malattia nella sua regale sublimità spazza via tutto questo e lascia soltanto Shakespeare e noi”. Ed io vorrei a volte essere una malata tollerata e tollerabile, senza nulla togliere ai sani e ai santi, di cui va fiero il mondo.

Giulia Caminito (Roma, 1988), scrittrice. Laureata in Filosofia politica. Ha esordito con il romanzo “La grande A” (Giunti, 2016), seguito da “Un giorno verrà” (Bompiani, 2019) e da “L’acqua del lago non è mai dolce” (Bompiani, 2021), finalista al Premio Strega e vincitore del Premio Campiello 2021.